Sociologia dei fenomeni politici
eBook - ePub

Sociologia dei fenomeni politici

  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Sociologia dei fenomeni politici

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Di fronte alle radicali trasformazioni dello scenario socio-economico mondiale, lo studio della politica resta oggi più che mai un'affascinante avventura intellettuale: Roberto Segatori indaga con gli strumenti della sociologia e attraverso i concetti classici di Stato, partito, movimento, gruppo di pressione, opinione pubblica le forme politiche nel nuovo millennio, le sottopone ai riscontri imposti dagli strappi della storia, le proietta sulla scena mondiale futura.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Sociologia dei fenomeni politici di Roberto Segatori in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Social Sciences e Sociology. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858105412
Categoria
Sociology

IV. L’intermediazione tra la società e la politica

1. I gruppi di pressione

Quando non si presenta nella forma sostanzialmente ideologica del populismo, il rapporto tra l’individuo e il sistema sociale, da un lato, e il sistema politico, dall’altro, è in genere mediato da canali, forme associative e modalità di espressione che variano nel tempo, nello spazio e per tipologia.
Nell’analisi sistemica ciò dipende in primo luogo da esigenze funzionali, e le principali funzioni che intercorrono tra la società e la politica sono quelle definite dell’articolazione degli interessi e dell’aggregazione degli interessi. La prima designa «il processo attraverso cui gli individui e i gruppi formulano domande alle strutture decisionali politiche»; la seconda «la funzione di conversione delle domande in scelte politiche alternative» (Almond e Powell 1970, pp. 119 e 149).
Tendenzialmente, anche se in via non esclusiva, la prima funzione è svolta, oltre che dai singoli cittadini, dai gruppi di pressione e dai movimenti sociali, la seconda dai partiti, dai leader politici e dalla burocrazia pubblica.
In tale quadro un gruppo di pressione può essere definito come un insieme di persone, unite da interessi di vario genere (economici, sociali, professionali, culturali, etnici, localistici, ecc.), che si mobilitano volontariamente per difendere e perseguire tali interessi, e che svolgono molteplici attività strumentali al fine di esercitare condizionamenti e influenza sulla società in generale e soprattutto sui processi decisionali della sfera politica, che comprende i partiti e lo Stato inteso come potere legislativo, esecutivo e burocratico.
Questa definizione descrive in realtà tre caratteristiche disposte in sequenza (ovvero tre stadi) che danno luogo a tre diverse denominazioni. Il primo stadio, che mette l’accento sull’insieme di persone unite da interessi comuni, corrisponde al gruppo di interesse; il secondo, che enfatizza il processo di mobilitazione per la difesa e il perseguimento di quegli interessi, viene più propriamente chiamato gruppo di pressione; il terzo, che prevede il ricorso a varie attività strumentali per esercitare condizionamenti e influenza, è detto lobby.
La maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che tutti i gruppi di pressione sono in genere gruppi di interesse, ma non tutti i gruppi di interesse diventano gruppi di pressione. «Un gruppo d’interesse diviene gruppo di pressione allorché si porta nell’arena politica e opera come attore politico. Finché il gruppo si muove nelle dimensioni (sociali, economiche, culturali) del non politico, esso rimane gruppo di interesse e va classificato come tale. Se e quando entra in politica, e finché vi permane (poiché può anche uscirne, una volta che giudichi conseguito il suo scopo), diviene gruppo di pressione» (Fisichella 1994, p. 447). Lo stesso Fisichella riprende da Samuel E. Finer (1958) la definizione di pressione come applicazione o minaccia di applicazione di una sanzione, qualora una richiesta non venga accolta. Spesso le sanzioni in negativo (negare o sospendere i finanziamenti o un appoggio elettorale, boicottare o ricattare un candidato o una parte politica) possono essere le mosse giustapposte all’erogazione in positivo di incentivi e sostegni (finanziari, elettorali, di expertise, ecc.), tipica dell’attività di lobbying.
A sua volta, la parola lobby trae origine dal nome del luogo in cui viene esercitata l’azione di persuasione di coloro che operano per conto dei gruppi di pressione: le hall degli alberghi, le anticamere e i corridoi parlamentari. Il lobbista è infatti considerato un tipico «manovratore» da anticamera e da corridoio.
