La vocazione minoritaria
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La vocazione minoritaria

Intervista sulle minoranze

  1. 172 pagine
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La vocazione minoritaria

Intervista sulle minoranze

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«Quel che a me interessa di più sono le minoranze che chiamerei etiche: le persone che scelgono di essere minoranza, che decidono di esserlo per rispondere a un'urgenza morale. Se alla fine ci ritroviamo sempre in un mondo diviso tra poveri e ricchi, oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori, nelle più diverse forme e sotto le più diverse latitudini, bisogna ogni volta ricominciare, e dire a questo stato di cose il nostro semplice 'no'». Ritratto di un pensatore libero che non ha smesso di credere nello spirito critico.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113578

1. L’omologazione e il «particulare»

Oreste Pivetta Le tante attività che hai svolto nel corso della tua vita, e i tuoi scritti che le documentano, rendono difficile attribuirti una particolare fisionomia professionale, un’appartenenza di qualche genere, un campo di ricerca predefinito. Meglio, mi pare, ti definisce il punto di vista con cui hai agito, pensato, scritto. Partiamo dalla realtà sociale di oggi. È in base ai connotati di questa realtà, infatti, che spero si possa comprendere meglio il tuo atteggiamento critico e le tue proposte. Iniziamo da un dato: la stampa straniera ci dipinge oggi impoveriti e senza speranze. Il riferimento è ai dati economici, ma la definizione, «impoveriti e senza speranze», vale forse anche per il resto: impoveriti nell’animo e senza speranze che non siano quelle mediocri, individuali, quotidiane. Da questi resoconti sembra emergere il volto di una società che tende a consumare il presente come si può, nell’indifferenza per gli altri, ignorando il futuro; un paese confuso, sulla cui scena si agitano gruppi portatori di interessi, clan, famiglie, caste. Condividi questa descrizione? Sono questi i tratti caratterizzanti della società italiana?
Goffredo Fofi Una delle astuzie della società attuale – almeno in Italia – è di aver convinto i poveri ad amare i ricchi, a idolatrare la ricchezza e la volgarità. In passato i poveri solitamente non amavano i ricchi: li si convinceva, anche con la forza, a sopportare la loro condizione, si tollerava anche che peccassero di invidia, al più li si spaventava con la prospettiva delle pene dell’inferno. Negli anni Ottanta, negli anni di Craxi, è esplosa invece una cosa del tutto nuova: la tendenza a negare le differenze tra i ricchi e i non ricchi, a far sì che i non ricchi si pensino ricchi, che amino i ricchi come maestri di vita, come modelli assoluti di cui seguire ogni esempio. Non so quanto durerà. Le crisi avviate l’autunno scorso, infatti, nonostante il diffuso rimbecillimento degli italiani, qualche cambiamento lo porteranno, perché i ricchi sono e saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Resta il fatto che in questi decenni uno degli scandali maggiori per una persona della mia generazione (e di tradizione socialista) è stato constatare questa omologazione, intesa proprio alla maniera di Pasolini: come un massimo di conformismo nei comportamenti, nelle morali, nei consumi. Io sostengo da tempo che tra la famiglia Agnelli e i «coatti» della periferia romana, come quelli raccontati da Walter Siti in Troppi paradisi (Einaudi 2006), la differenza di cultura e di gusti si sia appiattita. Si somigliano da matti, e la sola diversità risiede nella capacità d’acquisto e nel fatto che gli ex accattoni pasoliniani della periferia romana oggi vanno a Sharm el-Sheikh, mentre gli Agnelli preferiscono «isole» molto protette, magari italiane. In fondo, pure la loro casa di Villar Perosa è un’isola, un luogo separato da ogni preoccupazione che possa venire dall’esterno. Tanti anni fa l’ho vista da lontano: un fortino contro tutti i possibili mohicani. Naturalmente, quel che spende un Agnelli in una sola giornata è incomparabilmente di più di quanto possa spendere una famiglia, anzi una tribù di famiglie di sottoproletari acculturati a Sharm. Per consolarci, possiamo dire che ci troviamo di fronte a una tragedia generale, forse universale, e prendiamo atto che ovunque nel pianeta si è imposto il modello consumista americano, anche se da noi questa plebeizzazione universale (plebeizzazione del ceto medio e cetomedizzazione di tanta plebe) è un fatto relativamente nuovo, degli ultimi venti-trent’anni, e quindi molto impressionante.
