Noi e l'Islam
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Un incontro possibile?

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Che cosa significa oggi essere 'cristiani' e che cosa essere 'musulmani'? Tra le due fedi e i due popoli è possibile un'intesa, o quanto meno un confronto basato sul dialogo anziché sull'incomprensione reciproca? La storia dei rapporti tra Islam e Occidente, la conoscenza degli aspetti più importanti della civiltà musulmana ci aiutano a meglio comprendere il presente e il futuro del pianeta globale in cui viviama.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858124246
Argomento
Economia

La parola e la legge

Ecco, sei incinta,
partorirai un figlio
e lo chiamerai Ismaele,
perché Dio ha ascoltato la tua afflizione.
Egli sarà come un ònagro;
con la sua mano sarà contro tutti
e la mano di tutti contro di lui
e abiterà di fronte a tutti i suoi fratelli.
Genesi, 16, 11-12
Così dice l’Angelo del Signore – che nei testi antichi è in realtà Dio stesso, nella forma in cui compare agli uomi-ni – ad Agar l’egiziana, la schiava di Abramo cacciata a causa della gelosia di Sara sposa legittima del Patriarca. Ismaele, Ishma’el: «Dio ascolta». Jahvè aveva udito, nel deserto, il pianto miserevole dell’abbandonata. Poco dopo (Genesi, 21, 18), l’avrebbe assicurata di nuovo riguardo al destino del figlio ch’essa aveva avuto da Abramo: «...io ne farò una grande nazione». Quel bambino che avrebbe abitato nel deserto e sarebbe diventato gran tiratore d’arco è indicato, nella Bibbia, come il capostipite degli arabi. Di Ismaele parla più volte il Corano, a partire dalla grande, fondamentale Sura della Vacca: «Noi abbiamo affidato una missione ad Abramo e a Ismaele: ‘Purificate la mia casa’» (Corano, II, 126). Nell’affidare per sempre ad Abramo e a suo figlio la cura della Santa Casa della Mecca, Allah clemente e misericordioso stringe un nodo eterno fra Sé, la fede di cui Muhammad si fa nabi (profeta) e la gente araba: tale nodo viene consacrato dall’uso della lingua araba «pura e perfetta» nel Libro Santo.
Ma perché proprio gli arabi? E chi erano, chi sono, gli arabi?
Che essi appartengano al «ceppo» semitico non ci dice ormai più nulla, dal momento che il concetto di «semitico» è linguistico e qualunque sua estensione sul piano etnico è indebita. Parlarono e parlano lingue semitiche genti appartenenti a stirpi diverse – iranica, armenoide, etiopide – ciascuna delle quali comprendeva e ancora comprende gruppi che usano lingue di altra origine. Colui che la Bibbia designa come il capostipite comune di ebrei e arabi, Abramo, dovrebbe appartenere ai secoli XIX-XVIII a.C. ed essere in relazione con il misterioso gruppo degli habiru, gente di lingua semitica che sembra essersi stanziata dal XX secolo a.C. nella Bassa Caldea. Pastori, guerrieri, razziatori inquieti; li vediamo lungo l’intero II millennio a.C. percorrere in lungo e in largo l’intera «fertile mezzaluna» dalla Caldea alla Mesopotamia alla Siria fino al litorale di quella che sarebbe stata più tardi la Palestina. Invisi alle popolazioni di agricoltori sedentari dell’area, li troviamo soldati mercenari, predoni organizzati in bande armate, servi volontari. Sono designati con il termine habiru o hapiru, una parola che sembra della medesima radice da cui provengono il nome del patriarca Abramo e quelli dei popoli ebreo e arabo. A quel che pare, habiru avrebbe il significato di «nomade», «vagabondo». Forte la tentazione di avvicinarlo all’abitante della steppa, della «solitudine»: il badw. Al beduino.
