Sociologia della comunicazione interpersonale
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Sociologia della comunicazione interpersonale

  1. 182 pagine
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Sociologia della comunicazione interpersonale

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Le dimensioni dell'interazione comunicativa analizzate con approccio sociologico: i rituali che regolano gli incontri e gli scambi quotidiani tra individui, le pratiche della costruzione e attribuzione di un senso condiviso, le regole della conversazione, fino allo studio del linguaggio come tipo di azione sociale legata alle dimensioni della società, della cultura e dell'identità personale, di genere, di gruppo.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858114223

I. L’interazione faccia a faccia

1.1. Il rituale dell’interazione

1.1.1. Quali rituali?

La prima prospettiva che esaminiamo è quella che si occupa nello specifico dell’interazione faccia a faccia, letta attraverso la lente della dimensione rituale. Dobbiamo dunque vedere, innanzitutto, che cosa si intende qui per rituale, che cosa viene celebrato, dove e, poiché quando si ha un rituale si ha anche un oggetto del culto, qual è l’oggetto del culto dei rituali di cui ci occupiamo.
Uno dei «padri fondatori» della sociologia, Émile Durkheim (1912), nello studiare il fenomeno della vita religiosa sostiene che tutte le religioni hanno in comune almeno due elementi: un insieme di credenze e un insieme di riti. Le prime sono degli stati di opinione, delle rappresentazioni; detto un po’ tautologicamente, insomma, sono qualcosa in cui si crede. I secondi sono invece dei comportamenti, o più precisamente dei modi di agire determinati rigidamente. In riferimento alle credenze, si può aggiungere che il contenuto di ogni credenza consiste in una distinzione profonda tra sacro e profano; si ha, cioè, una sfera sacra e una profana, e tra di esse c’è una netta separazione – ciò che è profano non può essere sacro, e viceversa: lo può diventare, ma ci vuole una cerimonia adatta allo scopo. Il sacro è qualcosa di profondamente serio, rispettato, fuori dall’ordinario, da avvicinare con la dovuta formalità e la dovuta deferenza. Il profano è tutto ciò che non è sacro, è l’ordinario. Quanto al rituale, è importante sottolineare come non vada visto in termini utilitaristici: nel rituale la forma è di fondamentale importanza, anzi si può dire che il rituale sia un atto sostanzialmente privo di scopo, ma pieno di senso.
Rimane, tuttavia, da chiedersi come si spieghi l’idea di sacro così presente nel fenomeno della vita religiosa. Se in natura non c’è niente di tutto questo, da che cosa deriva allora questa idea? Secondo Durkheim, in effetti, esiste una realtà sovraindividuale che ha un notevolissimo potere su di noi: la società. Le divinità, allora, sono i simboli della società. La formula, peraltro, è ribaltabile, nel senso che la società può essere considerata come una comunità morale. La società, secondo Durkheim, sviluppa due forme di costrizioni: una, appunto, è di tipo morale, nel senso che la società prevede una serie di norme e valori condivisi, e sono proprio le pratiche rituali a riaffermare continuamente tali norme morali, rafforzando inoltre il senso di appartenenza degli individui. La seconda forma di costrizione è di tipo cognitivo. Si pensi agli strumenti di cui disponiamo per comunicare, ad esempio il linguaggio. Esso ci viene dall’uso, e dunque, in ultima analisi, dalla società stessa. C’è quindi qualcosa di impersonale che esiste al di fuori di noi: ecco, le religioni non fanno altro che affermare che questo dio è non solo esterno, ma anche interno a noi. Del resto, anche la società è interna a noi: gran parte di ciò che è «interno» a noi è espressione del nostro essere sociali, del nostro appartenere a una società. Insomma, secondo Durkheim la società ha la priorità sull’individuo, e costituisce una comunità morale che si esprime simbolicamente attraverso la vita religiosa. E così, se nelle religioni studiate da Durkheim, come il totemismo degli indiani americani e delle tribù australiane, il totem non solo dà il nome ai vari clan divenendone anzi l’emblema, ma rappresenta anche il mana, una sorta di forza o di sostanza immateriale, allora vorrà dire che il totem è simbolo sia del dio (il mana) che della società (il clan), e quindi, in ultima analisi, che dio e società sono la stessa cosa. Come dire: gli uomini delle tribù, venerando il totem, venerano la società.