L’insieme di definizioni presentate fin qui necessita peraltro di due chiose non banali. La prima è che il riferimento al concetto di gruppo è volutamente generico e non corrisponde strettamente alle esigenze di categorizzazione analitica dei cosiddetti gruppi psicologici e/o sociologici. Ciò si deve al fatto che, nella ripresa del concetto in epoca contemporanea (Bentley 1983), il focus del gruppo di interesse veniva individuato nell’attività comune («di massa»), più che sul gruppo in sé. La seconda è che i contenuti delle definizioni fanno riferimento essenzialmente alla concezione moderna dei gruppi di pressione: una concezione che, per essere meglio compresa e apprezzata, va inserita in più ampi quadri tipologici e quindi storicizzata.
Lo sfondo da cui muovere è quello che considera la compresenza di differenti gruppi di pressione come condizione fondamentale delle teorie del pluralismo politico, contrapposte alle teorie monistiche del potere statale. Nella tradizione del pensiero filosofico e politologico (Ehrlich 1974; Eisfeld 1976; Bobbio 1990; Graziano 1995, parte seconda) la presenza e il ruolo dei gruppi vengono in genere inscritti in tre famiglie di pluralismo: cristiano-sociale, liberal-democratico e socialista. In chiave storica tali filoni tengono insieme fenomeni di lunga durata, che sono preceduti dalle esperienze pluralistiche del mondo classico e accompagnati in età contemporanea dalle vicende del cosiddetto neocorporativismo.
Analizziamo dunque in chiave storica e idealtipica la declinazione del rapporto tra i gruppi di interesse e le istituzioni politiche. In epoca romana, sia in regime repubblicano che imperiale, esistevano già le corporazioni, ovvero unioni di individui che praticavano lo stesso mestiere o professione, producevano beni e servizi, ed erano tutelati da statuti ad hoc che prevedevano garanzie e privilegi (cfr. Schmitter 1992). Le corporazioni, spesso col nome di gilde, continuano ad essere presenti nel Medioevo ed oltre: si caratterizzano per il fatto di essere associazioni non di tipo meramente ‘sindacale’, ma organizzazioni che si occupano di tutti gli aspetti della vita degli associati e, come naturale estensione del loro ruolo, all’epoca dei Comuni vedono i loro rappresentanti assumere anche incarichi di governo (cfr. von Gierke 1990).
In età moderna due eventi, verificatisi a distanza di un secolo l’uno dall’altro, impongono di riconsiderare radicalmente il rapporto tra i gruppi di interesse e lo Stato: la seconda rivoluzione inglese alla fine del Seicento e la Rivoluzione francese alla fine del Settecento. L’importanza di tali eventi è legata al fatto che la prima rivoluzione introdurrà il principio di libertà anche nei confronti del potere statale, e la seconda il principio di uguaglianza dei cittadini.
È a partire da questi dati storici che possiamo ora approfondire le tre differenti tradizioni teoriche sul pluralismo. Nel pensiero cristiano-sociale l’uomo è una creatura di Dio ed il suo sviluppo avviene nelle comunità naturali quali la famiglia, la parrocchia, le associazioni professionali, il villaggio. La sua identità civile gli viene dalla società, non dallo Stato. Questo assunto di fondo si porta dietro due conseguenze di tutto rilievo: la prima è che il fondamento divino e naturale dell’individuo e delle sue comunità conferisce un carattere organicista ai cosiddetti corpi intermedi, e non un loro modo di essere sostanzialmente indipendente e competitivo, tipico del modello liberale. La seconda è che la pretesa dello Stato moderno, di esercitare una sovranità assoluta sugli individui che di esso fanno parte, vada respinta o, laddove ciò non sia possibile, accolta sempre con riserva. Tali idee accompagnano questo filone del cristianesimo attraverso i secoli: le troviamo nell’iniziale diffusione della fede sotto l’impero romano; nello scontro con le chiese gerarchiche (l’anglicana e la cattolica) che caratterizza l’avvento dello Stato assoluto alla fine del Medioevo; nella resistenza alle idee della Rivoluzione francese; infine, in epoca contemporanea, ogniqualvolta lo Stato voglia mettere mano a materie eticamente sensibili. Con tratti molto simili a quello di ispirazione religiosa, si declina anche un pluralismo comunitario di tipo conservatore, che contrappone l’autonomia morale dei gruppi primari al totalitarismo pervasivo dei regimi europei della prima metà del XX secolo, che, secondo Nisbet (1957), avevano portato alle estreme conseguenze l’occupazione della società da parte della sovranità politica, sulla falsariga delle iniziali teorie di Jean Bodin e Jean-Jacques Rousseau.
