Prima lezione sul linguaggio
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Prima lezione sul linguaggio

  1. 130 pagine
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Prima lezione sul linguaggio

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Più di ogni altro segno, le parole accompagnano ogni nostra esperienza: le più personali e private e le più pubbliche, le più abituali e le creazioni più straordinarie della fantasia e del pensiero scientifico. Questo libro ci introduce a capire radici, modi, effetti del nostro parlare e, forse, a controllarlo meglio.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858101834

Le parole tra memoria e progetto

Le parole, le frasi, la lingua abitualmente parlata hanno radici profonde nella nostra vita psicologica e nella nostra costituzione fisica. Per chi è interessato a capire come funziona il linguaggio umano questa è la prima cosa di cui vale la pena rendersi conto. Osserviamola più da vicino.
Le parole circondano il presente, ogni istante del nostro presente. Ci accompagnano quando parliamo con altri o leggiamo e scriviamo, ma anche nel silenzio e perfino nei sogni. E dal presente più immediato si distendono verso il passato e si protendono verso il futuro, coinvolgendo anche pensieri, volontà e coscienze umane.
Dalla prima infanzia le parole impegnano la capacità di memoria degli esseri umani e attraverso essa legano il presente al passato.
Il passato cui abbiamo accennato è anzitutto quello a termine brevissimo, fatto in genere di pochi secondi, sei o sette secondo gli psicologi. È un passato che nella percezione comune, irriflessa, ci appare fuso e confuso con l’immediato presente, ma che in realtà presente non è o già non è più. Osserviamo: mentre diciamo o scriviamo le parole di una frase dobbiamo tenerle a mente per seguitare a dire e scrivere parole coerenti con quelle appena usate e con il progetto di frase che, in genere, abbiamo in mente. La nostra voce o la mano con cui scriviamo o digitiamo è guidata dal progetto di frase e dalla memoria a breve che ne abbiamo. Anche mentre ascoltiamo o leggiamo dobbiamo fare qualcosa di analogo, dobbiamo a ogni momento che passa ricordarci quello che abbiamo appena udito o letto per ricostruire infine, dopo qualche secondo, l’intera frase che qualcuno ha realizzato per noi.
Molto prima degli psicologi e dei neurologi che da poco più d’un secolo studiano la memoria, molto prima dei non molti linguisti che si occupano della relazione tra parole e memoria, di ciò, di questo stretto rapporto tra la parola e il passato più brevemente trascorso, si avvide assai bene già sant’Agostino (354-430 d.C.). Anche per questa sua attenzione egli è restato per secoli il più acuto esploratore introspettivo della memoria. Oggi disponiamo in proposito di ricerche sperimentali e di nozioni teoriche più sofisticate. Ma il modo in cui Agostino descrive la memoria a breve termine e in particolare la memoria linguistica è ricco di formulazioni che ci appaiono ancora nitide e adeguate (De musica, VI 8, 21, De Genesi ad litteram XII 16, 33, Confessiones XI 27, 34-28, 38). Il tener fermo nella memoria a breve termine ciò che si viene esperendo è una precondizione necessaria per fissare il profilo della frase che una voce o un testo vengono realizzando e questo ci è indispensabile per connettere fine e inizio e quindi per capire ciò che ascoltiamo o leggiamo. Inoltre nelle Confessioni Agostino nota con acutezza che tale precondizione è ­necessaria anche per tenere fermo in mente il progetto di esecuzione di una frase, di un canto. Eseguiamo nel tempo la realizzazione di una frase. Senza tenere a mente il progetto della frase mentre la diciamo o scriviamo, non sapremmo realizzare la frase. Senza la memoria a breve termine non sapremmo produrre la sequenza di parole di una frase intera. Quella che gli psicologi chiamano ‘memoria a breve’ deve essere continuamente al lavoro per consentirci di programmare di dire e per effettivamente dire cose che abbiano una direzione, un senso, e per intendere direzione e senso delle parole altrui. Dunque da un lato il nostro passato più immediatamente prossimo pesa sul nostro istantaneo parlare e sul comprendere parole di altri. E, d’altro lato, nel parlare e nell’intendere, le parole ci obbligano a riconnetterci a quegli istanti appena trascorsi. Le parole, insomma, ci obbligano a tenere continuamente attivo un ponte che, attraverso la memoria a breve termine, collega il presente e il passato appena trascorso.
