Roma capta
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Roma capta

Il Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi

  1. 357 pagine
  2. Italian
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Roma capta

Il Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi

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I fatti, i miti, la memoria dei Sacchi di Roma: devastazioni che avrebbero lasciato una traccia indelebile nell'immagine della città ma anche nei comportamenti, nei pensieri, nelle paure più profonde dei suoi cittadini.

Un'avvincente indagine storiografica che ricorda come Roma si sia guadagnata la sua 'eternità' al prezzo di dolorosissime vicissitudini. Nel 386 i Galli la assalirono e conquistarono mettendola a ferro e fuoco per sette mesi. Nel 410 fu la volta dei Goti di Alarico che si gettarono con furia per le strade di Roma, avidi di bottino e di facili prede. Nel 455 e nel 472 i Vandali devastarono indisturbati la città. Poi, i cinque assedi avvenuti tra il 535 e il 552, fino al Sacco dei Lanzichenecchi nel 1527. Per oltre un millennio, il mito della Città Eterna si è rovesciato nel suo più drammatico epilogo. Giuseppe Serao, "la Repubblica"

Il saggio di Umberto Roberto ricostruisce le ricorrenti spoliazioni subite dalla città degli imperatori latini e dei papi a partire dal Sacco gallico del 386: un trauma terribile, presagio infausto della decadenza che avrebbe colpito l'Italia intera nei secoli successivi. Antonio Carioti, "la Lettura - Corriere della Sera"

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115046
Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

II. Agosto 410: la fine di un mondo

24 agosto 410: Alarico e i suoi Goti entrarono a Roma attraverso Porta Salaria. Trovarono la via aperta, eliminarono una sparuta resistenza, si gettarono con furia per le strade della città, avidi di bottino e facili prede. Iniziavano così tre giorni terribili per la storia della città, dell’impero romano d’Occidente, di un intero mondo. Come fu possibile che i barbari penetrassero a Roma senza combattere? Chi li aiutò? Chi aprì loro la porta? Non lo sappiamo. Una ricostruzione esatta di quelle ore non è possibile. Troppo esigue le nostre fonti; e male informate. Ma l’evento, al di là della sua tragicità, non si può slegare da una vicenda più generale: la crisi dello spazio mediterraneo all’inizio del V secolo. I tre giorni del Sacco furono, infatti, l’esito violento di un confronto tra impero e Goti che durava da decenni; furono un episodio in un’epoca di sconvolgimenti, di grandiosi movimenti di popoli tra le steppe dell’Asia e l’Oceano Atlantico, di lotte disperate per la sopravvivenza o l’annientamento. Non sapremo mai come e perché fu aperta Porta Salaria in quella lontana giornata di fine agosto 410. Ma tutto sommato questo è solo un dettaglio, in una storia gigantesca e drammatica che inizia in Tracia, negli ultimi mesi del 376, sulle rive del Danubio gonfio di pioggia.