Per quanto gli studiosi non siano d’accordo sull’origine degli arabi, li troviamo comunque tra II e I millennio a.C. già insediati un po’ in tutta la penisola che da essi prende nome; e già da allora forte appare la distinzione, conservatasi fino ai giorni nostri, tra le genti del Meridione – la civiltà dei quali, sedentaria ed agricola, è più antica – e quelle del Settentrione della penisola, nomadi e pertanto pastori e allevatori di cavalli e di cammelli, ma anche razziatori e mercanti. Nell’Arabia Felix dei romani, lo Yemen, si erano succeduti regni floridi come quelli dei minei e poi dei sabei: quest’ultimo, reso famoso anche dalle leggende bibliche di Salomone e della «regina di Saba», fu invaso a più riprese dagli etiopi tra IV e VI secolo d.C. Nel Nord si era invece costituito a partire dal V secolo a.C. il regno arabo dei nabatei, con centro nella città oggi giordana di Petra; esso fu fortemente ellenizzato a partire dal IV secolo a.C. e, dal I d.C., divenne vassallo di Roma. Un po’ più a settentrione l’altro regno arabo di Tadmor o Palmira, in Siria, prosperò come alleato e quindi come suddito di Roma. Si parla di una romanizzazione del mondo arabo-siro, e senza dubbio ben a ragione; ma non si deve dimenticare il reciproco. Durante il III secolo Roma conobbe molti imperatori siri e anche arabi; e se verso il 271 Settimia Zenobia regina di Palmira fosse riuscita davvero a legittimare come Augusto il proprio figlio Vaballato e avesse vinto il braccio di ferro con Aureliano, la storia del mondo intero sarebbe stata forse diversa.
Il deserto viveva. Dal Negev, al sud del Mar Morto, fino allo Yemen, tutto il mondo arabo era solcato dalla rete viaria detta «delle spezie» o, più semplicemente, «dell’incenso». Nei punti d’incrocio delle vie mercantili sorgevano centri opulenti, le «città carovaniere». La «via dell’incenso» che percorreva la costa occidentale della penisola arabica dallo stretto di Bab el-Mandeb sino a quella che i greci chiamavano Leuke Kome (al-Hauran), giungeva a nord fino a Petra, a Palmira, a Damasco. Un’aristocrazia di ricchi proprietari terrieri e di floridi mercanti, organizzati in tribù distinte in grandi gruppi consortili, dominava le città. I romani non conobbero mai in modo diretto la vera e propria penisola arabica: si fermarono all’Arabia Petraea conquistata da Traiano nel 105 e alle coste peninsulari, particolarmente fertili. S’immaginarono pertanto che anche l’entroterra lo fosse altrettanto; e all’aggettivo felix aggiunsero un giudizio moralmente duro e sprezzante contro i suoi abitanti che, a causa delle correnti teorie etnoclimatiche, vivendo in paesi caldi venivano considerati vili, lascivi, corrotti. Le spezie costose e i raffinati profumi che dall’Arabia provenivano radicarono questo giudizio, poi divenuto uno degli ingredienti dell’orientalismo moderno: gli Arabes erano molles, voluttuosi ed effemminati; il che non impediva loro di esser crudeli.
Sulla «via dell’incenso» transitavano prodotti provenienti da paesi lontani. Al Bab el-Mandeb giungevano difatti le favolose merci provenienti dall’India e dalla Cina attraverso le molte diramazioni della «via della seta» centroasiatica e gli itinerari marittimi che solcavano l’Oceano Indiano sfruttando il regime dei monsoni; i cinesi della dinastia Han, tra II secolo a.C. e III d.C., conoscevano la lontana città di Li-kan, capolinea del loro commercio: essa non era se non l’araba Petra.
Nelle città carovaniere, i culti s’incrociavano e si confondevano. Le credenze mitico-religiose fondate sulla divinizzazione degli astri e sull’adorazione delle pietre meteoriche ritenute bethelim, «case di Dio», importate dalla Mesopotamia e ricche di suggestioni mazdaiche provenienti dalla Persia, convivevano con quelle cristiane di sparse ma fiorenti comunità monofisite o nestoriane e con quelle ebraiche sostenute da alcune potenti tribù, presenti in molte città quali – soprattutto – Yathrib. I figli d’Ismaele non avevano dimenticato le loro radici spurie, benedette da Jahvè, ma insidiate dal cupo sangue egizio di Agar: sangue di maghi, di idolatri, di devoti delle stelle.
Abituati a un sincretismo sontuoso e superstizioso, gli arabi dei centri carovanieri del tempo della jahiliya (come i musulmani avrebbero chiamato l’era del paganesimo preislamico, «l’ignoranza») si trovavano contesi tra i due grandi imperi nemici al margine dei quali essi risiedevano: il bizantino e il sasanide di Persia. Due principati arabo-cristiani satelliti dei grandi contendenti si erano sviluppati frattanto, al margine nord dell’area arabica: in Siria i Gassanidi alleati di Costantinopoli; a ovest del basso corso dell’Eufrate i Lakhmidi appoggiati alla capitale del Gran Re, Ctesifonte. I persiani ambivano a controllare le vie carovaniere che partivano dal Golfo Persico; i bizantini, con l’aiuto dell’impero etiope, facevano loro concorrenza tentando di rafforzare quelle che interessavano il Mar Rosso e lo Yemen. D’altra parte, alla metà del VI secolo il dominio del «Re dei Re» etiope di Aksum si estendeva su parte dell’Arabia sud-occidentale. Terra contesa, terra di frontiera, terra di carovane. Questa la forza e la debolezza della patria degli arabi.