Possiamo tutti osservare e sappiamo oggi anche sperimentalmente che dopo alcuni secondi la memoria a breve termine tende in generale a svanire dalla nostra consapevolezza. Essa è sostituita, anzi è incalzata da altre memorie a breve che si succedono. Ma non tutto si perde nelle distese del passato. Dalla memoria a breve, molte esperienze e in particolare l’esperienza che abbiamo delle parole passano in buona parte nella memoria a lungo termine e in essa si depositano. È forse suggestivo credere che parole molto lette o dette o ascoltate si consumino, come sassi che rotolano troppo per troppi secoli e millenni. Ma questo può valere e vale per parole relativamente rare messe alla moda da qualche snobismo intellettuale o da trovate pubblicitarie. Del resto, il fastidio per parole alla moda troppo dette non va confuso con la dimenticanza. In generale, invece, le parole che più abbiamo bisogno di dire o capire e che più spesso, quindi, sentiamo, leggiamo o diciamo, quelle parole attraverso i mille e mille loro passaggi nella memoria a breve termine rifluiscono poi nello spazio della memoria a lungo termine. Qui, come sappiamo anche sperimentalmente, parole che già vi erano rafforzano e precisano la loro fisionomia ogni volta che le replichiamo o ne udiamo una replica. E spesso anche le parole nuove che udiamo o leggiamo per la prima volta e che capiamo o cerchiamo di capire vanno a depositarsi accanto alle parole già memorizzate. E lo stesso vale per le parole che, pur raramente, eccezionalmente, possa accadere di foggiare per la prima volta.
Abbiamo detto spesso, e non abbiamo detto sempre: la memoria a lungo termine ha dei limiti e lascia da parte parole che ci cadano sotto gli occhi solo qualche volta senza suscitare interesse. Come sappiamo dagli studi di lessicologia1, nei testi e discorsi prodotti nella lingua di un popolo di lunga tradizione e di complessa articolazione produttiva, sociale e culturale, esistono centinaia di migliaia di parole, anzi, se mettiamo nel conto anche le terminologie di scienze come la chimica, la zoologia, la botanica, nei testi scritti e nei discorsi pronunciati in una lingua appaiono milioni di parole diverse. I dizionari generali, anche i più estesi, ne registrano soltanto alcune centinaia di migliaia. Si tratta in grandissima parte di parole note solo a ristretti gruppi di persone specializzate in una particolare attività di lavoro o di studio. Del mare di parole apparse nei testi di una lingua una persona linguisticamente molto colta e di buona memoria serba in mente solo alcune decine di migliaia di parole che, all’occorrenza, sa riconoscere e capire e sa usare sensatamente, estraendole appunto dalla sua memoria a lungo termine.
Lo spazio della memoria a lungo termine è per un certo aspetto uno spazio privato, personale, nel senso che non può avere e non ha un contenuto identico per ogni essere umano. E quindi per questo aspetto la precisa configurazione del patrimonio di parole memorizzate è privata, personale. Solo i pochi componenti di un nucleo familiare conoscono le parole di quel «lessico famigliare» che, in un caso esemplare, fu illuminato dalla memoria poetica di una grande scrittrice, Natalia Ginzburg. Nelle società e nei paesi in cui l’istituto familiare ha un peso ogni famiglia ha tracce di dialetti di remota origine (le venete negrigure del padre della Ginzburg) o di scherzi e deformazioni infantili, di qualche familiare quando era infante o quasi: parole che si ha pudore di esportare fuori della cerchia più ristretta, più riservata. Ma con maggiore ampiezza sociale e rilevanza intellettuale lo stesso accade per altri gruppi che si formano entro una comunità linguistica. Solo un avvocato o una giudice conosce e sa usare parole come institore o soccombenza e capisce o usa alcune altre migliaia di parole che invece, per esempio, una mineralogista ignora, ma capisce che vuol dire cubaite. Giuristi e mineralogisti ignorano parole come lochiazione, note invece a un ostetrico, o come solenoidale, chiara a una professoressa di matematica, o come cucchiaino, ovvia per un muratore, che a sua volta ignora le parole di quelli e tutti rischiano imbarazzo dinanzi a stagflazione e altre parole degli studiosi e teorici dell’economia. Ci sono poi i gruppi regionali. Un italiano di famiglia siciliana conosce e può usare la parola scarrozzo, i friulani si salutano con un allegro mandi!, mal comprensibile ad altri italiani. Il gruppo di quelli che conoscono una lingua straniera si riconosce allo stesso modo: un italiano che conosca il tedesco capisce e magari usa parole come gemüt­lich o gespannt, ignote in Italia ai più. Insomma, le parole che una persona conosce sono in gran parte condivise da lui solo con una cerchia relativamente ristretta, talora poco più che familiare. E tuttavia tra le parole memorizzate dalle persone componenti di una stessa comunità c’è certamente un nucleo comune di alcune migliaia di parole, di cui ci serviamo ogni giorno per farci capire da persone lontane dal nostro gruppo professionale, regionale, sociale e per capire a nostra volta queste persone.