La tragedia di un popolo in fuga

Nell’autunno del 376, le guarnigioni romane sul basso corso del Danubio, tra Durostorum e Noviodunum, vivevano in trepido allarme. A preoccuparle non era solo il fiume, che scorreva impetuoso, ingrossato da abbondanti piogge. Un altro pericolo incombeva terribile su questa remota frontiera dell’impero. Mentre il tempo ormai si guastava, una massa immensa di Goti, uomini, donne, vecchi, bambini, premeva sull’altra riva per attraversare il Danubio. Non era un tentativo di invasione. Era il funesto epilogo della tragedia di un popolo sconfitto e disperato, in fuga da prigionia e morte. I primi gruppi erano arrivati sulle rive del grande fiume già in primavera. Le vedette romane li avevano visti accamparsi senza intenzioni ostili; ma il loro numero era cresciuto giorno dopo giorno. Quando finalmente giunsero gli ambasciatori dei Goti, gli ufficiali romani vennero a conoscenza di una storia drammatica. Già verso la fine del III secolo, i Goti si erano stabiliti nella terra tra il Don, i Carpazi e il Danubio, dividendosi in due grandi gruppi. I Greutungi (poi Ostrogoti) abitavano la vasta pianura ucraina. La loro monarchia estendeva il suo controllo fino agli Urali e al Baltico. I Tervingi-Vesii (poi Visigoti) si erano invece stabiliti più a sud, occupando anche i territori in precedenza appartenuti alla Dacia romana. La loro confederazione ‘polietnica’ controllava le regioni tra il Dnestr e la frontiera romana. Lo spazio gotico era un territorio aperto. Vi convivevano culture e genti diverse che continuamente si mescolavano, in un complesso processo di etnogenesi. I Tervingi-Vesii avevano stabilito accordi con l’impero romano, nel 332 e nel 370; e, come nel caso di altri barbari a ridosso della frontiera renano-danubiana, s’erano aperti all’influenza romana. Sui loro territori viaggiavano ambasciatori imperiali, mercanti, missionari cristiani; alcuni tra i loro giovani più robusti attraversavano il Danubio per arruolarsi nell’esercito romano. Il tempo e la frequentazione quotidiana lavoravano per attenuare le differenze e trasformare le abitudini barbariche. Con un moderato uso della forza, i Romani erano in grado di controllare la frontiera e garantire un flusso ordinato di uomini e merci tra le due sponde1.
Poi, all’improvviso, tutto precipitò per l’arrivo di un popolo che dalle più remote steppe dell’Asia si gettò sull’Europa e cambiò in pochi decenni la storia del Mediterraneo. Leggende antichissime, tramandate dai Goti attraverso le generazioni, raccontavano che durante la migrazione dalla Scandinavia furono scoperte alcune streghe, le Aliorumnae, che praticavano riti necromantici, proibiti tra i Goti. Il re Filimero ordinò di cacciarle e le fece braccare dai suoi guerrieri, finché non svanirono. Raminghe nella steppa desolata, le streghe si unirono agli impuri spiriti del deserto. Ne nacque un genere ferocissimo di uomini: gli Unni. Per lungo tempo, questo popolo maledetto rimase separato dagli altri uomini, al di là della Palude Meotide (Mare d’Azov). Poi, sulle orme di una cerva, alcuni cacciatori unni attraversarono la palude che li divideva dal resto del mondo e scoprirono i territori della Scizia. Stupefatti per l’esistenza di terre oltre le paludi che li chiudevano nella loro desolazione, gli Unni si misero in marcia. E sul loro cammino verso occidente seminarono morte, distruzione, schiavitù.
Dalla leggenda alla storia: l’avanzata degli Unni fu davvero irresistibile. Tra il 360 e il 370 furono annientati gli Alani; poi, prima del 370, toccò ai Greutungi-Ostrogoti. Il grande regno di Ermanerico cadde con inaspettata rapidità. Il re e altri capi difesero la loro libertà sacrificandosi sul campo di battaglia. Ma fu tutto inutile. Entro il 375, le genti di stirpe germanica che non riuscirono a fuggire si sottomisero. Rimasero sotto il duro giogo degli Unni fino al 4542. Fu quindi la volta dei Goti Tervingi. L’attacco arrivò in un momento di grave lacerazione. Atanarico, capo (iudex) dei Tervingi, deteneva da tempo il potere supremo, che esercitava con durezza. Parte dell’aristocrazia gli era ostile, e resisteva sotto la guida di Alavivo e Fritigerno. Queste tensioni furono dissolte dallo sciame dei profughi greutungi, che annunciarono nel panico l’imminente arrivo degli Unni. Nell’emergenza, tutti si strinsero intorno ad Atanarico. L’esercito tervingio si schierò lungo il Dnestr e vi costruì un campo fortificato, al modo dei Romani. Poi Atanarico divise le forze. Rimase con il grosso delle truppe al di qua del fiume e inviò in avanscoperta una parte della sua cavalleria contro gli avversari. Atanarico e i suoi guerrieri attesero invano notizie. Gli Unni furono più veloci: passarono il fiume in una notte di luna piena, e s’avvicinarono alle spalle dei Tervingi. Atanarico riuscì a sganciarsi e attraverso una marcia nelle foreste della Bessarabia ripiegò verso una seconda linea di difesa nella pianura moldava, tra il Siret e il Prut. Anche questa volta, gli Unni sorpresero i Goti completamente impreparati, e li misero in rotta. Solo l’avidità degli inseguitori, appesantiti da un ingente bottino, evitò il massacro. Senza ostacoli che ne arginassero l’avanzata, gli Unni divennero padroni del territorio. L’effetto psicologico sui Goti fu disastroso. In un caos incontrollabile si sciolse l’esercito confederato e Atanarico perse la sua autorità. Aristocratici, guerrieri, semplici contadini, insieme alle loro famiglie e ai loro beni, iniziarono a fuggire verso sud, terrorizzati dalle incursioni dei cavalieri unni. Chi non scappava veniva ucciso o, nel migliore dei casi, reso schiavo da una gente terribile, descritta con sembianze bestiali e di inaudita ferocia. I Goti Tervingi e gli altri profughi si divisero in gruppi. Insieme ai suoi fedeli Atanarico si diresse verso la Transilvania. Ma fu una scelta condivisa da pochi. A circa un centinaio di chilometri dai luoghi dove gli Unni avevano sfondato si trovava infatti il Danubio, il confine con l’impero romano. Era l’unica possibilità di ««≠salvezza per la massa dei Goti. Sotto la guida di Fritigerno e Alavivo – principi cristiani, amici dei Romani – un popolo fuggiasco raggiunse le rive del grande fiume in preda al terrore, ma fiducioso di poter ricevere accoglienza e protezione dall’impero3.
I Goti nei Balcani e in Italia

