1. Il Vaticano II e la nuova storiografia conciliare
Se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e diritto – è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è creatura del Buon Dio, egli è il prezzo della Redenzione divina, è il servitore di Dio, destinato a vivere per Dio quaggiù, e con Dio in cielo. E il rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio, non è che la Chiesa. Allora la Chiesa ha veramente il diritto e il dovere di reclamare la totalità del suo potere sugli individui: ogni uomo, tutto intero appartiene alla Chiesa, perché tutto intero appartiene a Dio. Non c’è dubbio su questo punto, per chi non voglia negare tutto.
Pio XI, 18 settembre 1938, discorso alla delegazione della Conféderation française des syndacats
È risaputo che la Chiesa non ama presentare le sue secolari vicende in termini di discontinuità, di rotture. Le rivoluzioni, i mutamenti epocali sono fenomeni estranei alla sua cultura, intrisa di costanti appelli alla tradizione, all’immobile magistero dei Padri, alle eterne certezze del depositum fidei, alla sua simbolica autorappresentazione agostiniana quale popolo di Dio in provvisorio transito attraverso la città terrena. E tuttavia, per chi guarda dall’esterno con occhi di storico insensibile al fascino misterioso della Provvidenza, riesce veramente difficile considerare il concilio Vaticano II qualcosa di differente da una potente rivoluzione: un’autentica svolta. Una rivoluzione che, al di là delle sue molteplici e talvolta contraddittorie interpretazioni successive volte a depotenziarne gli effetti, appare destinata a influire profondamente e in positivo sui destini dell’Occidente e del mondo intero. Oggi, dopo secoli di dure e impietose condanne, di implacabili requisitorie, la Chiesa parla chiaramente e in ogni occasione ufficiale il linguaggio dei diritti dell’uomo, rivendica con orgoglio di aver ormai «allargato la sua azione di difesa dal campo della Christianitas – e della protezione dei suoi diritti e dei suoi membri – al campo della societas hominum, per tutelare i diritti di tutti gli uomini»; discute con sincera passione di democrazia e spiega agli storici laici, ancora attardati su polverose posizioni anticlericali, la sua funzione strategica e i suoi meriti nell’aver creato gli stessi presupposti della modernità, e in particolare di quella libertà di coscienza di cui i popoli cristiani godono, ad esempio, rispetto alle nazioni islamiche.
Il fatto è che risulta francamente difficile contestare o discutere queste perentorie affermazioni se non si comprendono bene le discontinuità, le ragioni profonde dell’abisso che separa i contenuti dottrinali del Sillabo di Pio IX dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII, o si presta acritica attenzione ai risultati delle ricerche di tutta una storiografia internazionale (ormai assimilabile a una sorta di autentico paradigma storiografico conciliare) che ha accompagnato la diffusione dei messaggi fondamentali del Vaticano II. Tra i protagonisti di questo inedito modo di pensare all’identità e alla funzione della Chiesa nel nuovo millennio spicca certamente la figura del teologo e attuale papa Joseph Ratzinger. Dopo secoli di condanne e di anatemi, proprio da una figura di tale autorevolezza sono venuti interessanti segnali di un atteggiamento assai più complesso e problematico rispetto al passato verso la cultura dei Lumi e il suo progetto emancipatorio di salvezza dell’uomo attraverso l’uomo, che prescinde dall’azione della grazia e relega Dio a un ruolo lontano e distaccato di semplice osservatore. Ratzinger non ha infatti esitato a riconoscere che «il primo passo della storia moderna è stato il sapere aude, usa la tua ragione, dell’Illuminismo», e che l’idea stessa di libertà ha in definitiva acquistato «il suo profilo concreto attraverso l’epoca moderna aperta dall’Illuminismo che intende inaugurare la storia della liberazione dopo una lunga