Tutte queste parole, le comuni e le altre differenti a seconda dei gruppi sociali e delle esperienze personali e di studio, mettono in rapporto a ogni istante ogni essere umano, nel suo sempre fugace presente, con il passato personale e non solo personale. Sia le parole più largamente comuni sia quelle che condividiamo con gruppi più ristretti le serbiamo nella memoria personale, ma non appartengono solo a noi. Quasi ogni parola che possiamo ricordare, forse tutte, e certo tutte le più importanti e usuali sono parole che abbiamo udito dai nostri cari, dalle persone con cui siamo venuti in contatto, da ciò che abbiamo udito con qualche attenzione, da ciò che abbiamo letto.
Una volta un gentile poeta italiano, che era un valoroso giurista, ha scritto: Ho imparato da te tante parole. / Ogni parola / un compagno. Ogni parola / il volto d’una persona amica. E un altro poeta, più grande (se graduatorie sono da fare nella poesia) e più noto, Eugenio Montale, ha scritto: Le parole / sono di tutti e invano / si celano nei dizionari. Se la configurazione del patrimonio di parole che conosciamo è personale, gli elementi della configurazione ci vengono di lontano: da punti e persone distanti nella realtà sociale e geografica e, soprattutto, da epoche lontane nel tempo, come è stato acquisito con sicurezza dagli studi di linguistica storica e comparativa2.
Anche se non sappiamo di storia, anche se non ne leggiamo e sentiamo raccontare o ne raccontiamo, ogni parola che usiamo per capire o farci capire ci viene dal passato e ci lega al passato e non solo al nostro passato personale, ma a quello del gruppo familiare e dei gruppi umani e, più oltre, del popolo cui apparteniamo e dei popoli noti o dimenticati che usarono parole e lingue da cui, trasformandosi in parte nel tempo, sono nate le nostre. Ogni parola ci lega alla storia.
Ma parole e memoria hanno anche un altro rapporto, non meno profondo. Finora abbiamo presentato la memoria come un deposito, con le sue scaffalature robuste capaci di ospitare migliaia e, nei casi individuali migliori, decine di migliaia di parole diverse. È un po’ l’immagine che se ne faceva il popolano di un bel sonetto di Gioachino Belli: un magazzino de dogana. Ma oggi sappiamo che le parole non sono merci scollegate e inerti in un magazzino che entro ampi limiti resta a sua volta inerte al loro depositarvisi. Il magazzino è il nostro cervello, che è un insieme sempre in movimento, un insieme dinamico di miliardi di cellule nervose, i neuroni, ciascuna legata ad altre in miliardi e miliardi di diversi circuiti. La neurolinguistica da qualche anno sta cercando di esplorare in che modo una parola che entra nel magazzino si connette ad altre e alle memorie di altre nostre esperienze. Le frontiere della ricerca avanzano rapidamente, ma, con quel che già sanno, linguistica, psicologia e psicoanalisi ci dicono che ciascuna parola non vive in solitudine3. Non solo si connette ad altre parole, affini per la forma o per il senso o per prossimità nell’uso abituale, ma si connette in modo profondo alle esperienze con cui il suo uso ha avuto a che fare.