Una decisione difficile

Nonostante le pressanti richieste dei Goti, le autorità romane sulla riva danubiana non presero iniziative. La decisione di far entra­re una massa tanto ingente di profughi non era un affare locale: era questione da discutere al cospetto dell’imperatore. D’altra parte, la situazione si presentava tranquilla. Gli Unni, infatti, non ­s’erano ancora avventurati fino alla riva danubiana. La vera emergenza era piuttosto rappresentata dalle limitate risorse a disposizione per fronteggiare un esodo di massa. Nell’estate del 376, mentre altri barbari continuavano ad afflui­re a ridosso del fiume, un’ambasceria di Goti fu scortata attraverso il cuore dell’impero d’Oriente fino ad Antiochia, in Siria, a oltre mille chilometri di distanza. Qui risiedeva Valente con la sua corte, nel grande palazzo sulla riva dell’Oronte. Furono ascoltate le richieste dei Goti: supplicavano di essere accolti nell’impero; chiedevano terra e viveri; offrivano sottomissione e aiuto militare in caso di guerra.
Il dibattito si accese nel concistoro al cospetto di Valente. Prevalse l’opinione di coloro che consideravano l’accoglienza dei Goti come un’occasione vantaggiosa. Dai tempi delle riforme di Diocleziano e Costantino, i costi economici, sociali e umani per il mantenimento dell’esercito erano elevatissimi. Era la voce di spesa più alta nel bilancio imperiale. E non si trattava solo di tassare la ricchezza dei sudditi per pagare stipendi e rifornire le truppe di viveri; anche il reclutamento si svolgeva attraverso una tassa di leva che colpiva in maniera odiosa le campagne. Sotto Valente, il problema si era inasprito. L’inaspettata richiesta dei Goti offriva la possibilità di contare su un numero ingente di giovani guerrieri da arruolare nell’esercito al posto dei contadini romani; allo stesso tempo, sarebbe stato possibile commutare ai distretti fiscali la tassa di leva sui contadini in monete d’oro. Oro al posto di uomini: con questo meccanismo, la cosiddetta aderazione, il fisco si sarebbe arricchito, lasciando nelle campagne le braccia più adatte ai duri lavori agricoli. L’imperatore prese la sua decisione: si accogliessero i Goti in territorio romano.
Ma non ci fu solo calcolo economico. Le fonti concordano sulla sollecitudine di Valente. I Goti erano venuti supplici, chiedendo protezione con umiltà e promettendo in cambio sottomissione. Inoltre, i loro capi erano cristiani ariani, come Valente, e implorarono d’essere ascoltati in nome della comune fede. Valente ne ebbe compassione. Oltre ai vantaggi, gli vennero esattamente spiegate le dimensioni straordinarie dell’operazione. L’imperatore stabilì che quantità adeguate di viveri venissero trasferite dalle città della regione verso le rive del Danubio per sfamare temporaneamente i profughi. L’esercito romano era un organismo efficiente e soggetto a dura disciplina. Ordine e assistenza ai capi goti dovevano essere assicurati dalle truppe; le autorità militari del confine erano responsabili della sistemazione di tanta gente, in attesa di nuove istruzioni4.