Accanto al pluralismo del pensiero cristiano, si collocano poi quello di matrice liberal-democratica e quello di tipo socialista. Poiché il modello liberal-democratico è quello che si afferma con più forza nel tempo, occupiamoci prima del cosiddetto pluralismo socialista. Tale filone, prevalentemente teorico ma con qualche tentativo di applicazione pratica, si sviluppa prima e ai margini della traduzione totalitaria del marxismo operata dall’Urss e dai paesi del socialismo reale. La Francia, l’Inghilterra e la Jugoslavia, prima della sua dissoluzione, sono i principali paesi della sua elaborazione. In Francia le idee pluraliste di tipo socialistico nascono dal connubio tra positivismo e socialismo. Saint-Simon, Fourier, Durkheim predicano l’importanza delle associazioni professionali per superare l’individualismo esasperato delle teorie liberiste e le pretese astratte dello Stato. «Né la società politica nel suo insieme né lo Stato possono adempiere a questa funzione [di sconfiggere l’anomia]», scrive Durkheim in uno dei suoi lavori più importanti (1962, pp. 12-13). «Il solo gruppo che risponde a queste condizioni è quello formato da tutti gli agenti di una medesima industria, una volta riuniti ed organizzati nel medesimo corpo – cioè quello che chiamiamo corporazione o gruppo professionale». Ma è soprattutto Proudhon a dare una veste politica non statale a questo tipo di pluralismo: a suo avviso la vera emancipazione umana è realizzabile solo nei gruppi sociali, federati tra loro, in cui l’uomo può esprimere i propri bisogni e liberare le proprie capacità.
In Inghilterra è la tradizione fabiana a produrre i contributi più significativi. In un contesto caratterizzato dallo sviluppo dell’industria e dalla vita delle fabbriche, George D.H. Cole teorizza il Guild Socialism, o socialismo delle gilde, in cui prova a coniugare la lezione marxiana con la pratica del sindacalismo all’interno di uno Stato pluralistico. Ad avviso di Cole (1920), il metodo democratico deve soprattutto esercitarsi nelle gilde – espressione di decentramento funzionale analogo a quello territoriale –, che si concretizzano in autonome organizzazioni di produttori e consumatori, professionisti e utenti. È l’interazione di tali organizzazioni a formare il tessuto di una società che sia contemporaneamente socialista e democratica.
A quest’area della sinistra britannica, sia pure con caratteri originali e diversi, può essere associato anche il pensiero di Harold Laski. Studioso di storia moderna e di filosofia del diritto, attivo nella prima metà del Novecento tra Oxford e Londra – fatta salva una parentesi di sei anni trascorsi negli Usa –, Laski (1919 e 1935) contrappone al preteso monismo della sovranità statale, sostenuto fin dai testi di Jean Bodin, una sovranità multicentrica, negoziata e federale, in quanto gli individui sono iscritti in una pluralità di appartenenze, non assoggettabili a una sola. A partire da ricerche focalizzate sul lungo braccio di ferro storico tra il principio di supremazia reclamato dallo Stato e la resistenza delle diverse confessioni religiose, Laski osserva che la sovranità dello Stato non è più tale laddove il popolo conserva delle riserve sul dovere di ubbidire ad esso. E ciò avviene perché le diverse comunità cui appartengono le persone (fellowship) non sono costituite da semplici legami parziali, ma sono delle vere e proprie unità morali e identitarie. Di ritorno dagli Usa, nell’ambito della Fabian Society e del Labour Party, egli sviluppa la tesi che tali comunità siano da intendere non solo in senso territoriale, ma soprattutto funzionale. Così la stessa democrazia avrebbe dovuto, a suo avviso, essere articolata per ambiti diversi: il parlamento destinato ad occuparsi dei servizi pubblici, e i Consigli dell’industria, composti da tutti i produttori, impegnati a definire autonomamente, attraverso intese raggiunte col metodo del confronto, le regole riguardanti la produzione, i salari, gli orari di lavoro e la formazione. Peraltro, a partire dagli anni Trenta, Laski manifesterà un certo scetticismo verso le posizioni moderate dei leader laburisti e si accosterà ad un marxismo più radicale.
