La Terra è finita
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La Terra è finita

Breve storia dell'ambiente

  1. 214 pagine
  2. Italian
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La Terra è finita

Breve storia dell'ambiente

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Una guida alla comprensione delle ragioni dell'eccesso di pressione esercitata dagli esseri umani sulla biosfera. Una storia complessa, con una trama fitta e inaspettata che arriva fino a oggi.Paolo Cacciari, "Carta"Che cosa ha portato le società del nostro tempo a minacciare, con il loro carico di veleni e il consumo crescente di risorse, la sopravvivenza degli esseri viventi che popolano il pianeta? Non c'è dubbio che i problemi che abbiamo di fronte non sono il risultato di processi recenti. All'origine ci sono cause più o meno remote. Come siamo arrivati sin qui?

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858112786
Argomento
Economics

II. I nuovi scenari del XX secolo

1. Una scala planetaria

Il XX secolo inaugura senza alcun dubbio un «tempo nuovo» nella storia del rapporto tra gli uomini e il mondo fisico. È in questa fase che appaiono fenomeni mai osservati sino ad allora. Nuovi pericoli, di portata mondiale, si presentano per la prima volta davanti all’umanità. Si pensi all’ingresso della radioattività nucleare e alle armi atomiche, che vengono a minacciare per la prima volta la sopravvivenza stessa degli uomini sulla Terra. Oppure al «buco dell’ozono», di cui ci occuperemo in seguito, all’«effetto serra», ormai quasi universalmente ritenuto responsabile dell’aumento della temperatura del pianeta. Ma anche i processi già noti acquistano una visibilità inedita e soprattutto assumono una dimensione planetaria. Quelli che per secoli erano stati processi locali di alterazione e di contaminazione, nel Novecento diventano universali. Essi non minacciano più semplicemente la salute di gruppi delimitati, o la condizione di salubrità di un determinato numero di cittadini, ma rappresentano un pericolo che riguarda la sopravvivenza stessa degli esseri viventi. Non è un caso che proprio in questo secolo – soprattutto a partire dagli ultimi decenni – si sia affermata una «coscienza ambientalista», una opinione pubblica attenta ai problemi dell’ambiente, presente in diversa misura e con diversa forza politica in ogni angolo del mondo, che non si era mai manifestata in precedenza. Così come è in questo secolo che si è venuta realizzando una complessa rete di leggi e di accordi internazionali volti a proteggere la natura e le condizioni generali del pianeta.

2. L’esplosione delle città

L’incremento demografico

Agli inizi del XX secolo il numero degli uomini che abitavano la Terra era ben lontano dalle dimensioni attuali. Esso si attestava intorno a 1 miliardo e 700 milioni di persone. Una cifra certamente non allarmante e comunque ben lontana dai 6 miliardi con cui si è chiuso il secondo millennio dell’era cristiana. Quello che tuttavia è apparso particolarmente minaccioso, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, è stato il ritmo sempre più accelerato dell’incremento demografico. Tra il 1900 e il 1950 la popolazione mondiale si è portata, con una crescita assolutamente inedita per rapidità di incremento, a 2 miliardi e mezzo di unità. Ma tra il 1950 e il 1986, in soli 36 anni, essa – per la prima volta nella storia in così breve tempo – si è addirittura raddoppiata, passando a 5 miliardi di abitanti. Oggi, agli inizi del nuovo millennio, la popolazione mondiale ha superato la soglia dei 6 miliardi di persone. Secondo le stime degli esperti, entro la metà del secolo dovrebbe verificarsi un incremento di circa 3 miliardi, destinato poi a stabilizzarsi nella seconda metà.
Si tratta dunque di fenomeni che si affacciano per la prima volta sulla scena del mondo. Essi comportano un incremento senza precedenti del consumo di beni alimentari, acqua, territori: un consumo che accresce a sua volta la pressione su altre risorse naturali e fonti di energia. Un aumento così imponente e rapido di popolazione ha d’altra parte comportato fenomeni di urbanesimo accelerato con dimensioni assolutamente sconosciute nei secoli precedenti.
Pochi dati sono sufficienti per comprendere l’ampiezza delle trasformazioni che si sono realizzate in pochi decenni. Si pensi che ai primi del Novecento soltanto un decimo della popolazione mondiale viveva nelle città, le quali erano situate prevalentemente in Europa e negli Stati Uniti d’America. Il mondo di allora era ancora, in grandissima parte, un’unica e immensa campagna. A metà del secolo, nel 1950, la popolazione urbana aveva però raggiunto la ragguardevole quota del 29%. Poco meno di cinquant’anni più tardi, nel 1995, la percentuale delle persone che vivevano in città ha toccato la soglia del 43%: vale a dire quasi la metà della popolazione mondiale. Ma nel 2001 ormai tre miliardi di abitanti, cioè la metà della popolazione mondiale, vivevano entro aree urbane.