Questo, tuttavia, vale per le religioni «primitive»: com’è possibile riportare il tutto alle nostre società contemporanee? Secondo Durkheim si può considerare, in maniera idealtipica, un continuum tra due forme di società: la società a «solidarietà meccanica» e la società a «solidarietà organica». La prima forma è quella delle società cosiddette «primitive», dove le persone sono continuamente alla presenza le une delle altre e fanno essenzialmente la stessa cosa, più o meno nello stesso ambiente. Qui l’individuo in sé ha scarsa importanza; la forza del gruppo è tanto ampia che l’individuo non emerge. La seconda forma è quella delle società contemporanee, nelle quali le persone sono disperse o comunque separate tra loro dalla barriera della privacy e sottostanno a una divisione del lavoro tale per cui ognuno ha competenze e compiti diversi. In questo tipo di società l’importanza del gruppo è inferiore rispetto a quanto accade nella prima: la realizzazione della propria vocazione è considerata fondamentale. Ebbene, se, come dice Durkheim, Dio è il simbolo della società, il contenuto del simbolo varierà a seconda dei diversi gruppi sociali che prenderemo in considerazione. Nel primo caso, quello della società a solidarietà meccanica, dove il fulcro è il gruppo, il contenuto simbolico del sacro sarà costituito dal totem del gruppo; nel secondo caso, quello della società a solidarietà organica, così centrata sull’individuo, il contenuto simbolico del sacro sarà l’individuo stesso.
Con questo, arriviamo ai rituali dell’interazione quotidiana. Se Durkheim pensava ai grandi rituali della vita pubblica, alle grandi cerimonie collettive della cosiddetta «religione civile», Goffman studia i rituali della vita di tutti i giorni, che il sociologo canadese definisce come una «standardizzazione, ottenuta attraverso il processo di socializzazione, del comportamento corporeo e vocale, una standardizzazione che consente a tale comportamento di assumere una funzione comunicativa specializzata» (Goffman 1983, trad. it., p. 47). Si tratta dei «rituali diffusi» del e nel quotidiano (Wolf 1979), quelli il cui oggetto di culto è l’individuo e che di fatto, come vedremo nelle prossime pagine, hanno un ruolo significativo nel costruire l’individualità. Nelle parole di Goffman (1967, trad. it., p. 51),
nel capitolo di Durkheim sull’anima [...] egli avanza l’ipotesi che la personalità dell’individuo possa essere considerata come una frazione del mana collettivo e che, come accenna nei capitoli successivi, i riti elaborati per le rappresentazioni della collettività sociale talvolta possono essere celebrati per l’individuo stesso. [...] nel nostro mondo urbano e secolare, all’individuo è concessa una certa sacralità che viene manifestata e confermata da atti simbolici.
Applicando dunque l’idea di Durkheim all’identità personale, Goffman distingue due tipi di rituali della vita quotidiana, quelli della deferenza e quelli del contegno. I primi manifestano all’interlocutore il nostro apprezzamento nei suoi riguardi (o nei riguardi di ciò che rappresenta), mentre i secondi sono rivolti a noi stessi per mostrare agli altri partecipanti la nostra onorabilità e competenza interazionale. Sebbene i due termini siano presentati analiticamente, di fatto le attività a cui fanno riferimento hanno molto in comune: nel momento in cui compirò un atto rituale per concedere (o negare) la mia deferenza (il mio apprezzamento) nei confronti di qualcuno, allo stesso tempo avrò mostrato agli altri se il mio contegno è buono o cattivo, se è appropriato o meno alla situazione in corso. Gli atti che compiamo (o che non compiamo) per esprimere il nostro contegno sono talmente dati per scontati che è difficile vederli; il modo migliore per avere un’idea della loro natura è vedere quei luoghi e quelle situazioni in cui vengono violati. Si pensi, ad esempio, a un ospedale per malati mentali, dove avviene una continua violazione delle regole, e dove le persone internate non sono messe nelle condizioni di poter manifestare un adeguato contegno. Ma la vita quotidiana è piena di esempi di mantenimento del contegno:
Un’espressione interessante del tono dell’interazione che sottende la corretta gestione del proprio aspetto personale è reperibile nella costante preoccupazione degli uomini della nostra società di avere i calzoni ben abbottonati o che non si noti il rigonfiamento di un’erezione. Prima di entrare in una situazione sociale, essi controllano con una rapida occhiata la parte in questione della loro facciata personale, e una volta entrati nella situazione prendono talvolta altre precauzioni, come incrociare le gambe o coprirle con un giornale o un libro, soprattutto se il proprio controllo è un po’ allentato grazie alla comodità della sedia. Preoccupazione analoga è quella delle donne che cercano di non tenere le gambe aperte in modo da far vedere le cosce e la biancheria intima (Goffman 1963a, trad. it., p. 28).
Quanto alla deferenza, va detto subito che va «guadagnata»: non possiamo attribuircela da soli, ma occorre che siano gli altri a stabilire se ce la siamo meritata o meno. Questo fa sì che le persone siano incoraggiate a incontrare altre persone, e con ciò la società si assicura che gli individui stabiliranno delle interazioni tra loro. La deferenza si può esprimere attraverso varie forme, ma le due più importanti sono rappresentate dai «rituali di discrezione» e dai «rituali di presentazione». Questi due tipi di rituali si rifanno in qualche modo alla distinzione durkheimiana tra rituali positivi e rituali negativi. I primi sono quelli che implicano una serie di proscrizioni, ovvero ci dicono quello che non bisogna fare: consistono in interdizioni, la cui esecuzione scorretta è una violazione. I secondi consistono in una serie di prescrizioni, ovvero ci «ordinano» di fare qualcosa.
Ebbene, i «rituali di discrezione», che, come i rituali negativi, comportano proscrizioni, implicano quelle forme di deferenza per cui gli individui devono evitare di invadere e violare la «sfera sacrale» attorno all’individuo (vedremo meglio poco più avanti in che cosa può consistere tale violazione).
I «rituali di presentazione», corrispondenti grossomodo ai rituali positivi, e che quindi implicano prescrizioni, sono quelli mediante i quali «l’individuo rende testimonianza al destinatario del modo in cui lo considera e lo tratterà nell’imminente interazione» (ivi, trad. it., p. 77). I rituali di presentazione costellano tutta la nostra attività rituale nella vita quotidiana, e si presentano sotto molteplici forme. Ad esempio, i «rituali di ratifica»: con questi rituali, «eseguiti per e verso una persona che ha modificato in qualche modo il proprio status, le proprie relazioni, l’aspetto, il rango, i titoli, insomma la sua prospettiva e direzione nella vita» (Goffman 1971, trad. it., p. 46), mostriamo a tale persona che riconosciamo il mutamento sopravvenuto, e lo «ratifichiamo». Si pensi a quando ci congratuliamo con qualcuno per il matrimonio, o quando facciamo le condoglianze ai parenti di una persona che è morta, o ancora quando ci congratuliamo con un amico che si è laureato, e così via. Ma naturalmente lo stesso vale quando rassicuriamo circa il proprio aspetto l’amica che ha tentato un taglio di capelli quantomeno stravagante, o che si è rifatta il naso. In quasi ogni conversazione possiamo renderci conto di quanto sia importante questa continua attività rituale:
i rituali di ratifica si trovano dappertutto, anche nelle occasioni più modeste. Se in una conversazione uno dei presenti solitamente silenzioso fa un’osservazione, egli esprime così facendo la credenza di avere il pieno diritto di parlare e di essere degno di ascoltare, e obbliga quindi gli altri, sia pure malvolentieri, a indicare che anche lui è qualificato a parlare. La completa eliminazione di questi sostegni rituali è spesso auspicata ma raramente realizzata, e comprensibilmente. Senza tale clemenza, la conversazione resterebbe senza la sua fondamentale base organizzativa, cioè l’interscambio rituale, e le persone sarebbero ferite a morte dalle crudeltà conversazionali inflitte loro (ivi, trad. it., p. 47).
Uno degli esempi più comuni di rituale positivo è rappresentato dai saluti con cui si dà inizio e si termina una breve interazione, più o meno formale. Sono i cosiddetti «rituali di accesso», come quando rivolgiamo un «ciao!» frettoloso a un conoscente che incrociamo per strada, o come quando realizziamo un interscambio rituale un po’ più complesso («Come sta?», «Bene grazie. E lei?», «Bene, grazie»).