Una terza esperienza – questa volta non solo teorica – di pluralismo socialista si ha nell’ultima fase del regime titino dell’allora Jugoslavia. Lo sforzo progettuale più rilevante si deve ad Edvard Kardelj (1910-1979), uomo politico e intellettuale sloveno, che in stretto rapporto con Tito aveva concorso ad elaborare la cosiddetta «via jugoslava al socialismo». In particolare, all’inizio degli anni Settanta del Novecento, quando Tito volle rilanciare in modo autoritario l’originalità del sistema politico jugoslavo (né pianificazione centralistica, né riforme in senso liberale), Kardelj fu incaricato di redigere la nuova Costituzione del 1974. In essa, egli immise i tre principi della sua teoria: la proprietà sociale (né statale, né privata), l’autogestione delle fabbriche e delle fattorie, il federalismo dei partiti e delle regioni (Kardelj 1975 e 1978). Dopo una fase di entusiasmo per un modello che prometteva un elevato livello di partecipazione da parte dei lavoratori e del popolo – e in cui l’autogestione jugoslava divenne un caso particolarmente studiato (cfr. Bianchini 1982) – le potenziali spinte centrifughe che esso conteneva lo condussero velocemente al declino. Più che per motivi ideologici, il modello entrò in crisi per problemi di compatibilità economica (ogni unità autogestita tendeva a scaricare il proprio deficit sui livelli istituzionali superiori, senza farsene direttamente carico) e per la riemersione delle note rivendicazioni autonomistiche a base etnica (Segatori 1989).
Il mainstream del pluralismo politico resta di fatto quello liberal-democratico. Il suo presupposto può essere fatto risalire alla Lettera sulla tolleranza di John Locke, del 1689, in cui viene affermato il diritto degli individui, presi singolarmente o in gruppo, a tutelare e a vedere tutelati i propri interessi civili. «Ritengo», scrive Locke (1980, p. 148), «che la società politica sia un’associazione di uomini costituita solo per curare, difendere e migliorare i loro interessi civili. Chiamo interessi civili la vita, la libertà, la salute e il benessere del corpo, oltre al possesso di cose esteriori, come denaro, terre, case, mobilio e simili». Allo stesso spirito di tolleranza e alla stessa avversione al dispotismo si ispira Montesquieu, il quale nello Spirito delle leggi, pubblicato a Ginevra nel 1748, sostiene che il potere del monarca debba essere limitato dal potere dei corpi intermediari, costituiti – soprattutto con riferimento all’esperienza francese – dalla nobiltà, dal clero, dalle città e dai parlamenti.
La più radicale applicazione delle idee di uguaglianza e di libertà si deve però al politico americano James Madison (1751-1836), autore insieme ad Alexander Hamilton e a John Jay dei Federalist Papers (1787-88), membro della Convenzione di Filadelfia che mise a punto la Costituzione, nonché presidente degli Stati Uniti dal 1809 al 1816. Il disegno di Madison punta ad assicurare sia il massimo di democrazia, attraverso le istituzioni politiche, sia il massimo di libertà degli interessi privati, attraverso l’associazionismo. Tanto su un fronte quanto sull’altro, però, non mancano a suo avviso rischi e pericoli: tra le istituzioni politiche, una potrebbe prendere il sopravvento sulle altre, e tutte insieme potrebbero prevaricare la società civile; le associazioni di cittadini a loro volta potrebbero dare luogo a gruppi settari. Contro il rischio di abusi da parte delle istituzioni va allora previsto un complesso sistema di checks and balances (pesi e contrappesi), mentre il miglior rimedio al settarismo delle fazioni può consistere paradossalmente (ma non tanto) nel fare in modo che gli stessi gruppi si moltiplichino: una società animata da numerosissimi gruppi di interesse, inquadrati in un’unione federale più potente dei tredici Stati preesistenti, è destinata a costituire, per Madison, la migliore garanzia di democrazia e di libertà.
Una verifica dello stato dell’arte del rapporto tra la democrazia e i gruppi di interesse negli Stati Uniti del dopo Madison si deve alla testimonianza/interpretazione del nobile francese Alexis de Tocqueville. Dal suo viaggio americano, condotto nel biennio 1831-32, Tocqueville ricava i due volumi della Democrazia in America (il primo del 1835, il secondo del 1840). Scoprendo la fitta rete di associazioni diffusa nella società del nuovo mondo, Tocqueville manifesta una iniziale diffidenza (espressa nel primo volume) verso gli effetti potenzialmente negativi dei gruppi di interesse economico: centrati esclusivamente sui propri scopi, essi potrebbero fomentare divisioni e sedizione. Poi però l’autore perviene a maturare un giudizio fortemente positivo quando coglie il fatto che le associazioni si configurano come vere e proprie palestre di self-government, particolarmente utili a contrastare il pericolo della «tirannia della maggioranza». Il suo apprezzamento si dispiega nella constatazione che «gli Americani di tutte le età, condizioni e tendenze, si associano di continuo»; «dappe...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. I. Lo studio della politica e i concetti fondamentali
  3. II. La concentrazione del potere politico
  4. III. Gli individui e la politica
  5. IV. L’intermediazione tra la società e la politica
  6. V. Le nuove articolazioni della politica
  7. Riferimenti bibliografici