Le megalopoli

Nel frattempo, nel corso degli ultimi decenni del Novecento, si è venuto affermando un nuovo e inquietante fenomeno: la nascita e la diffusione su scala planetaria delle megalopoli. Immensi agglomerati di popolazione estesi su un territorio in continua espansione. Nel 1995 le città che avevano superato i 10 milioni di abitanti erano infatti diventate circa 20. Al loro interno vivevano oltre 2 miliardi e 600 milioni di persone di cui ben 1 miliardo e 700 milioni concentrate nei paesi in via di sviluppo. A questo incremento senza precedenti della popolazione urbana hanno certo dato un contributo rilevante anche i paesi industrializzati. Una delle più popolose città del mondo è oggi significativamente Tokyo, che conta oltre 26 milioni di abitanti. E città gigantesche sono, com’è noto, Los Angeles, passata dai 100.000 abitanti degli inizi del XX secolo agli attuali 14 milioni. Essa occupa ormai un territorio vasto quanto una regione come l’Umbria. E così anche New York, Londra, Parigi ecc. Ma nella seconda metà del secolo scorso il fenomeno dell’urbanesimo accelerato è stato imponente tra i paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Si pensi a Città del Messico passata da 1 milione e 800.000 abitanti del 1940 agli oltre 32 milioni di oggi, a San Paolo, in Brasile, con 25 milioni, o a Calcutta, in India, che dai 5 milioni del 1950 è balzata agli oltre 15 milioni della fine del secolo scorso. E tale tendenza ha investito la Cina con Changquing che supera i 30 milioni, Pechino che si avvia verso i 20 milioni insieme a Canton e Shanghai. Nella stessa Africa, Il Cairo e Lagos hanno da tempo superato i 10 milioni di abitanti.
Perché sono rilevanti, sotto il profilo ambientale, tali fenomeni? In queste aree del mondo l’urbanizzazione è stata particolarmente accelerata e caotica. A differenza di quanto è avvenuto nei paesi economicamente avanzati, dove la popolazione è cresciuta insieme all’economia e ai servizi, nelle aree povere le città si sono ingigantite soprattutto per l’arrivo tumultuoso di contadini poveri. In genere è stata la distruzione delle basi di sopravvivenza delle economie agricole a determinare l’esodo della popolazione verso gli agglomerati urbani. Spesso dotati di poca terra, emarginati da politiche di sviluppo agricolo promosse dai paesi ricchi e orientate a espandere l’agricoltura di mercato, milioni di contadini si sono ritrovati senza fonti di reddito e sono perciò migrati in cerca di fortuna nelle città.
Ma molte altre sono state e continuano a essere le spinte che portano alla formazione delle megalopoli. In alcuni casi queste ultime sono cresciute perché intere popolazioni sono sfuggite a guerre fratricide, com’è accaduto in Africa, o si sono dovute riparare in seguito a vere e proprie catastrofi ambientali, com’è successo nel Bangladesh, colpito da continue alluvioni. In quest’ultimo caso – con la fuga delle popolazioni soprattutto nella capitale Dacca – ci troviamo di fronte a una figura del tutto nuova nella storia recente: i profughi ambientali. Ma a prescindere dalle cause che hanno dato luogo alle megalopoli nei paesi poveri, ovunque si è verificato uno stesso fenomeno. Intorno agli antichi nuclei urbani sono venute crescendo immense baraccopoli abitate da una popolazione accampata alla meglio, con scarsi redditi ricavati da lavori occasionali e precari, e perciò costretta a vivere in condizioni igieniche degradate. In queste aree quindi i problemi ambientali si presentano anche come condizioni igieniche precarie e insalubri, scarsità di acqua potabile, inquinamento biologico ma anche da smog automobilistico.
Per quale ragione si sottolinea l’importanza, sotto il profilo delle trasformazioni ambientali, dell’urbanesimo abnorme che ha segnato la storia della seconda metà del XX secolo? Perché tale processo, come vedremo brevemente, ha comportato e comporta tali mutamenti negli equilibri naturali da costituire uno dei grandi agenti di alterazione dell’habitat dell’intero pianeta. Intanto occorre ricordare che le città si espandono a spese della campagna, quindi esse avanzano grazie alla distruzione di boschi, foreste, campi agricoli, aree libere e incolte. Esse consumano superfici crescenti di territorio. Al loro posto subentra il cemento degli edifici e l’asfalto delle strade. E tutto questo determina, ovviamente, la nascita di un habitat del tutto innaturale per gli abitanti, che spesso ha esiti catastrofici. Ad esempio, l’occupazione con edifici di territori prima liberi fa sì che in occasione di grandi piogge l’acqua che prima veniva assorbita dal terreno ora determina in breve tempo improvvise inondazioni, che spesso finiscono per travolgere uomini, animali e abitazioni. La stessa espansione degli abitati lungo le sponde dei fiumi, un tempo disabitate, accresce la possibilità di violente inondazioni esponendo così uomini e beni a distruzioni e a danni incalcolabili. Ma al tempo stesso le città, per vivere, hanno bisogno di mettere in moto un gigantesco «metabolismo» dissipativo. Esse costituiscono, infatti, dei centri voraci e giganteschi di trasformazione e distruzione di risorse. Consumano, e digeriscono, derrate alimentari, merci industriali, acqua, aria, territorio, energia, ma al tempo stesso immettono nell’ambiente masse crescenti di rifiuti, di scarti, di scarichi che a loro volta inquinano l’acqua, l’aria, il territorio.
A tutto ciò è venuta ad aggiungersi, soprattutto negli ultimi decenni, la crescita del traffico automobilistico che ha alterato profondamente la qualità dell’aria. Gli Stati Uniti per primi hanno subìto gli effetti di questo grave fenomeno. Già negli anni Ottanta almeno cento città americane erano colpite, in diversa misura, dalla presenza dello smog automobilistico. Per decenni Los Angeles – anche per ragioni ambientali proprie del sito su cui sorge questa città – ha vissuto immersa per buona parte dell’anno in una nebbia fotochimica. Situazione migliorata in anni recenti grazie all’uso di carburanti meno inquinanti, con ridotte percentuali di piombo, ma non certo risolta. Il fenomeno si è andato affermando in forme ancora più gravi nelle megalopoli dei paesi meno ricchi. A Città del Messico, negli anni Novanta, lo smog urbano e specialmente le cosiddette «polveri sottili», il particolato, venivano considerati responsabili della morte di oltre 12.000 persone l’anno, con una perdita economica calcolata intorno a 1 miliardo e 100 milioni di dollari. Non diversamente andavano le cose a Calcutta, che già nell’Ottocento era inquinata dal carbone, a cui si è poi aggiunto il traffico automobilistico. Alla fine del secolo scorso nel sangue dei bambini che abitavano al Cairo fu riscontrata una quantità di piombo superiore da tre a cinque volte rispetto a quella riscontrata nei bambini che vivevano nelle zone rurali dell’Egitto.
Nel 1988 l’Organizzazione mondiale della sanità stimò che su 1 miliardo e 800 milioni di abitanti delle città del pianeta, più di 1 miliardo respirava aria con livelli di biossido di zolfo, caligine e polveri dannosi alla salute delle persone. La stessa Organizzazione, in uno studio del 1997, stimava in circa 400.000 ogni anno i decessi dovuti all’inquinamento dell’aria.

