Lezioni dalla crisi
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Lezioni dalla crisi

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Lezioni dalla crisi

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L'Italia è in crisi, l'Europa è in crisi, la finanza è in crisi.Ma cos'è una crisi?Che differenza c'è tra la crisi della finanza, dell'Europa, dell'Italia?Sono cose che capiremo insieme. Benvenuti a queste lezioni.Lezioni dalla crisi è una guida d'autore alla crisi economico-finanziaria. È un racconto che con linguaggio semplice e divulgativo aiuta a capire le ragioni delle difficoltà che tutti ci troviamo ad affrontare: dalle loro origini lontane agli impatti che più direttamente interessano tutti gli italiani. Giuliano Amato, che nel '92 ha affrontato una precedente crisi da Presidente del Consiglio salvando secondo molti l'Italia, dà il suo punto di vista, ma soprattutto con il vicedirettore del "Sole 24 Ore" Fabrizio Forquet spiega, racconta, rende chiaro.Lo spread, i Btp, il fondo Esm perdono la loro sacralità astratta e scendono tra noi. Il lettore viene portato a capire e a volte a sorridere. La crisi viene spiegata come quella di un matrimonio che sta saltando, la finanza speculativa viene raccontata nei suoi meccanismi in fondo elementari. «Pinocchio», dice Amato, «passò da babbeo quando, credendo al Gatto e la Volpe, seminò zecchini d'oro sperando di trovarne di più. Oggi con la finanza del nostro tempo sarebbe al vertice di una grande banca d'affari americana».

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858107812
Argomento
Economia

1. Vivere con la crisi

Prima della scoperta dell’America, Palermo era uno dei porti più fiorenti d’Europa. Molti rievocano il mito di Venezia, ma quella città con le sue cupole arabeggianti e le sue mille lingue sembrava il giardino dell’Eden per chi aveva voglia e ardimento per costruirsi la propria fortuna attraverso lo scambio delle merci e le opportunità dei mercati. Poi Cristoforo Colombo scoprì, casualmente, l’America e in breve tempo quel giardino sfiorì: i porti inglesi diventarono più importanti di quelli del Mediterraneo, Liverpool, da paese senza prospettive, diventò il cuore del futuro, Palermo entrò inesorabilmente in crisi.
Un’altra città che tutti abbiamo imparato a conoscere dalle cronache mondane o sportive è Aspen, nel Colorado. Oggi è una stazione sciistica molto fortunata. All’inizio dell’Ottocento era però solo un paesino disperso tra i monti. Poi vi fu scoperto l’argento. E il governo degli Stati Uniti allora usava l’argento insieme all’oro come garanzia del dollaro. Aspen si trasformò, nacquero teatri, edifici pubblici, strade. La gente stava bene ad Aspen. Un giorno però il Congresso fece una legge in virtù della quale in futuro si sarebbe comprato solo oro e non più argento. Il grande affare era finito. I minatori caricarono i loro carretti e cominciarono ad andar via. I teatri chiudevano. Aspen entrava in crisi.
Le crisi sono una costante della storia economica. Le cronologie sono scandite da grandi o piccole crisi. Crisi irreversibili, crisi temporanee. Crisi che sono solo il trampolino per un rilancio, crisi che segnano il declino inesorabile di civiltà storiche.
Oggi, lo sappiamo tutti, siamo in crisi. L’Italia è in crisi, l’Europa è in crisi, la finanza è in crisi. Lo dice la televisione, lo raccontano i tweet di «Dr Doom» Nouriel Roubini (e non solo i suoi), ce lo diciamo nei bar, nei pub, nei caffè di tutta Europa. Ma cos’è una crisi? Cosa vogliamo dire quando ci diciamo di essere in crisi?