Ma chi sono i veri arabi? Da quali tra gli abitanti della penisola è davvero scaturito l’Islam? Per rispondere, bisogna guardare a quelli che i bizantini chiamano sarakénoi (figli di Sara) ma che sono piuttosto agarenoi, figli della schiava Agar: agli uomini del deserto.
Per i contadini della «fertile mezzaluna» che vivono sulle rive del Tigri, dell’Eufrate, dell’Oronte, del Giordano, non meno che per i sapienti e raffinati coltivatori di essenze preziose dell’Araba Felix, e ancora per quelli che lavorano la grassa terra alluvionale del Nilo, il deserto è il regno dell’Altrove: la siccità, il sole spietato di giorno e il freddo tagliente la notte, i rettili e gli insetti velenosi in agguato tra le pietre e sotto la sabbia; la sete, la solitudine senza confini, la morte. Gli dèi hanno maledetto il deserto, dove soffiano i venti della follìa e della malattia: i dèmoni.
Pure, nel deserto c’è chi sopravvive. D’oasi in oasi, di pozzo in pozzo, a piccole tappe e magari viaggiando di notte, il mare di pietra e di sabbia si può attraversare. La vita è dura, ma valido il soccorso di un amico scontroso eppur fidato: il cammello a una sola gobba, il dromedario, che può percorrere fino a cento chilometri in un giorno e portar carichi fino a duecento chili; che sa vivere giorni e giorni con l’acqua e il grasso immagazzinati nel suo sgraziato, generoso corpaccio.
Gli dèi hanno maledetto il deserto; ma il Dio di Abramo lo predilige. La Parola divina soffia rovente e impetuosa fra le alture desolate, fra le rocce e gli sterpi; alita là dove non sembrano esservi uomini in grado di ascoltarla.
Secondo la Bibbia, la religione comincia con i riti successivi alla cacciata dal Paradiso, quando Caino e Abele sacrificano alla Divinità che apprezza i doni del pastore (dell’uomo del deserto) piuttosto di quelli del contadino-fabbro (dell’uomo delle attive e operose comunità sedentarie). Nel millenario contrasto fra nomadi e insediati, fra pastori-allevatori e contadini-artefici, l’uomo del deserto è il più pio; ed è la vittima. Eppure sarà facile farlo passare come il violento, l’aggressore; e in effetti è lui a conoscere i crudeli segreti del sacrificio; è lui a sapere come si uccide la grassa vittima, come la si dissangua, come se ne estraggono le viscere e se ne tagliano le carni per abbrustolirle.
Gli dèi sono proiezioni dell’animo o delle forze della natura; nascono dai grandi fiumi, dalle nubi minacciose, dai picchi innevati, dai mari in tempesta. Ma chi conosce il rumore del vento la notte sul Sinai, chi ha provato anche una volta sola il silenzio abbagliante del sole torrido sulla sabbia e sulla pietra a perdita d’occhio, chi ha sentito il brivido di freddo sotto la volta stellata e ha visto la colonna di nera sabbia che si leva vorticosa all’orizzonte, sa bene come il Dio creatore, il Signore onnipotente, lo Spirito che soffia dove vuole abbia soffiato nel deserto tra il Sinai e l’Arabia. Il silenzio del deserto parla dentro; ad ascoltarlo, sconvolge. È accaduto ad Abramo, a Mosè, a Isaia, a Gesù presso Gerico, a Muhammad nella grotta del monte Hira allorché l’arcangelo Gabriele lo ha visitato recandogli il Santo Libro.
Per molti secoli i figli del Patriarca e della schiava egizia vagarono nel deserto. Fedeli ai loro progenitori, avevano mantenuta intatta la fede nello Elohim abramitico (Allah, per loro), mischiandola però con molte credenze naturalistiche ed astrali. Le chiare notti del deserto invitano alla lettura dei segni infocati del cielo. Oggetti di adorazione divengono i meteoriti caduti dall’alto, i bethelim: la pietra nera della Kaaba, nel santuario della Mecca, è uno di essi. I figli del deserto non dispongono di veri e propri sacerdoti (cohen in ebraico); ma conoscono il loro semanticamente parlando parente stretto, il kahin, «veggente», «indovino». Accanto e immediatamente sotto ad Allah, il Creatore e Dio unico, essi venerano – almeno nell’Arabia centrale – le tre divinità femminili dette banat Allah, «le figlie di Allah»: Manat («il Destino»), Allat («la Dea») e la loro Madre, la Magna Mater al-Uzzà («la Possente»). Ancora al di sotto, ecco Iblis e gli esseri demoniaci, e quindi i jinn, i geni come quelli che, al servizio di Salomone, costruivano palazzi e statue.