3. Un fenomeno antico e nuovo: l’erosione della Terra

Le civiltà mediterranee

Com’è noto, l’alterazione del suolo per scopi produttivi è antica quanto la stessa storia degli uomini. L’uso del fuoco per abbattere le foreste, o al fine di dare la caccia ai grandi mammiferi, i dissodamenti per le prime attività agricole sono le più precoci forme di degradazione del territorio a opera delle comunità umane. Di certo una delle forme più antiche di alterazione degli equilibri naturali è il fenomeno che va sotto il nome di erosione. Già nel mondo antico, soprattutto nei paesi del bacino del Mediterraneo, dove sono fiorite alcune delle prime civiltà, i grandi diboscamenti hanno provocato danni colossali alla stabilità del suolo. Privati del loro originario manto forestale, molti territori sono rimasti esposti agli estremi del clima mediterraneo, che ha estati torride – con conseguenti fenomeni di fratturazione delle rocce e del suolo – e inverni caratterizzati da intense precipitazioni, con effetti dilavanti sugli strati incoerenti del terreno e soprattutto sui suoli in pendenza, sui fianchi di montagne e colline. Da ciò i conseguenti fenomeni delle frane, degli smottamenti, della perdita di terra fertile: in una parola, i fenomeni di erosione. Nel mondo antico sono rimasti leggendari i processi di distruzione del suolo provocati dall’abbattimento dei boschi di cedri nel Libano. Per costruire le loro navi, i popoli che nel bacino del Mediterraneo hanno dato vita alle grandi civiltà del mondo antico hanno anche avviato un imponente processo di erosione di incalcolabile portata.