Ci possono essere dei matrimoni in crisi, delle vite professionali in crisi, delle imprese in crisi. Di solito, chi inizia a parlare di crisi, parte dagli ideogrammi cinesi con i quali viene espressa questa parola e spiega che gli ideogrammi messi insieme esprimono da una parte una situazione di difficoltà, ma dall’altra un’opportunità per uscirne. Da quando il presidente Kennedy mise in circolazione questa interpretazione di quegli ideogrammi non c’è conferenza del Rotary sulla crisi che non parta da qui. Io, per la verità, non so se quegli ideogrammi dicano esattamente questo, ma credo in quella visione della parola crisi come difficoltà e nello stesso tempo come opportunità. Ci credo anche in relazione alla crisi che stiamo attraversando oggi? Sì, ci credo. E in queste lezioni proverò a spiegare perché anche questa crisi può essere un’opportunità per uscirne, alla fine, migliori.
Le crisi, fortunatamente, sono vicende temporanee. Anche se ci sono paesi, come il nostro, che almeno dal punto di vista politico sono stati quasi perennemente in crisi. In quella che viene chiamata prima Repubblica i governi cadevano così spesso che venivano sempre ritenuti in crisi. Una volta, arrivato a New York, prendo il taxi. Il tassista mi riconosce come italiano e mi dice, per essere gentile: «Come va la crisi in Italia?». In quel momento la crisi non c’era. Ma per il tassista, noi italiani eravamo necessariamente in crisi.
Oggi ad essere in crisi non è certo solo l’Italia. È come se tutta l’economia europea ed atlantica (limitandoci magari al Nord Atlantico) si trovasse nella situazione in cui si trovarono Aspen e Palermo. Questo rende il quadro ancora più preoccupante. Ma non è certo una situazione inedita. La storia economica è tutta un susseguirsi di grandi crisi. Perché accade? Le ragioni sono diverse. Bisogna distinguere tra le varie epoche.
Risaliamo ai tempi in cui l’economia era prevalentemente agricola e a segnare la vita economica non era la produzione industriale. Allora molto dipendeva dalla natura, o da Nostro Signore per chi è credente, che decideva le sorti dell’economia a seconda della pioggia o della siccità che destinava ai campi. Se il tempo era inclemente, i raccolti erano scarsi e l’economia cadeva in una fase di crisi. Se poi il raccolto c’era ma la popolazione, per tanti fattori connessi al benessere e ai progressi sanitari, cresceva più del raccolto, riecco allora che l’equilibrio economico saltava e subentrava quindi la crisi.
Sapete cosa risolveva questi problemi secoli fa? Li risolveva la malattia. Le grandi epidemie erano dei fattori che equilibravano, in momenti di tensione economica, la domanda con l’offerta. Poi è arrivata la produzione industriale. E tutto è cambiato.
Con la produzione industriale ha preso piede l’economia di mercato, sono poi nate le società per azioni, i mercati finanziari hanno cominciato a funzionare su larga scala. È nato il sistema capitalistico. E il sistema capitalistico ha continuato, come prima, a generare crisi, ma in modo molto diverso. Gli economisti hanno prodotto varie teorie per spiegare queste crisi economiche. Il primo a ragionarci su fu Thomas Robert Malthus, pastore protestante, che però non ci capì molto. Molto di più i meccanismi e le crisi del capitalismo furono compresi da Karl Marx.
Karl Marx sosteneva che la crescita economica procede in modo ciclico. I capitalisti investono in tecnologie che permettono loro di usare più macchine e meno lavoro. Aumenta così la produttività, ma anche la disoccupazione e intanto calano i salari. Questa riduzione genera una crisi perché le imprese non trovano più acquirenti per i loro prodotti. Il ciclo economico non finisce qui, perché durante la crisi diventa più economico assumere nuovi operai. Così la disoccupazione si riduce e il ciclo ricomincia. Per Marx, tuttavia, l’alternarsi di crescita e crisi tenderebbe ad amplificare gli effetti perché nel percorso le imprese diventano poche e più potenti e i lavoratori più poveri e in balia delle circostanze. Da qui la sua condanna del sistema capitalistico.