Disastro umanitario sulle rive del Danubio

Al ritorno degli ambasciatori, in pieno autunno, l’esodo ebbe inizio. Fu un sollievo per le masse, che a lungo avevano aspettato oltre il fiume. Sulla spinta della paura, della fame, della speranza di salvezza, tutto precipitò in un caos spaventoso. Le fonti riferiscono il clima di confusione e febbrile trepidazione al passaggio del Danubio. Le autorità militari avevano istruzioni chiare: calcolare il numero dei profughi, agevolare l’ordinata esecuzione del traghettamento e, soprattutto, requisire le armi. Nulla di ciò fu possibile. Qualche ufficiale romano si recò sull’altra riva per concertare le fasi dello sbarco, ma presto tutti si riversarono senza ordine sulle rive: uomini e donne, bambini e vecchi, con i loro animali, i loro pochi beni e le armi ben nascoste. Lo sforzo logistico dei Romani fu enorme: furono utilizzate tutte le imbarcazioni disponibili; un gran numero di carri e mezzi di trasporto venne inviato verso la riva romana per sgombrarla velocemente da quanti arrivavano. Moltissimi attraversavano con l’aiuto dei Romani, su barche, zattere, tronchi d’albero scavati. Ma il fiume era in piena. Chi cadeva, annaspava per un po’ tra i flutti impetuosi e spariva per sempre. Lavorando febbrilmente, di giorno e di notte, al fuoco delle fiaccole, i Romani trasportarono sulla loro riva un popolo intero: non se conosce il numero. Ammiano Marcellino (XXXI 4, 6) cita Virgilio e li paragona ai granelli di sabbia che il vento di primavera spinge sulle coste d’Africa: «Così per l’alacrità e la precipitosa solerzia di taluni, si apriva la via allo sconvolgimento dell’impero romano».
Con disciplina e tenacia, secondo le sue migliori tradizioni, l’esercito romano riuscì nella prima parte dell’operazione. Fu a questo punto che un’impresa ben pianificata degenerò in una catastrofe. È bene seguire con attenzione il resoconto di Ammiano Marcellino, un contemporaneo che scrisse interrogando i testimoni e i protagonisti, anche di versante gotico. La sua ricostruzione è tanto più suggestiva perché Ammiano è una voce di solito ostile ai barbari. Ex ufficiale della guardia imperiale, era uomo ligio alla tradizione e convinto della superiorità della cultura ellenistico-romana, garante di ordine e razionalità rispetto all’universo inquieto e brutale dei barbari. La massa dei Goti venne sistemata nei campi a ridosso della riva. La paura degli Unni era ormai alle spalle; ma presto iniziarono altri tormenti: fame, freddo, pioggia, le difficoltà di una sistemazione precaria, all’addiaccio o in ripari di fortuna. Gli accordi erano chiari. L’imperatore aveva ordinato che i profughi fossero sfamati con provviste radunate da tutta la provincia, fino a nuovo ordine. Ma i viveri non furono mai distribuiti. Vennero invece tra gli accampamenti i soldati romani, che iniziarono un turpe commercio di beni di prima necessità. Chiedevano oro, gioielli, animali, ogni bene di valore; davano in cambio cibo avariato e carne di cane o di carogna. Mentre i capi barbari insistevano inutilmente per ottenere quanto promesso ad Antiochia, le masse dei profughi furono umiliate al punto di dover vendere i propri figli come schiavi pur di sopravvivere. Si chiede lo scrittore goto Iordanes, ricordando le antiche sofferenze del suo popolo: «Non c’è infatti più umanità nel vendere un uomo pur di sfamarlo che nel lasciarlo morire di fame pur di sottrarlo alla schiavitù?». La responsabilità non era di Valente, e neppure dei suoi alti funzionari. L’ordine era stato impartito, ma i viveri erano stati nascosti e trafugati.
Ammiano testimonia con sincerità il dramma dei Goti nell’autunno-inverno 376, e indica senza esitazioni due colpevoli tra i Romani: Lupicino, comandante dell’esercito comitatense, e Massimo, comandante delle truppe sulla frontiera di Tracia, uomini senza dignità. La causa del loro agire fu una maligna e irrefrenabile avidità. Corruzione e brama di ricchezze erano mali interni alla società tardoromana, e nei momenti di crisi tra IV e V secolo contribuirono al collasso delle istituzioni imperiali. Già a partire dal III secolo, la fedeltà dei militari ai principi era pagata a peso d’oro. Pres...

Indice dei contenuti

  1. Prologo. Il Sacco gallico e la memoria dei vinti
  2. I. Alla vigilia della catastrofe: una metropoli opulenta e senza difesa
  3. II. Agosto 410: la fine di un mondo
  4. III. La vendetta di Cartagine: i Vandali a Roma (giugno 455)
  5. IV. Una caduta rovinosa: il terzo Sacco di Roma (luglio 472)
  6. V. Tra Goti e Bizantini: Roma al passaggio tra antichità e Medioevo
  7. VI. Un mito alla rovescia: il Sacco di Roma del 1527
  8. Epilogo. I Sacchi tra storia e mito
  9. Sigle e abbreviazioni
  10. Note
  11. Cronologia e protagonisti dei Sacchi di Roma nell’antichità
  12. Glossario
  13. Figure