Il «dust bowl»

Nel nostro secolo il fenomeno dell’erosione ha acquistato dimensioni imponenti e crescenti. La progressiva perdita di terra fertile, per le cause più varie, costituisce uno dei fenomeni più rilevanti di alterazione ambientale del nostro tempo e tuttavia è anche uno dei meno conosciuti. Tale rimozione risulta ancora più strana se si pensa che proprio un simile fenomeno, nel corso del XX secolo, ha assunto in alcuni paesi la portata di una vera e propria catastrofe. È poco nota, infatti, la vicenda del gigantesco processo di erosione che, a partire dagli anni Trenta, colpì gli Stati delle Great Plains (Grandi Pianure) negli Usa. In questi territori, sin dalla fine dell’Ottocento, diversi milioni di ettari di terre vergini – talora adibite a pascolo – vennero dissodati soprattutto per far posto alla coltivazione del grano. E tale pratica venne ulteriormente estesa soprattutto nei primi decenni del Novecento, grazie alla semina di alcune varietà di frumento resistenti alla siccità tipica di quelle regioni. Ma quella coltivazione avvenne su terre inadatte a sostenerla. Nella gran maggioranza dei casi, infatti, esse erano antichi pascoli dotati di uno strato esile di humus, poggiante su uno strato di roccia la cui composizione fisico-chimica era molto fragile. Accadde così che nei primi anni Trenta, dopo un periodo particolarmente accentuato di siccità, i venti che imperversarono impetuosi nelle Grandi Pianure finirono col sollevare devastanti tempeste di sabbia. Lo strato superficiale dei terreni, privato della protezione del manto erboso, venne strappato via in nuvole colossali di polvere che spazzarono interi Stati per il raggio di centinaia e centinaia di chilometri. I territori del Kansas occidentale, del Colorado sud-orientale, dell’Oklahoma, del Texas, del Nuovo Messico e di altri Stati ne furono variamente colpiti. Questo fenomeno, detto dust bowl (letteralmente «palla di polvere»), provocò danni ingenti all’agricoltura americana. Si pensi che nel solo marzo 1935 le tempeste distrussero circa due milioni di ettari di coltivazioni a frumento, mentre incalcolabile fu la perdita di terreno superficiale che si verificò nelle campagne sia in quegli anni che nei periodi successivi. Si calcolò allora che la prima grande tempesta di sabbia del maggio 1934 avesse sollevato circa 320 milioni di tonnellate di terreno superficiale trascinandolo verso i cieli della costa orientale. Almeno 11 milioni di tonnellate di polvere caddero sulla sola Chicago, mentre tracce della terra sbriciolata furono trovate perfino sulle navi a 300 miglia dalla costa atlantica. Sensibili furono anche, nel corso del decennio, i danni alla salute degli abitanti delle Grandi Pianure, soprattutto dei bambini.

Nei paesi poveri

Il processo di erosione non ha conosciuto, nella seconda metà del XX secolo, forme catastrofiche simili a quelle del dust bowl. Anche perché i governi – come nel caso degli Usa – e le amministrazioni locali sono corsi ai ripari, con varie iniziative, per evitare il ripetersi dei disastri. Ma esso ha assunto nel frattempo dimensioni di inusitata ampiezza ed è pressoché presente in ogni paese del mondo. Le ragioni della sua diffusione sono molteplici e dipendono tanto da cause demografiche che economiche e politiche. La crescita della popolazione dopo il 1950 ha in effetti significato una maggiore pressione dei coltivatori sulla terra. Sono state abbattute foreste, dissodate terre incolte per far spazio ai pascoli e all’agricoltura e questo ha finito per esporre sempre più ampie superfici all’azione distruttiva degli agenti atmosferici. Tale dinamica ha avuto luogo soprattutto nei paesi ex coloniali, dove l’agricoltura, sempre più indirizzata a rispondere alla domanda del mercato mondiale, ma anche per alimentare le popolazioni, ha intaccato territori sempre più vasti, prima coperti dal manto forestale o comunque incolti. In alcune regioni dell’Africa, ciò che rimane dopo l’ipersfruttamento della terra è definito dagli esperti «desert pavement». In Brasile, ad esempio, al fine di alimentare le esportazioni di caffè e di zucchero, divenne più sistematica che in passato la pratica di abbattere le foreste per espandere le coltivazioni, esponendo i suoli ai processi erosivi. Per ragioni molteplici, su cui non possiamo qui soffermarci, le foreste tropicali, private della loro copertura originaria, sono soggette a processi accelerati di perdita della fertilità e di degradazione. Degno di nota è quanto avvenuto nelle Filippine nella seconda metà del XX secolo. In questo paese il commercio del legname e l’espansione dell’allevamento di bestiame – destinato a fornire carne al mercato degli Usa – portarono non solo ad allargare le coltivazioni nelle pianure, ma anche a intaccare le pendici delle colline e delle montagne. Il processo di perdita di terra nelle Filippine ar...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. Luci e ombre della modernità
  3. II. I nuovi scenari del XX secolo
  4. III. Il consumo delle risorse
  5. IV. Nuovi saperi, politiche, istituzioni
  6. V. L’ambiente in Italia