Design senza designer
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  1. 152 pagine
  2. Italian
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Artigiani, operai, terzisti, venditori, imprenditori, pr, giornalisti, curatori ci aprono le porte di laboratori, studi, luoghi di produzione, factory, negozi. Un'incursione nei mestieri del design, designer a parte.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858124154
Argomento
Design

1.
Made in Italy

Il nostro paese ha un guaio. In realtà ne ha molti, ma quello relativo al made in Italy sembra non avere una soluzione facile. Anzi, il vero guaio è che, se la soluzione per l’Italia è il made in Italy, come spesso si afferma nei programmi elettorali, in quelli televisivi e in quelli finanziari, non si è capito però, e prima, da dove debba venire allora la soluzione per il made in Italy, che per il nostro paese è insieme croce e delizia, reputazione e imbroglio, risorsa inesauribile e patrimonio smarrito.
Il primo problema del made in Italy è di tipo lessicale. Non tanto, o non solo, per il paradosso di una locuzione inglese utilizzata per definire un protettorato strettamente italiano, quanto per il fatto che manca una corrispondenza precisa tra i valori immateriali – le qualità intangibili che il made in Italy descrive nel nostro immaginario – e la giurisprudenza, che ne definisce (peraltro ancora senza una precisa e definitiva normativa) i parametri di tipo quantitativo (come per esempio, nei prodotti assemblati in Italia, il rapporto tra i costi del lavoro o dei materiali impiegati fuori e dentro confine, o la corrispondenza con le normative che regolano il made in negli altri paesi). Il fatto stesso che si usi un’espressione straniera è indicativo di come sia maggiormente avvertita la necessità di raccontare, a un pubblico esterno di possibili estimatori, quella famiglia di progetti e prodotti che si è dato – forse troppo a lungo – per scontato fossero unanimemente conosciuti e «presidiati» in casa. Mentre, si sa, nessuno è profeta in patria. Ecco il paradosso.
E questo è il secondo problema del made in Italy: ripulirlo di una serie di goffaggini, distrazioni, leggerezze, quando non vere e proprie scorrettezze, che hanno reso questa etichetta, agli occhi dell’opinione pubblica nostrana, uno slogan finto, vuoto e in certi casi pure un po’ passato, vecchio... Come sostiene Massimo Giannini a proposito del «‘Siamo la quinta manifattura mondiale’ [...] del quale si riempiono la bocca gli entusiasti paleontologi del ‘piccolo è bello’»4. In più c’è un’intera generazione di italiani, una nuova generazione, che considera, anche giustamente, il made in Italy una cosa buona per i turisti, valida spesso esclusivamente per i portafogli altrui e quasi sempre identificabile solo con la ristorazione e il settore enogastronomico, che in cambio di un certo prezzo e di un patto tra sapore e purezza, fra tradizione e sperimentazione, dovrebbe garantire qualità e originalità, e possibilmente tenere a distanza malattie e intossicazioni. E infine ci sono quelli per cui il made in Italy sono le buone vecchie icone musealizzate da inscatolare in teche luccicanti e ogni tanto rispolverare per gli asiatici che hanno pagato il biglietto per vederle. Di nuovo generalizzazioni.
Il guaio più serio quindi è che, nonostante tutto, il made in Italy sia «il prediletto». Che cioè sia proprio sul made in Italy, anzi su un acclamato suo «rinascimento», che imprenditori, media e classe politica attuale puntino per la ripresa delle sorti del nostro paese. Che il made in Italy sia l’eroe prescelto, dunque, a cui toccherebbe l’impresa erculea di ricostruire l’economia o immolarsi definitivamente sull’altare di una crisi insormontabile.
Si tratta di una fiducia che sembra tutto sommato aver senso, anche perché all’Italia non è rimasto molto altro su cui puntare. Eccolo lì, quello che Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato, nell’assemblea del giugno 2014 definisce «il primato del valore del prodotto e della relazione tra l’imprenditore e il suo cliente, che è una delle caratteristiche fondanti del lavoro artigiano, al di là di ogni costrizione legislativa», e che ha convinto già molte aziende – ma non sufficienti per poter arrivare a decretare un vero e proprio «fenomeno», visto che la maggior parte per adesso opera specialmente nell’ambito delle calzature e dell’elettronica – a decidere di ritornare a produrre in Italia, o almeno a riavvicinarsi.