Si traccia di solito una linea di netto, rigoroso distacco tra gli arabi preislamici, quelli della jahiliya, e quelli che hanno accettato la fede: ed è senza dubbio così. Con Muhammad il politeismo idolatra e il culto astrale scompaiono. Essi restano però radicati, se non nella religiosità, quanto meno nel folklore beduino; e d’altronde neppure il Profeta ha osato toccare la sacra Pietra Nera della Mecca. Al contrario: l’Islam – questa dura fede nella rûh (la ruach ebraica) lo Spirito uno e assoluto che non sopporta né immagini né rappresentazioni – riposa pur sempre sull’antica pietra caduta dal cielo. Dio parla nel deserto; e il deserto parla di Dio.
Bizantini a nord, persiani a nord-est, abissini a sud-ovest; a ovest, al di là del Sinai e del Mar Rosso, ancora Bisanzio che teneva saldamente – ma vedremo tra breve quanto, e in che misura – il prospero e misterioso Egitto del tutto conquistato però all’eresia monofisita. Nel Higiaz, parallela alla costa, correva la grande via carovaniera tra Arabia Felix e Damasco. Essa era l’asse di un vasto territorio in gran parte desertico, l’Arabia centrale, «marginale» in quanto ai confini fra i tre imperi che si contendevano l’egemonia sull’intera area vicino-orientale. Ma era una marginalità attiva, ricca, che manovrava i commerci e che perciò si proponeva, a sua volta, come «centro». Il deserto, le piste delle carovane, i pozzi, le oasi e i centri demici che vi si erano creati erano organizzati da una confederazione di tribù che regolavano la loro vita attraverso un complesso, delicato equilibrio di alleanze e di inimicizie tradizionali, di rispetto degli antichi costumi, di norme non scritte ma tenaci grazie alle quali si gestivano la transumanza, l’uso dell’acqua, la vendetta, il diritto patrimoniale e matrimoniale. Ai primi del VII secolo, allorché Muhammad figlio di Abd Allah, del ramo hashemita della qabila (tribù) meccana dei Beni Quraysh, cominciò a predicare, poche erano in quella regione le vere e proprie città: La Mecca stessa, il centro religioso della penisola; Yathrib, fulcro del traffico di derrate agricole; Taif, dove prosperava la vite e si produceva del buon vino.
Alla Mecca sorgeva un santuario nel quale si concentrava il culto di tutte le divinità adorate dalle genti d’Arabia: un pittoresco pantheon nel quale durante il corso dei secoli si erano dati convegno gli dèi, declassando i loro originari santuari sparsi un po’ dappertutto tra Siria e Yemen. I Beni Quraysh avevano promosso con vigore il culto di Hubal, accanto al quale prosperava la triade femminile delle banat Allah; il centro rituale era tuttavia la piccola cappella della Kaaba che da qualche secolo costituiva la tenda sacra (il bayt, «la Casa») che presso la sacra fonte di Zamzam ospitava un bethel, la Pietra Nera, attorno alla quale si addensavano le memorie di Abramo e d’Ismaele. Si era andato configurando in tal modo, nei secoli, un haram, un «recinto», un santuario caratterizzato da uno spazio sacro ben delimitato: un témenos, come avrebbero detto i greci. Ad esso affluivano ogni anno, secondo un rito calendariale, gli arabi in haj (pellegrinaggio); e presso di esso si teneva la umra (triduo di devozione). Un’intensa, sincretistica, fascinosa attività cultuale si svolgeva attorno a questa sorta di sacro palladio panarabo: v’erano animali sacri distinti da speciali segni e lasciati liberi, ci si accendevano fuochi sacri destinati a vari usi, forse vi si perpetuava ancora il sacrificio umano d...

Indice dei contenuti

  1. Identità imperfette
  2. La parola e la legge
  3. I duellanti
  4. Eclissi, ritorni, risvegli
  5. I figli di Abramo dinanzi alla modernità
  6. Nota bibliografica