Una tesi sbagliata Thomas Robert Malthus, pastore protestante inglese vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento, diceva che il genere umano, dedito al vizio, si moltiplica velocemente, più velocemente della produzione di cibo. Per questo, periodicamente si hanno crisi dovute alla scarsità che conducono a carestie e povertà. Ma la tesi di Malthus era errata. Il progresso tecnologico ha permesso alla popolazione mondiale di crescere velocemente. Le carestie sono dovute alla cattiva distribuzione non a scarsità di cibo. Ancora oggi molti vedono nell’eccesso di popolazione un problema.
Per molti altri economisti, invece, in un’economia capitalista chiunque lo voglia trova un lavoro pagato in proporzione al suo contributo alla produzione. Secondo questa teoria le crisi sono fatti eccezionali e non una parte inevitabile dello sviluppo.
Una visione ancora diversa è quella di John Maynard Keynes, il più famoso economista del XX secolo. Per Keynes le economie di mercato attraversano lunghi periodi di disoccupazione senza che la situazione migliori da sé. Il livello del reddito nazionale, cioè il valore dei beni e servizi scambiati nel mercato, il Pil, non è costante, ma varia in funzione della domanda. Sono gli imprenditori con la volubilità delle aspettative future, quelli che Keynes chiamava «gli spiriti animali del capitalismo», a generare le crisi nei momenti di maggior pessimismo. Quando gli imprenditori non investono, i lavoratori rimangono disoccupati facendo crollare i consumi. In questi momenti bisogna aumentare la spesa pubblica per incrementare la domanda di beni e servizi prodotti dalle imprese, permettendo così a queste ultime di uscire dalla crisi e aumentare la produzione.
Per Keynes, l’intervento pubblico era finalizzato a salvare il capitalismo per non rischiare che l’impoverimento delle masse scatenasse rivoluzioni come quelle auspicate invece da Marx. Non era contro il capitalismo, ma a favore dell’intervento pubblico per rimediare ai suoi difetti e superare le crisi che questi determinano. Anche sui mercati finanziari aveva le idee chiare: bisognava regolarli molto bene per evitare che lo sviluppo di un paese finisse col diventare come una sorta di terno al lotto. Ma in questo, evidentemente, non gli abbiamo dato troppo retta.
La fortuna di Keynes si misura anche sull’ampiezza del fronte degli economisti che ne hanno contestato le teorie. Tra questi i più liberisti sono i cosiddetti «austriaci». Secondo loro le crisi non nascono dall’interno del capitalismo, ma anzi derivano proprio dall’intervento pubblico che induce distorsioni nel mercato. Quando lo Stato stimola l’economia con i suoi interventi, creerebbe delle «bolle» destinate a scoppiare. Lo Stato non dovrebbe mai immischiarsi nelle questioni del mercato. Il più famoso tra gli austriaci, Joseph Schumpeter, ritiene che le crisi siano una medicina amara, ma utile per l’economia, perché durante la crisi le aziende meno produttive falliscono mentre quelle più dinamiche si rafforzano. Le crisi sarebbero parte di un processo di selezione naturale che la politica non dovrebbe tentare di bloccare.
Insomma, gli economisti sono divisi sia sull’interpretazione sia sulle cause delle crisi. Forse anche per questo non c’è ancora una ricetta per uscirne.
Ma semplificando al massimo – gli economisti ci perdoneranno – forse possiamo trovare delle costanti nelle crisi economiche che l’Europa e gli Stati Uniti hanno attraversato tra Ottocento e Novecento. Soprattutto all’inizio, quando il capitalismo era un meccanismo molto meno complicato di oggi, le dinamiche con cui il sistema entrava periodicamente in crisi avevano la precisione di un orologio. La produzione cresceva grazie alle nuove tecnologie e ai miglioramenti dell’organizzazione di fabbrica. Ma i salari, in un periodo in cui i sindacati non avevano la forza che avrebbero avuto nel secondo Novecento, faticavano a tenere il passo. Si arrivava, dunque, a un momento in cui i compratori non avevano redditi sufficienti per stare dietro a tanta produzione, i prezzi calavano, le merci restavano invendute. Si determinava una situazione di crisi. Le imprese a quel punto cominciavano a licenziare e la domanda cadeva ulteriormente.