Si chiama back reshoring. Mancano i dati ufficiali per ritenerlo un fenomeno rilevante – come evidenzia anche un bell’articolo intitolato Il silenzioso ritorno delle aziende straniere, apparso il 21 dicembre 2014 su «Pagina99» – perché, dichiarando di rientrare, le aziende implicitamente ammetterebbero di aver fatto off shoring, e quindi l’Istituto del commercio estero, come pure le istituzioni che lavorano sull’internazionalizzazione, non possiedono le cifre reali. Ma l’aspetto più interessante, almeno per questo contesto e per quel che se ne sa, è che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il back reshoring vedrebbe i suoi picchi proprio durante i momenti di massima recessione (2008, 2011) e quindi non sarebbe legato soltanto alla crisi economica. E in ogni caso l’Italia sarebbe il secondo paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, per rimpatri produttivi. Risultato rispetto al quale pare che conti soprattutto, alla fine, proprio l’impatto positivo prodotto dal poter dichiarare che la produzione è effettivamente italiana.
«Quanto vale a livello di sistema italiano il back reshoring? – si chiede Dario Di Vico –. È pura fenomenologia industriale o ci si può far conto per affrontare i nostri problemi sistemici? La risposta degli esperti è semplice: se vogliamo irrobustire il Pil manifatturiero forse è la strada più concreta e meno immaginifica»5. Non si tratterebbe quindi solo di un vantaggio di tipo logistico (risparmio nei costi di trasporto), di affidabilità, di innovazione, ma anche di «via alta», che per il momento, e per qualche favorevole e inappellabile destino, sembrerebbe l’unica carta determinante e non riproducibile illegalmente (anche se attualmente gli incentivi alla rilocalizzazione non sono così significativi). Ma si torna alla domanda di partenza: è l’Italia a fare il made in Italy o il made in Italy che fa gli italiani? E cioè, ammesso che il made in Italy si debba occupare di risollevare l’Italia, chi dovrebbe occuparsi della ripresa del made in Italy?
Per ora sappiamo che nel recente decreto Sblocca Italia, approdato nell’agosto 2014 in Consiglio dei ministri, anche in vista dell’Expo 2015, il made in Italy trovava spazio attraverso un «Piano per la [sua] promozione straordinaria e l’attrazione degli investimenti in Italia», iniziativa per la quale si prevedeva uno stanziamento di oltre 270 milioni di euro nel triennio 2015-2017 per la realizzazione di interventi mirati all’export e alla promozione delle produzioni italiane in campo industriale e agro-alimentare.
Al di là dello scetticismo per l’operato di istituti e piattaforme che lavorano al di fuori del confine, e quindi della sorveglianza diretta e costante e del dialogo con i produttori e con le loro istanze, 270 milioni in tre anni, ovvero 90 milioni all’anno, sembrano una cifra stratosferica, ma nella realtà – per citare l’Expo, già scomodata nel famoso decreto – sono pari quasi al costo finale del solo padiglione italiano costruito a Rho. Un’inezia, se si considera che da sola l’industria manifatturiera italiana, prima della crisi, valeva appunto il 21% del Pil. Non sono niente se si pensa di risarcire con questo investimento il ritardo nell’innovazione e nello snellimento delle prassi, il danno delle contraffazioni e della politica dei prezzi, l’impreparazione dell’opinione pubblica e la sua indisponibilità a fidarsi e a premiare la produzione interna, e così via. Al tempo stesso, però, 90 milioni, benché pochi, sono una cifra che l’Italia del made in Italy non può permettersi di perdere ogni anno. E soprattutto, non si possono considerare né pochi né tanti finché non si chiarisce chi siano precisamente i destinatari: sono le quasi 147.000 imprese associate a Confindustria, oppure le circa 5.000 che Fulvio Coltorti, economista e teorizzatore del «quarto capitalismo», indica come le «migliori fabbriche» su cui investire per il rilancio dell’economia italiana, la minoranza delle quali in realtà è riconducibile al settore creativo e quindi identificabile con il made in Italy più conosciuto e riconosciuto?