P. Che si sia imposto il modello americano non è un’idea un po’ logora, dovuta a un antiamericanismo di vecchio stampo? Non dovremmo sentirci ormai tutti americani? Soprattutto dopo il successo di Obama...
F. Credo sia indubbio che l’amore per i ricchi sia cominciato con l’amore per gli Usa, per gli «americani». Pur avendo sempre esaltato la cultura radical statunitense, essendo cresciuto con quella – cinema e letteratura, pedagogia e culture minoritarie, che ho sentito molto più vicine della nostra cultura di sinistra e che ho ammirato moltissimo, di cui mi sono anzi nutrito –, ho imparato a detestare il modello americano e continuo a pensare che sia proprio quello il primo responsabile del possibile disastro globale, perché è un modello che è riuscito a imporsi dovunque, a contagiare tutto e tutti. I bisogni, le differenze, le tradizioni particolari di interi popoli sono stati invasi da modelli che non gli appartenevano, e non si è trattato di un dialogo, di uno scambio, di un insegnamento, ma di una vera invasione, della tendenza a un dominio culturale strettamente collegato a quello economico e dunque a quello politico. Quel che ci viene proposto è la schiavitù del superfluo. Una vera e propria epidemia che nessuno riuscirà più a fermare, neppure l’ottimo Obama: né quelli che si aggrappano all’antico nelle sue forme più feroci, né quelli che si illudono di creare sistemi di ricchezza immuni.
P. Dunque, trionfo dell’omologazione, del consumo obbligato, dell’appiattimento nelle aspirazioni, nei desideri, nei valori. Ma oggi – lo accennavi tu stesso – assistiamo anche a una diffusissima rivendicazione delle diversità...
F. L’omologazione negli stili di vita, nei consumi e nei modelli ha provocato paradossalmente, ma non troppo, un effetto contrario: la paura di perdere la propria identità, che è all’origine di crisi e guerre, nazionalismi e fondamentalismi, intolleranze efferate. Nell’italica mediocrità ha indotto la rivendicazione, prima folklorica e poi bieca, non solo in Padania, di diversità inesistenti o trascurabili. Pensa al mondo dello spettacolo e a certa comicità dialettale: non i dialetti vivi di un tempo, non la produzione culturale autonoma di una regione o di un settore della popolazione, ma la pappa universale con contorno di accenti e battute che non sono più dialetto, ma che insistono sulle differenze tutte esteriori tra un «noi» e un «gli altri».
P. Pensi che questo doppio movimento investa tutti gli strati sociali?
F. Investe principalmente la massa della popolazione, costituita da una piccola borghesia più o meno simile dappertutto – la plebe cetomedizzata o il ceto medio plebeizzato di cui si diceva prima – e che proprio perché è più o meno simile dappertutto si sente spossessata di qualsiasi identità e non trova di meglio che puntare su diversità fasulle, legate a ciò che consuma, o su privilegi acquisiti. Pensa all’uso pubblicitario dell’aggettivo «esclusivo». Oggi mi pare stia decadendo, ma alla base delle pubblicità di consumi costosi resta l’esclusione degli altri: noi che consumiamo questo prodotto siamo per ciò stesso «i meglio», e tanto peggio per gli altri. Bisogna aggiungere, però, che questo bisogno di qualcosa che provi un’identità che non si ha più si inserisce su una storia e una cultura che hanno anche radici più sane, e che sono dure a morire. L’Italia ha sempre colpito i viaggiatori stranieri intelligenti per la diversità delle sue «cento città», come si diceva un tempo. Se si va da Mantova a Cremona a Ferrara a Piacenza a Ravenna a Forlì a Rimini, si notano differenze importanti nei modi di essere più profondi delle persone, oltre che nel dialetto e nelle abitudini. È quel che resta della grande tradizione dei Comuni, che ancora ha una sua vitalità e una sua dignità. Forse una delle ragioni per amare ancora questo paese sta proprio qui, nel fatto che se ti muovi (non da turista) tra Mantova e Cremona, queste diversità le avverti ancora. È ovvio che queste differenze sono una risorsa, una ricchezza. Ma nel momento in cui è venuto a mancare l’orizzonte più vasto della nazione, la speranza in uno Stato rispettoso di tutti e dall’accentuazione delle culture si è passati a quella dei consumi culturali queste differenze sono diventate anche la leva di tanto provincialismo, di tanto localismo, che è poi egoismo. Le differenze sono una risorsa, se si ha il coraggio e l’intelligenza di rimetterle sempre in gioco, non solo di difenderle. Altrimenti è la fine nel folklore che è il suicidio delle comunità. Da un lato, dunque, l’omologazione accettata e voluta, il modello televisivo, per intenderci; dall’altro, la paura di non contare più niente, di non essere, di veder mortificata la propria diversità.