La connessione è qualcosa di più di una semplice giustapposizione. È una connessione profonda, vitale. Anzitutto con la sua presenza la parola rafforza memorie cui sia connessa. Per esempio, più aggettivi e nomi di colori conosciamo, e cioè più e meglio articoliamo il campo semantico del colore, meglio distinguiamo i diversi colori e però, d’altra parte, meglio e più lavoriamo e viviamo distinguendo i colori, come fanno i pittori, i restauratori o i tessili o le molte donne più dei maschi attente all’abbigliamento e all’arredamento, e meglio impariamo a capire nomi e aggettivi di colori. Altro esempio noto è il campo semantico della neve. Chi vive sempre in città vede e nomina, se gli capita, la neve, ma già il provetto arrampicatore su ghiaccio o lo sciatore nomina perché vede e sa riconoscere nevi diverse. E, dove gli europei vedono e nominano solo la neve, gli inuit, gli eschimesi, vedono e nominano decine di nevi diverse. Il campo semantico è articolatissimo in funzione di loro esigenze vitali. Ma, senza costringerci ad andare fino al Circolo Polare, una valorosa studiosa francese, Henriette Walter (n. 1929), in un suo libro tanto piacevole quanto istruttivo, L’avventura delle lingue in Occidente, ha richiamato l’attenzione sul banale (per gli italiani) campo semantico della pastasciutta. Possiamo constatare che dove il non italiano vede o chiede un piatto di pasta, un italiano distingue, nomina e di volta in volta cucina o pretende in modo sottilmente differenziato spaghetti, vermicelli, fusilli, spaghettini, bucatini, capellini, maccheroncini, zita, penne e mezze penne, tagliatelle, tagliolini, pappardelle, maltagliati... a non parlare di ravioli, ravioloni, raviolini, tortelli, tortellini, tortelloni, cappelletti, cappellacci e altre decine di parole delicatamente interrelate nella pratica semantico-culinaria degli italiani.
È un problema controverso capire fino a che punto la percezione sensoriale stessa sia determinata dalla presenza o assenza della memoria e conoscenza di certe parole. Certo, dalla presenza o assenza è orientata la consapevolezza articolata di ciò che esperiamo e, con la consapevolezza, è orientata la memoria.
Il gioco mutuo tra esperienze, memoria e parole fa sì che, come la madeleine, il pasticcino in A la recherche du temps perdu di Marcel Proust, ciascuna parola può fungere da capo della matassa in cui si avvolgono i ricordi delle nostre esperienze. Essa è spesso il filo rosso che collega ricordi disparati e li dipana.
E infine è anche certo che molte parole stanno nella memoria raccolte non solo in associazioni e campi semantici, ma contigue con altre in sequenze più o meno ampie: proverbi ed espressioni proverbiali, filastrocche, indovinelli, battute e barzellette, motti, titoli di opere, frasi celebri, preghiere, operazioni e formule matematiche e teoremi, poesie, romanze, canzoni. A ciascun pezzo di questo materiale composito diamo il nome di ‘mema’ (in inglese meme). I memi sono le unità funzionali della nostra memoria. Anch’essi sono una proprietà privata e, insieme, condivisa e pubblica. Più ancora di singole parole, i memi creano un collegamento sia con la nostra famiglia, con gli amici più stretti, col gruppo sociale cui apparteniamo sia con l’insieme di gruppi che costituiscono un popolo e una nazione.
Così le parole rioperano sulla memoria e costituiscono un elemento forte della nostra identità ­personale, familiare, sociale, culturale, nazionale. Si capisce perciò che molti popoli, anche quando hanno appreso e usato altre lingue, hanno però conservato gelosamente la propria nativa e tradizionale. Giapponesi e coreani appresero nei secoli e usano ancora il cinese mandarino e i suoi ideogrammi, ma non hanno abbandonato le loro lingue native, che anzi mantengono ben vive. Nell’Europa medievale le classi appena istruite conservarono o appresero tutte il latino, ma all’ombra di questo rinsaldarono le loro parlate vulgares, popolari (theotisca lingua, tedesco, questo voleva dire: lingua del vulgus, del popolo), c...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Le parole tra memoria e progetto
  3. In che modi le parole ci sono presenti
  4. La naturale interattività dell’uso delle parole
  5. La intrinseca complessità dell’uso delle parole
  6. Il linguaggio come forma di interattività semiotica
  7. Il linguaggio come semiotica
  8. Una semiotica a segni articolati e non articolati: semeîon antilegómenon
  9. Una semiotica non non-creativa
  10. Gli argini della non non-creatività
  11. La creatività linguistica tra determinatezza e indeterminatezza