In realtà, sempre con Di Vico scopriamo che «secondo Calenda, viceministro dello Sviluppo economico, in Italia ci sono circa 20.000 aziende che esportano con continuità e circa 70.000 che esportano con saltuarietà: sono queste ultime il target del decreto, quindi, che intenderebbe portarle al livello di esportazione della per ora minoranza delle 20.000». E dunque cosa ne è di quella galassia di nuove e piccolissime, spesso non ancora censite, ma numerosissime imprese che in molti casi funzionano (e bene) con una logica opposta a quella della distribuzione canonica e quindi sono indipendenti dai tassi di crescita del famoso e tradizionale export usato come metro della salute delle aziende italiane? «I piccolissimi – continua Dario Di Vico – ce la fanno se entrano in catene di fornitura, dove si può generare anche uno scambio di valore, oltre che di stabilizzazione economica. Ma hanno bisogno di superare la loro congenita staticità. Il web in questo senso doveva diventare uno strumento utile ma in molti, anche giovanissimi, non si sono mai adeguati»6.
Durante una conferenza sulle strategie digitali tenuta nel 2014, Diego Ciulli, giovanissimo Senior Policy Analyst di Google, ha illustrato ai suoi colleghi una ricerca dalla quale emergono alcune interessanti riflessioni legate al rapporto tra ricerca online e comportamento degli utenti in fase di acquisti (nei negozi fisici e non). Fra tutti i dati presentati da Ciulli, il più significativo, almeno rispetto al contesto che stiamo trattando, rileva che nel biennio 2012-2013 l’incidenza delle ricerche di made in Italy sul loro motore di ricerca è aumentata di dodici punti percentuali, mentre la domanda internazionale di prodotti made in Italy è cresciuta del 4,1% nel 2013. Il documento non a caso si intitola Internet per il made in Italy e, al di là della barricata che Ciulli erige riguardo ai ritorni in termini di Pil e posti di lavoro favoriti dagli investimenti nell’area digitale, la cosa che più sorprende, specialmente considerando l’osservatorio aggiornato da cui proviene la ricerca, è la crescente considerazione nei confronti di un’etichetta un po’ scolorita come quella di «made in Italy». Minacciato sia dalle contraffazioni e dalle copie, interne e non, sia dal complicarsi delle procedure ministeriali per l’applicazione e la rimozione del marchio, sia dalla banalizzazione e dall’estensione del perimetro del suo cerchio semantico dai prodotti agro-alimentari alle scarpe, dai vini alle borse, dalla ristorazione ai divani, fino a comprendere anche beni immateriali e servizi, atmosfere ed «esperienze», il made in Italy sembrava vivere una parabola negativa nella percezione dei consumatori (ma forse anche dei produttori) italiani. Invece questo rapporto ci racconta un fenomeno diverso, valido specie fuori dall’Italia.
La presentazione di Ciulli concludeva insistendo sulla necessità di una «digitalizzazione del made in Italy», da concretizzarsi per Google su un quadruplice fronte: «far conoscere le eccellenze nascoste, rimuovere i blocchi e gli ostacoli, diffondere tra gli imprenditori competenze digitali e valorizzare i giovani come digitalizzatori», che significa anche passare ai giovani la coltivazione e il rilancio (digitale, secondo Ciulli) dei valori del made in Italy. Se qualche anno fa questo processo si è lievemente indebolito per la globalizzazione del mercato di massa e le difficoltà a penetrare con la propria distribuzione e immagine, secondo Ciulli – e molti altri – oggi Internet può aiutare la ripresa di una massa di mercati prima circoscritti, snellendo e riducendo i costi della promozione, arrivando velocemente a nuovi clienti, permettendo loro di raggiungere il mercato globale. Scomodando Chris Anderson, «stiamo passando dal mercato di massa a quello delle nicchie, definito non dalla geografia ma dagli interessi»7.
È innegabile che l’aspetto narrativo, del racconto, è sempre più centrale per il made in Italy: lo era prima e lo è ancor più ora per la sua riscoperta, un po’ hipster, un po’ ruffiana, un po’ strategica. Basti pensare a tutti quei progetti di serie, siti, blog, parasiti, che sono nati negli ultimi anni premiando proprio il racconto di una selezione di iniziative che hanno a che fare col «fatto in Italia». Tutti ad esprimere un revival di ciò che è fatto in casa, meglio se da giovani, meglio se premiando i sapori, le culture, le tradizioni delle proprie località.