P. Doppiamente beffati: sembra questa la conclusione. Pensi che ci sia una peculiarità italiana in questa beffa?
F. Noi non abbiamo avuto la Riforma, dicevano i vecchi maestri alla Salvemini (che aggiungeva: in compenso ci hanno elargito una Controriforma!), e nessuno è mai riuscito a convincerci che il bene del singolo sia effetto del bene collettivo. Lo Stato è tornato ad apparirci lontano, e se una volta si poteva anche sostenere, di fronte all’estraneità dello Stato, quella forma di difesa che consiste in un pur becero qualunquismo, oggi, essendo diventato impossibile fidarci di un sistema «globale» così deciso nelle sue rivoluzioni e così travolgente nei suoi effetti, forse bisognerà dire non tanto che «non possiamo non dirci qualunquisti», quanto che «non possiamo non dirci anarchici»! Ha vinto un’immane mutazione, che non è una normale novità storica dettata dal progresso, ma un radicale cambiamento del mondo.
P. Come si è risposto a questa «immane mutazione» in Italia?
F. Con il ritorno al «particulare», anche quando nascosto sotto cumuli di propaganda per il «bene comune». Dopo anni che non lo sentivo più, l’infame motto del «qua nessuno è fesso» va tornando di moda e la città che lo ha inventato torna a essere automaticamente un popolo di «fessi». Tutta l’Italia è un popolo di «fessi»: se nessuno è «fesso» vuol dire che lo sono tutti, se tutti possono fregarmi e nessuno è onesto, neanch’io lo sono. E c’è qualcuno più in alto, che può più di noi, e che ci fa «fessi» tutti. Alla parodia dell’individualismo di cui tutti si pascono, l’altra risposta, per sentirsi più forti, è l’esaltazione per l’appartenenza a un gruppo. Anche se questa appartenenza dura poco, perché voltar gabbana è la naturale conseguenza del nostro culto del «particulare», antropologicamente consolidato. L’interesse del piccolo gruppo, dal clan alla lobby, dalla corporazione al partito, dalle «chiese» alle «mafie», è insidiato infatti al suo stesso interno – se manca un cemento ideologico localista o etnico o religioso o di setta – dal grande motto della cultura nazionale: «tengo famiglia».
P. Che ne è della morale pubblica?
F. Una socialità cosciente del bene pubblico non nasce in qualsiasi momento e, soprattutto, non nasce da sé, senza grandi movimenti culturali e storici a determinarla e sorreggerla. E non nasce se prevale un senso diffuso di complicità, che lega tra loro chi partecipa alle piccole e grandi corruzioni, un senso di nefasta e sostanziale tolleranza tra gli uni e gli altri, e se gridare allo scandalo da parte degli uni nei confronti degli altri non è che una finzione. Oggi, infatti, la denuncia degli scandali è sospetta perché aiuta la carriera come sanno bene alcuni giornalisti, satirici, personaggi televisivi. D’altra parte, la denuncia è stata ed è uno dei peggiori alibi della cultura di sinistra: denunciare è facile, i corrotti sono sempre gli altri, ci si crede nel giusto senza mai guardarsi allo specchio. Ma, a sconcertare di più, oggi, è il fatto che il potere goda nel mostrarsi per quello che è – una passerella piena di oscenità, un’ingozzata di mediocrità – e contemporaneamente ci proponga (o imponga) di sognare un sogno irrimediabilmente passato, che forse è quello di una idealizzata infanzia dei leader: di ordine e di nitore, di bambini ridenti e di mamme serene, di casti bacetti tra fidanzati e di terze liceo come educandati, di cibi genuini e di vecchi rispettati, di vite lunghe senza dolori e di «crescete e moltiplicatevi»... E di rosei futuri. Il modello sembra quello degli anni Trenta: i grembiulini a scuola, la maestra unica, il rispetto di una quantità di leggi che permettono ogni abuso e che si minano a vicenda, il ritorno della censura sui film, i divieti e recinti per accattoni e clochard e stranieri, le proposte sulla regolamentazione della prostituzione, eccetera. Alcuni alti prelati osano chiamarla difesa della vita, aggiungendovi l’invito a nuove e vecchie oppressioni sessuali, l’imposizione del rifiuto dell’aborto e dell’eutanasia. Questo doppio binario non può reggere. Se è vero che noi italiani siamo abituati all’idea, mutuata dalla Chiesa, di dire A fare B pensare C, è anche vero che la discrepanza tra i modelli reali e televisivi e le prediche morali – con conseguenti imposizioni legali e perfino poliziesche – non è sostenibile, che una classe dirigente non può cedere alla licenza nei fatti e allo stesso tempo imporre la decenza agli altri. Ai sudditi.