Quando si affermano i mercati finanziari questa catena negativa si arricchisce di ulteriori passaggi che ne amplificano ancora di più gli effetti: con la crisi di produzione i titoli azionari, che erano cresciuti di valore, improvvisamente vanno giù. Chi aveva arrotondato il proprio reddito attraverso i valori azionari si trova a sua volta in condizioni di difficoltà. Anche le banche ne soffrono. I risparmiatori che hanno i soldi in banca dicono: «Oddio, qui che succede? Se la banca sta perdendo sui titoli i miei soldi che fine faranno?». Tutti si presentano, in fila, davanti agli sportelli delle banche per ritirare i propri soldi. La crisi a quel punto diventa «la grande crisi». L’America l’ha conosciuta nel 1929. Ma ancora tutti ne parliamo.
Per quelli della mia generazione, la grande crisi ha il viso di Henry Fonda, il bravissimo attore che fu protagonista del film Furore di John Ford. Il film è del ’40. E racconta, come il romanzo di John Steinbeck da cui è tratto, la storia di una famiglia americana che non è più in condizioni di lavorare in Oklahoma. Quindi carica tutto ciò che ha su un camioncino e attraversa quel pezzo d’America che la separa dalla California. Attraversa paesi, villaggi, campagne da incubo, dove gente ormai sul lastrico si affolla, vivendo spesso in tende fatte anche di lenzuoli. Il protagonista cerca di trovare un lavoro nelle campagne, di raccogliere pomodori, di avere qualcosa con cui mantenere i figli. Disperato in un mondo disperato.
Eppure, solo poco prima, quella era l’America in espansione, dove il capitalismo stava producendo una crescita fino ad allora sconosciuta. Basta un attimo, un’asimmetria tra l’espansione produttiva e la capacità del mondo di assorbirla, e tutto cambia. In poco tempo l’America perde oltre il 30% della sua produzione e quasi la metà, il 45%, dei suoi posti di lavoro.
Dalla prima guerra mondiale, l’economia americana era uscita con una imponente forza produttiva, con grandi investimenti nelle case, nell’elettricità, nei trasporti. Le risorse si moltiplicavano. I titoli azionari delle società registravano un valore crescente. Ma qui si fa strada un piccolo demone, che tornerà ai nostri giorni più vigoroso e potente che mai. Si comincia a capire che i soldi servono non solo per finanziare le attività d’impresa, ma per fare altri soldi. Anche le famiglie americane modeste comprano titoli azionari aspettando che il loro valore cresca per poi rivenderli. La finanza produce soldi per loro. La febbre del profitto sale costantemente e contagia tutti. Si possono comprare azioni anticipando il 10% del loro valore per poi rivenderle e saldare i debiti con la plusvalenza realizzata. Finché le cose vanno bene, sembra un eldorado, ma presto le cose cominciano ad andare molto meno bene.
A un certo punto, esattamente come nel meccanismo descritto prima, i salari non stanno dietro a questo aumento della produzione e le fabbriche cominciano a trovarsi in difficoltà perché non sanno a chi vendere tutte queste merci. La risposta è forse inevitabile, ma fa da moltiplicatore della crisi: si licenzia. Il calo dell’occupazione riduce ulteriormente la domanda. La crisi si avvita su se stessa. Presto cominciano anche a diminuire i valori dei titoli azionari. Un’ampia schiera di piccoli aspiranti capitalisti perdono risorse ingenti. E perdono le banche, che nelle attività industriali avevano investito.