storia della schiavitù e della superstizione». Va da sé che queste pur importanti concessioni non rappresentano certo una folgorante conversione sulla strada di Damasco al deismo o alla religione naturale e civile dell’umanità cara a Rousseau, a Voltaire e a Diderot. Con la sua raffinata sensibilità filosofica e l’acuta percezione della necessità di ridefinire il senso autentico della nuova frontiera di quel dialogo con la cultura moderna avviato dal concilio, l’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha dato l’impressione di voler esorcizzare l’Illuminismo facendolo diventare una sorta di figlio – seppure impertinente e un po’ ribelle – del cristianesimo: «Anche l’ethos dell’Illuminismo, che tiene ancora insieme i nostri Stati, vive dell’influenza postuma del cristianesimo, il quale gli ha trasmesso le basi della sua razionalità e della sua struttura interna». Sulla base di una personale interpretazione delle teorie filosofiche di Adorno e di Horkheimer circa la natura dialettica dei Lumi e il suo inevitabile tralignamento totalitario – allorché la ragione, divenuta autonoma, si trasforma in ragione «positiva del pensiero funzionale», pretendendo persino di «sostituirsi alla ragione divina» –, Ratzinger ha sviluppato, ad maiorem Dei gloriam, la tesi di una Chiesa che «nella dialettica dell’Illuminismo sospende le condizioni dell’Illuminismo»: che cioè ne impedisce la degenerazione, salvandone il vero messaggio emancipatorio generato dal Logos. A fronte di un Illuminismo laico e secolare, incarnato dai philosophes e dai loro seguaci, dimentico delle sue radici cristiane, destinato inevitabilmente a degradare in totalitarismo, veniva a tal fine indicata l’esistenza storica di una troppo a lungo sottovalutata katholische Aufklärung. «Io ritengo perciò giusta – spiegava il dotto teologo – la tesi di Martin Kriele secondo cui la teologia cristiana, se impiegata correttamente, deve essere considerata una forza dell’Illuminismo». Al di là delle speculazioni filosofiche, spettava comunque agli storici cattolici il compito di riportare in vita quel mondo misconosciuto che nel Settecento aveva sventolato per conto della Chiesa la bandiera della libertas philosophandi e del razionalismo contro la superstizione e il dispotismo, valorizzando così un tassello importante del contributo cristiano alla modernità.
E tuttavia dove l’allora arcigno custode del depositum fidei ha dato il meglio di sé, legittimando e auspicando gli sviluppi della nuova storiografia conciliare, è stato certamente nell’entusiastica adesione alla teoria del nuovo «dualismo» tra Chiesa e Stato come solida base per interpretare proficuamente la delicata relazione tra il cristianesimo e il concetto di libertà che ha caratterizzato l’identità profonda dell’Occidente. Secondo Ratzinger la frase del vangelo, «rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo, 22,21), non fu solo una «svolta nella storia del rapporto tra politica e religione», bensì qualcosa di straordinario e mai visto nella storia dell’umanità intera per quanto riguarda il modo stesso di organizzarsi della società in funzione del rispetto dei diritti individuali grazie alle condizioni realizzate dalla dialettica tra la potestà ecclesiastica e quella statuale: «Il nuovo dualismo in essa contenuto rappresenta l’inizio e il fondamento persistente dell’idea occidentale di libertà. Poiché da allora esistono due comunità reciprocamente ordinate, ma non identiche, di cui nessuna ha il carattere della totalità». Nulla di simile è dato riscontrare in altre civiltà e in particolare tra le nazioni musulmane, dove la «costruzione sociale dell’Islam è teocratica, quindi monistica e non dualistica»; dove la mancata separazione tra sacro e profano, tra politica e religione, ha finito con il negare l’individuo rendendo la democrazia impossibile. «La moderna idea di libertà è perciò un legittimo prodotto dello spazio vitale cristiano».