P. Informatori o predicatori: dove li collochiamo?
F. Mia nonna mi raccomandava quand’ero bambino: «Fa’ quel che il prete dice, non quel che il prete fa». La massima era antica. Io l’ascoltavo negli anni della mia infanzia, ma per fortuna nella mia giovinezza ho conosciuto moltissimi «informatori e predicatori» che credevano fortemente alla concordanza tra le parole e i fatti. Erano molti, allora, e sono anzi convinto che sia cominciata in quegli anni, durante la guerra o tra le macerie della guerra, la sola età d’oro della società italiana moderna. Il ventennio tra il 1943 e il 1963, tra la lotta di liberazione e la fine del centrosinistra, dalla caduta del fascismo alla «congiuntura» è approdato all’affossamento di una prospettiva sociale e politica di vasta portata da parte di una classe dirigente che ho sempre definito, tanto per esser chiari, agnelliana. Invece del modello Olivetti, infatti, vinse in economia e in politica il modello Agnelli, un modello di sviluppo amato anche dalla sinistra e che ha piegato la politica alle sue istanze e ai suoi interessi. L’idolo dello sviluppo appartenne, come è ben noto, anche ai comunisti. Cesare Garboli, per riassumere le stagioni della storia dell’Italia unita, metteva in fila Casa Savoia, la famiglia Agnelli e infine Berlusconi, rappresentante perfetto e antropologicamente plebiscitario della nuova classe cui quasi tutti hanno sognato di appartenere o appartengono.
P. Quali tratti di quel ventennio, tra il 1943 e il 1963, te lo fanno considerare un’epoca d’oro?
F. Parlo di epoca d’oro perché allora è nata la democrazia in Italia, si è scritta la Costituzione, si è fondata la Repubblica, si è tentata un’unità non fittizia, si è stabilito che le donne votassero. E si sono costruite strade, case, scuole, si è cercato di alfabetizzare aprendo l’accesso alla cultura anche a chi non sapeva leggere né scrivere. Prima che arrivasse la televisione, e ancora per molto, è stato il cinema che ha aiutato gli italiani a conoscersi. La cultura, che era decisamente elitaria, è diventata di massa, e nella cultura di massa si sono trasfuse per un lungo periodo le tradizioni della cultura popolare nelle sue tante varietà. Certo, le contraddizioni erano tante. Finita la guerra era cominciata un’altra guerra, la guerra fredda, si subiva il ricatto atomico, c’erano i blocchi, ed era difficile scegliere tra i ricatti degli uni e i ricatti degli altri, mentre la pace sembrava sempre in pericolo. Ma resto convinto che, dall’Unità d’Italia a oggi, quello sia stato il nostro ventennio positivo, di un dinamismo e di una creatività che avrebbero potuto condurci a grandi riforme, come invece non è stato. Se avesse vinto Olivetti, che credeva nelle riforme di struttura (che erano peraltro anche una parola d’ordine di Togliatti), invece di Agnelli, sicuramente ci saremmo ritrovati a vivere in un paese diverso. Negli anni del boom, c’erano i soldi, l’economia tirava, c’era la possibilità di risolvere i problemi che questa società non aveva saputo risolvere sino allora, c’era una partecipazione di massa alla vita politica, e si poteva avere uno «sviluppo con progresso» – in nome del bene collettivo e della civiltà e non solo in nome del profitto – e non quello «senza progresso» denunciato confusamente da Pasolini. (Chi denunciava, allora, molto giustamente, la «razza padrona» degli enti di Stato, lo faceva pur sempre in nome del modello Agnelli: l’ambiguità della politica d’intervento statale l’ha rappresentata efficacemente il «caso Mattei», e certamente i «boiardi di Stato» non furono meno cinici e meno interessati al potere personale dei grandi industriali del tempo. Anche se in entrambe le file ci furono personalità più e meno illuminate, certamente gli interessi della Fiat non furono quelli dello Stato.)