Ma non è solo una questione di olio d’oliva o scarpe, sedie o lavatrici, mozzarelle o caffettiere, e neanche solo di distinguere tra fabbriche storiche e nuove imprese, tra grandi gruppi e realtà paradomestiche, tra patrimoni autosufficienti e alleati di capitali esterni, ecc. È sufficiente produrre in Italia e nel rispetto delle regole, o averlo fatto abitualmente (e per quante generazioni?), per rendere un prodotto made in Italy? Per la logica sì, ma per quell’insieme di qualità intangibili, di valori non scritti, di intuizioni non descrivibili che per anni hanno fatto il «made in Italy» nell’immaginario non solo italiano – al punto che non ci siamo neanche preoccupati di dargli un nome nostro per descriverlo, tanto era diffusa questa sensibilità tra di noi – non funziona così. E tutto il nuovo che emerge racconta proprio di questa trasformazione.
C’erano una volta le cose fatte bene che costavano tanto e quelle fatte meno bene che costavano meno. Oggi è evidente che non è più così. Le cose fatte bene e rispettando certi requisiti continuano a costare un po’ di più, però ci sono anche tantissimi che fanno male (fuori ma anche dentro l’Italia) pur facendo pagare molto e molti che hanno imparato come fare bene e insieme allargare la fascia del pubblico, rinunciando per esempio a qualche valore, che quel pubblico non sempre è in grado di apprezzare e premiare, in cambio di un prezzo più competitivo. In altre parole, non basta poter apporre l’etichetta made in Italy per rivendicare un valore che la gente dovrebbe riconoscere e premiare: ma una coscienza ormai crescente e diffusa implica che quella stessa gente (che poi siamo tutti noi, consumatori, utenti, pubblico, prosumer, comunque preferiamo definirci) possa essere molto severa nel sottrarre la propria fiducia a chi in quel delicato terreno commette degli errori. Se si sale sulla giostra del made in Italy, insomma, bisogna sapere come rimanervi equilibratamente in piedi. Senza contare l’enorme asimmetria che c’è – come si è detto – tra l’immaginario legato al made in Italy, la sua giurisprudenza e la corrispondenza nella realtà dei fatti.
Per esempio, come forse non si sa abbastanza, benché spesso design e made in Italy siano associati nel comune intendere, nella realtà moltissime aziende storiche del design italiano producono (anche) fuori dai nostri confini. Rispetto al settore del design, la scelta del luogo di produzione si gioca su alcune questioni decisive: la prima è quella dei costi di produzione nel nostro paese, che arrivano fino a dieci, dodici volte quelli sostenuti fuori d’Italia (dove la manodopera costa circa 24 €/h, contro i 2 €/h in Cina e gli 8 €/h circa nell’Europa dell’Est); tentando una media approssimativa, potremmo dire che questo si traduce in un 35% in più sul costo finale del prodotto, che sulla grande serie ovviamente si riesce a ridurre, ma sulle piccole serie del design genera una sproporzione che non sempre il pubblico è disposto a premiare. La seconda questione è quella della logistica, e riguarda non solo i costi di magazzino e stoccaggio ma anche quelli di consegna, per aziende che vendono – o dovrebbero cercare di vendere – sempre più all’estero.
Infine la qualità percepita: mentre fino a qualche tempo fa era apprezzabile la differenza tra un prodotto made in China e uno made in Italy, in molti casi oggi lo è di meno e produrre in Italia per tanti è diventato più una difesa (perché dichiarando di delocalizzare la produzione eroderebbero la propria immagine) che un vantaggio, perché la realtà, come dicevamo, è che il pubblico generico non premia la produzione italiana pagando un sovrapprezzo elevato. Tutto ciò deve fare i conti, però, anche con quello che si perde con la delocalizzazione. Ci sono infatti dei vantaggi reali, al di là del ritorno in immagine, nel produrre in casa: la flessibilità e l’«indipendenza» di mantenere autoctona la produzione, per esempio, che consentono di svincolare la produzione domestica da oscillazioni di vario carattere (guerre, crisi del dollaro, disastri naturali...) incontrollabili fuori dai confini, e poi ovviamente, last but not least, la questione della ricerca e sviluppo nelle aziende manifatturiere del design, unicità italiana, per la quale rimandiamo al prossimo capitolo.
Non sempre è o è s...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Luoghi comuni, mestieri speciali
  2. 1. Made in Italy
  3. 2. Manifattura
  4. 3. Distretti
  5. 4. Artigianato
  6. 5. Distribuzione
  7. 6. La comunicazione
  8. Ringraziamenti
  9. Ritratti