1.1.2. Violazioni e riparazioni rituali

Abbiamo visto come le due categorie principali dei rituali dell’interazione siano quelle della deferenza e del contegno, e come la deferenza possa essere distinta in rituali di «discrezione» (proscrittivi) e di «presentazione» (prescrittivi). Bisogna aggiungere che,
quando distinguiamo fra quel che si può dire e fare a un destinatario e quello che non si può, dovrebbe essere chiaro che fra queste due forme di deferenza vi è un implicito contrasto e conflitto. Chiedere a una persona come sta, se i suoi familiari stanno bene, o come vanno gli affari, significa testimoniarle il proprio affettuoso interesse. Tuttavia, dimostrare questo interesse significa anche invadere la sfera personale dell’individuo, come diviene evidente se queste domande vengono rivolte da una persona di status sociale inferiore, oppure se un fatto recente rende dolorosa la risposta (Goffman 1967, trad. it., p. 80).
In effetti è molto semplice violare lo «spazio personale» di una persona. Ed è ancora più semplice nell’ambito dei rituali di discrezione, la cui scorretta esecuzione, sia essa più o meno volontaria, o del tutto involontaria, comporta una vera e propria violazione dell’individuo e dei suoi «territori». Quanto abbiamo visto finora ci ha mostrato chiaramente che «le regole di condotta che legano insieme attore e destinatario costituiscono i vincoli stessi della società» (ivi, trad. it., p. 99).
È quindi importante constatare come il sé sia in parte un oggetto cerimoniale, qualcosa di sacro che deve essere trattato con attenzione rituale e che a sua volta deve essere presentato agli altri nella sua giusta luce. Per affermare questo sé l’individuo agisce tenendo un contegno corretto quando è a contatto con altri, ed è trattato da questi ultimi con la dovuta deferenza [...]. Ciò implica che questo mondo non è poi così irreligioso come si potrebbe pensare. Ci siamo sbarazzati di molti dei, ma l’individuo stesso rimane ostinatamente una divinità di notevole importanza (ivi, trad. it., pp. 99, 104).
Questo individuo non è solo «geloso del culto che gli è dovuto» (ivi, trad. it., p. 104), ma è passibile di contaminare altri individui e di essere a sua volta contaminato da questi. Proprio come un oggetto sacro, mantiene una sorta di aura di sacralità la cui violazione è scoraggiata dai riti di discrezione. Tuttavia, le possibilità di profanazione sono sempre dietro l’angolo. I modi e le forme di tale profanazione sono l’oggetto di questa prima parte del paragrafo, ma prima di esaminarle dobbiamo vedere cosa intendiamo quando parliamo dei «territori del self», quei territori che sono appunto continuamente esposti alla minaccia di violazioni e profanazioni da parte di altri individui. Cominceremo quindi vedendo i tipi di territorio, procedendo poi nell’individuare le «marche» (i confini) di tali territori, e individuando infine i tipi di violazione.
Tipi di territorio
1) Lo spazio personale. Si tratta di quello spazio che circonda l’individuo (o meglio, il possessore di questo spazio); è una sorta di «bolla» (più corta posteriormente e più prolungata anteriormente) la cui intrusione da parte di altri genera un notevole fastidio (ovviamente, il tutto a seconda del grado di intimità che abbiamo con la persona che «profana» la bolla!).
2) La nicchia. È uno spazio ben delimitato all’interno del quale l’individuo ha pretese temporanee ma esclusive. Gli esempi dello spazio di nicchia sono molteplici: si va dalla cabina telefonica al posto dove sediamo sull’autobus, sul treno o nell’aula universitaria. Spesso la nicchia coincide con lo spazio personale, come nel caso della poltroncina del cinema dove siamo seduti mentre guardiamo un film; tuttavia, mentre lo spazio personale viaggia con l’individuo, la nicchia non lo segue: nello spettacolo successivo, la poltroncina che occupavo io sarà occupata da un altro individuo, e allora per tutto il tempo della visione coinciderà con il suo spazio personale. Per salvaguardare la nostra nicchia temporanea, dovremo occuparla – ad esempio, se vado in bagno occuperò la poltroncina al cinema con una giacca. Inoltre, la nicchia può essere non solo di un unico individuo, ma può ricoprire lo spazio di due o più persone (si pensi al campo da tennis, che rappresenta la nicchia di due – o quattro – persone coinvolte nel gioco). In effetti, anche lo spazio personale può essere occupato da un «con», ad esempio nel caso di una coppia impegnata in effusioni amorose. Infine, le violazioni di questo spazio ci dicono molto sulla persona che viola la nicchia e sul suo possessore: si pensi, ad esempio, a una ragazza che al cinema si siede sulle ginocchia del fidanzato – questa violazione indicherà ai presenti il notevole grado di intimità tra i due.
3) Lo spazio d’uso. È un territorio che un individuo può rivendicare per una necessità strumentale. Ad esempio, mi potrò certo avvicinare a una persona che sta usando l’accetta, ma se invado troppo lo spazio d’uso rischio di non vivere sufficientemente a lungo per raccontarlo in giro!
4) Il turno. Si tratta dell’«ordine in cui in una situazione specifica un rivendicante riceve rispetto ad altri un bene di qualche tipo» (Goffman 1971, trad. it., p. 28); a tale ordine corrisponde in genere una serie di regole, sulla base delle quali i partecipanti vengono suddivisi per categoria («entra prima chi ha il pass») o individualmente («fate passare quella persona che è invalida»), o in ordine misto. Rivedre...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Alcuni concetti preliminari
  2. I. L’interazione faccia a faccia
  3. II. Le cornici e le parentesi della comunicazione
  4. III. La conversazione
  5. IV. Linguaggio e società
  6. Riferimenti bibliografici