Si vogliono ricordare le grandi migrazioni interne di quegli anni come una specie di tragedia, ma furono comunque un momento di crescita e di speranza: società regionali o metropolitane chiuse si aprivano ad altre realtà, culture diverse si incontravano, i contadini andavano in città e si facevano operai, cittadini a pieno titolo. Per la prima volta il Sud conosceva il Nord e per la prima volta il Nord doveva confrontarsi direttamente con il Sud (e non per via di burocrazie e di eserciti o per la sola strada del turismo, che era comunque una realtà inedita anche quella). Tra le due realtà, con difficoltà e dolore mal suddivisi, perché a soffrire di più era il Sud, si avviava un faticoso ma irrinunciabile processo di integrazione nazionale. Le città crescevano, e ancora per un po’ si pensò che l’urbanizzazione dovesse rispondere a dei principi, a dei disegni. Erano in voga i piani regolatori, uno strumento per la pianificazione e la preparazione del futuro. Adesso l’idea stessa dell’esistenza di un piano regolatore ci sembra fantastoria e vige invece l’ideologia, perfettamente consona agli interessi di chi comanda, della «città diffusa», che molti cavalcano: anche tra gli urbanisti, i sociologi urbani, gli architetti, gli ingegneri, e in mezzo, come fiore all’occhiello, i superdivi dell’architettura monumentalistica, e sopra e dietro i soliti speculatori.
P. Torneremo sull’urbanistica e sull’architettura. Ma insisto: non stai rischiando di comporre un’agiografia di quel ventennio?
F. Non credo, perché è dopo gli anni Sessanta, con la svolta del ’63, che la società si è come bloccata, le sue classi dirigenti si sono chiuse nelle loro lotte intestine: messe da parte le aspirazioni solidamente riformistiche, si è rinunciato alla possibilità di una società migliore, all’idea di una collettività più armonica di quanto non fosse stata in passato, con meno disuguaglianze, meno disagi, meno ingiustizie. E non dobbiamo confinare quella vivacità costruttiva solo al Nord, dove c’erano le grandi fabbriche. In modi più faticosi e lenti, il cambiamento, o l’aspirazione al cambiamento, si era avvertito anche al Sud, con le grandi lotte contadine per la riforma agraria, senza le quali, alla fine degli anni Sessanta, non ci sarebbero stati gli slogan dei cortei che affermavano: «Operai e studenti uniti nella lotta», ma anche: «Nord e Sud uniti nella lotta». Quest’incontro molto concreto era cominciato con le migrazioni interne, dalle fatiche sindacali degli anni Cinquanta e dalle reciproche conoscenze maturate negli anni Cinquanta e Sessanta, nonostante i ritardi e le chiusure, che al Nord in qualche caso hanno perfino rasentato il razzismo. Però questa era una spinta collettiva. Se fosse continuata l’onda lunga della democratizzazione, si sarebbe potuto scrivere un’altra storia, si sarebbe potuto costruire un futuro migliore per il paese, che lo rendesse più preparato agli sconvolgimenti della postmodernità e che certamente gli avrebbe evitato tanti dei traumi tremendi degli anni successivi, dalla strage di piazza Fontana al sequestro e all’omicidio di Moro. Invece la logica della rapina tornò ad avere il sopravvento, senza più forze capaci di fermarla che venissero dall’interno delle classi dirigenti. Di quella logica solo oggi si comprende il disastro immane e irrimediabile, nella natura oltre che nel carattere del paese: una corruzione profonda che ha finito per contagiare quasi tutti, aggredendo e modificando quel che di buono, come popolo, pure avevamo. La differenza tra il ventennio di cui parlo e gli a...

Indice dei contenuti

  1. 1. L’omologazione e il «particulare»
  2. 2. Le minoranze etiche e i loro compiti
  3. 3. Le minoranze etiche, la politica e la stampa
  4. 4. Memorie di un’Italia minore
  5. 5. Educazione e urbanistica, la scuola e la città
  6. 6. «La congiura dei buoni»
  7. 7. E adesso?
  8. Ringraziamenti