Una simile impostazione che confonde la causa con gli effetti e il prodotto storico di un contesto con l’enunciazione a posteriori di un principio astratto come il dualismo – tra l’altro oggetto di frequente sospetto da parte della Chiesa nelle sue età di più duro arroccamento teocratico – ha trovato interpreti d’eccezione in molti settori della storiografia cattolica internazionale. In ricerche recenti concetti come “desacralizzazione” e “secolarizzazione”, che avevano tormentato generazioni di storici cattolici obbligati dalla politica culturale della Santa Sede a subire sempre e comunque la Chiesa come nemica e ostacolo del mondo moderno, sono diventati come d’incanto, dopo il Vaticano II, punti di riferimento obbligati del nuovo paradigma storiografico conciliare. Dal rifiuto e dalla demonizzazione dell’odiata modernità si è passati repentinamente alla sua comprensione, al suo studio approfondito, a una sorta di scoperta e talora impudica appropriazione e cristianizzazione di essa, secondo il celebre e collaudato schema del De civitate Dei di Agostino: risolvere l’antitesi fra cristianesimo e paganesimo acquisendo al piano provvidenziale la prestigiosa eredità culturale, politica e sociale dell’impero romano e dell’antichità in generale, e con ciò superandola. La tanto temuta e denunciata (in passato) «desacralizzazione della politica» è divenuta in tal modo il «frutto del cristianesimo occidentale». Inventore del termine «secolare», amante della «disciplina», e di fatto «primo teorico dell’Inquisizione», Agostino è apparso nelle più recenti interpretazioni anche nella veste di padre nobile della modernità, della stessa de-magificazione, grande ideologo della Chiesa-istituzione fondata sull’attributo imperiale dell’auctoritas, frutto del compromesso tra le esigenze escatologiche e gli obblighi imposti dal secolo, appositamente attrezzata per accompagnare il cristiano nel suo tormentato pellegrinaggio terreno in attesa del giudizio finale. Il feroce rifiuto agostiniano del modello settario della Chiesa dei puri voluta dai donatisti, così come la sua implacabile opera di persecutore dell’eresia pelagiana che troppo concedeva al libero arbitrio, hanno fatto del vescovo d’Ippona un protagonista della nascita di quel potere temporale necessario al popolo di Dio per “vivere” nel mondo restando allo stesso tempo “distaccato” da esso. Alla luce di questa nuova immagine della funzione libertaria e modernizzante del dualismo, il diritto canonico e l’Inquisizione come strumenti della Chiesa (comunità di credenti, corpus e societas perfecta) sono stati sempre più spesso analizzati nella veste inedita di veicoli di civilizzazione e di libertà. La stessa cosiddetta «rivoluzione papale» di Gregorio VII, lungi dal rilanciare la vocazione teocratica della Chiesa, attraverso le misteriose vie della Provvidenza, avrebbe in realtà alimentato nella storia dell’Occidente la potente opera benefica del dualismo tra potere sacro e potere secolare favorendo la nascita del moderno laicato urbano dei comuni, il rafforzamento delle istituzioni dello Stato, la positiva dialettica tra chierici e laici. Ma è sulla crisi religiosa del Cinquecento, sulle origini dell’Europa contemporanea e sulla funzione strategica assunta dal concilio di Trento nei processi di modernizzazione che questa storiografia ha dato il meglio di sé, fino a condizionare non poco il dibattito internazionale e lo stesso operato di molti storici di matrice liberal-democratica e marxista.
In questa direzione, a partire dalla fine degli anni Sessanta, attraverso il confronto obbligato con le riflessioni d’inizio Novecento di Max Weber sulla forte specificità dei modelli di razionalità elaborati dall’Occidente e di Ernst Troeltsch circa l’origine storica della modernità, sono venute da parte della storiografia tedesca ipotesi di ricerca di grande fascino. In particolare, più che in riferimento a Troeltsch e alle sue idee che vedevano nella Riforma luterana un brusco ritorno al medioevo in quanto ostile al principio moderno dell’immanenza e dell’autonomia dell’individuo razionale, sono state proprio le tesi weberiane (quelle in merito ai meccanismi dell’oggettivazione razionale intesa come formulazione di norme che l’uomo stesso si pone sulla base di un calcolo degli scopi e dei mezzi per la condotta propria o di altri uomini) ad aprire la strada alla storiografia del disciplinamento e della confessionalizzazione come momenti chiave della modernità europea. Gli studi di Gerhard Oestreich del 1969, volti a ridefinire la natura dell’assolutismo, le sue differenze – evidenti sul piano storico – dal totalitarismo nonostante l’avvio della grande modernizzazione degli Stati europei miranti a coinvolgere le masse attraverso le pratiche di disciplinamento sociale negli eserciti, nell’apparato burocratico, nella vita di corte, culminate nelle riforme illuminate di Giuseppe II alla fine del Settecento, hanno contribuito non poco a dar vita a una imponente storiografia cattolica e protestante sulla formazione confessionale delle Chiese territoriali in Germania e sulla confessionalizzazione cattolica avviata dal Tridentino in parallelo e come risposta al disciplinamento degli Stati. Wolfgang Reinhard, uno dei massimi protagonisti degli studi in questo campo, ha spiegato bene il percorso che la tradizionale storia della Chiesa ha fatto dallo storicismo al sociologismo storiografico passando da Jedin a Elias e a Foucault via Weber, da antiche questioni teologiche e politiche al tema complesso della società procedurale. Ne è scaturita la presa d’atto che i processi di modernizzazione possono non solo essere voluti o apertamente contrastati, ma anche subiti o inconsapevolmente alimentati secondo le riflessioni foucaulti...