Il 24 ottobre 1929, giorno che verrà ricordato come «il giovedì nero», a Wall Street si raduna una folla attonita che assiste all’uscita dalla Borsa di uomini d’affari rovinati e in lacrime. Dal 24 al 29 ottobre, «il martedì nero» che segnò il definitivo crack, vengono bruciati quasi 50 milioni di azioni. Non valevano più neanche il prezzo della carta su cui erano stampate. Inizia il più grande periodo di recessione economica mondiale che la storia moderna ricordi.
Nel giro di tre anni, la produzione industriale si riduce del 50%. Falliscono migliaia di banche. I risparmiatori corrono in banca per ritirare i propri soldi. Ma non sempre riescono a farlo. Spesso ritornano a casa avendo perso tutto e senza più neppure la prospettiva di un lavoro. Tra il 1929 e il 1933, un adulto su quattro si ritrova disoccupato. I redditi si riducono incredibilmente.
Un primo cambiamento avvenne con l’elezione del presidente Roosevelt, nel ’33, che lanciò un ampio programma di riforme già nei primi cento giorni del suo mandato. Roosevelt puntava a rompere il circolo vizioso recessivo di domanda-produzione-salari-domanda attraverso una forte accentuazione dell’intervento dello Stato nell’economia. Realizzò così una grande politica di intervento, il New Deal, cioè «nuovo corso», fondato su tre pilastri: sostegno pubblico per i poveri e i disoccupati, rilancio dell’economia e regolamentazione della finanza e dei mercati.
Il New Deal È il programma di politica economica attuato negli Stati Uniti dal neoeletto presidente F.D. Roosevelt fra il 1933 e il 1939 per porre rimedio ai disastrosi effetti della grande crisi che tra il 1929 e il 1932 aveva investito dapprima il sistema capitalistico statunitense per estendersi poi rapidamente anche in Europa. Negli Usa si era avuta una paurosa caduta della produzione industriale di circa il 50%, una disoccupazione di circa 15 milioni di unità lavorative, il crollo della Borsa di New York, il fallimento di circa 5000 banche che aveva annientato il risparmio di milioni di americani. Il New Deal puntava a rompere il circolo vizioso della recessione di domanda-produzione-salari-domanda partendo dal presupposto che questo potesse avvenire solo grazie a una forte accentuazione dell’intervento dello Stato nell’economia, senza peraltro giungere a compromettere i principi fondamentali del sistema capitalistico: un principio generale che trovò nel 1936 la sua definitiva consacrazione teorica da parte dell’economista inglese J.M. Keynes. Furono quindi adottate misure a sostegno della domanda delle masse popolari e dei ceti più deboli e normative volte a limitare gli effetti negativi e le forme estreme di capitalismo oligopolistico e finanziario-speculativo. Furono prese misure contro la povertà e a difesa dell’occupazione, come la settimana lavorativa di 40 ore, la garanzia di minimi salariali, un vasto programma di opere pubbliche. Furono inoltre varate una legge limitativa del potere dei trust, una ristrutturazione del sistema creditizio, una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale che garantì la pensione di vecchiaia alla maggior parte dei lavoratori. Il programma incontrò notevoli resistenze. La Corte suprema giudicò incostituzionali due delle principali disposizioni: il National industrial recovery act (Nira) nel 1935 e l’Agriculture adjustment act (Aaa) nel 1936. Ma tutte le opposizioni furono superate, grazie anche a un grande sviluppo del movimento sindacale che, sop...

Indice dei contenuti

  1. 1. Vivere con la crisi
  2. 2. Tutto ha inizio in America
  3. 3. Mutui «subprime» e Cds
  4. 4. Il contagio
  5. 5. La febbre supera l’Atlantico
  6. 6. Nel cuore dell’Eurozona
  7. 7. Il rischio di un circolo vizioso
  8. 8. La crisi arriva in Italia
  9. 9. Il calabrone che non sa più volare
  10. 10. Una finanza per la crescita
  11. 11 .Protagonisti del futuro