Si fa presto a dire famiglia
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Si fa presto a dire famiglia

  1. 208 pagine
  2. Italian
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Si fa presto a dire famiglia

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Informazioni sul libro

Famiglie tradizionali, ricostituite, ricomposte, monoparentali, omosessuali: prendere atto di tutti gli scenari in cui interagiscono oggi genitori e figli è il primo passo per garantire il benessere dei bambini. Dalla quarantennale esperienza di uno dei più noti giudici minorili italiani, quindici storie vere che raccontano come si è trasformato l'arcipelago dei legami affettivi.Questo libro propone una galleria di storie vere e insieme esemplari: troveremo i casi di Remo e Katia, vittime di una madre anaffettiva e incurante; di Lira, che a otto anni comprende e accetta l'amore omosessuale del padre; di Lina, madre adottiva alla ricerca disperata dei genitori naturali del figlio diciottenne; di zia Flora e zia Rosa, due anziane signore che si prendono cura di una bambina appena nata; di Lucia, vittima di abusi da parte del compagno della madre; e poi di Luca, figlio felice di una coppia omogenitoriale…Queste e altre testimonianze ci fanno entrare nel vivo delle vite di bambini e famiglie che si affacciano ogni giorno nelle aule del Tribunale per i minorenni, in cui l'autrice ha operato per oltre trent'anni. L'obiettivo è non solo quello di far luce sui cambiamenti profondi della famiglia, ma anche di sollecitare scelte efficaci in tutti coloro che hanno un ruolo educativo verso bambini e ragazzi.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858124253

1.
Madri che non sanno amare

dedicato a Remo e Mario
Sulla carta, la questione sembrava semplice: una madre si opponeva a che il figlio si recasse nella casa paterna per un ultimo saluto alla nonna morente.
La situazione si rivelò ben presto più complicata. La nonna era da sempre una figura centrale per il ragazzo: lo aveva infatti allevato dalla nascita fino all’età di dieci anni. La madre lo aveva ripreso con sé soltanto nell’ultimo anno, proprio per via del ricovero della nonna in ospedale, e lamentava ora il fatto che il padre non contribuisse minimamente al mantenimento del figlio; su questa base motivava il rifiuto di far incontrare al bambino la nonna.
Il padre, dal canto suo, giustificava il proprio comportamento in quanto riteneva solo provvisorio l’allontanamento del figlio dalla sua casa; da quando la nonna era stata dimessa dall’ospedale, infatti, lui aveva continuamente insistito per riaverlo con sé, essendone stato sempre il genitore affidatario.
Avevo deciso di ascoltare, prima di ogni altro, il bambino: Remo.
Entrò con un giovane che disse di chiamarsi Florin e che si presentò come il fratello maggiore. Era nato dalla convivenza della madre di Remo, all’epoca ancora minorenne, con un cittadino straniero, ed era vissuto sin da piccolo in strutture assistenziali: del padre si erano perse le tracce subito dopo la sua nascita, e d’altra parte la madre non appariva adeguata al suo ruolo, sia per la giovanissima età, sia per la totale assenza di una rete familiare disponibile. Solo da pochi mesi il giovane, compiuto il diciottesimo anno di età, si era trasferito a casa della madre, che aveva mantenuto sporadici rapporti con lui, e che ora gli aveva trovato lavoro in un ristorante.
Il piccolo Remo, nato dalla seconda convivenza della donna, appariva spaurito e intimidito. La psicologa, che avevo chiamato perché mi aiutasse a metterlo a suo agio, gli si avvicinò per tranquillizzarlo e per spiegargli perché era stato convocato.
Gli chiesi di dirmi da quanto tempo non incontrava la nonna, e se sapeva che era malata. Il bambino, intuendo che quella poteva essere forse l’occasione per rivedere finalmente la nonna, cominciò a parlare di quando viveva con il padre e con mamma Lucia (la compagna del padre), di quando giocava nel giardino con il cane e aiutava la nonna ad annaffiare le piante. La nonna cucinava tante buone pietanze e tanti dolci solo per lui, e la sera gli raccontava delle storie. In quella casa venivano in visita tutti i suoi compagni di scuola, mentre dalla mamma non veniva mai nessuno, forse perché la casa era piccola, o forse perché aveva cambiato scuola e non era riuscito ancora a stringere amicizie, anche se un amico del cuore ce l’aveva: abitavano abbastanza vicini, e quando tornavano insieme dalla scuola chiacchieravano sempre. Raccontò molti altri dettagli: nella sua stanzetta c’erano due letti, uno era il suo, l’altro era di Florin; c’era pure un tavolino dove poggiava i suoi quaderni e i suoi libri. Si dispiaceva di non incontrare mai Katia, mentre quando stava dal padre spesso usciva con zia Flora e Katia; mi spiegò che Katia era la sorellina che viveva con la zia Flora. Entrambe – mi disse – aspettavano fuori della mia porta.
Entrò poi la madre, assistita dal suo avvocato. Lessi loro quanto mi aveva raccontato il bambino e chiesi se volevano che lo ascoltassi su altri fatti, ma entrambi risposero di no. La madre era accompagnata da un’altra donna più giovane che le somigliava moltissimo e che presentò come sua sorella Flora. Letteralmente appiccicata alle sue gambe c’era Katia, la terzogenita, una bambina dall’apparente età di otto o nove anni, che piangeva sommessamente, stringendo forte la mano della zia.
Chiesi alla donna di spiegarmi la presenza delle altre persone, e lei esplose letteralmente dicendo che, oltre al problema di Remo, aveva anche il problema di Katia, e che quindi, costretta a presentarsi in Tribunale, aveva pensato di risolverli entrambi: lavorava e non poteva assentarsi continuamente. Spiegò che la piccola Katia era nata da un uomo con cui aveva avuto una breve convivenza, e che sua sorella, che non aveva figli, si era offerta di occuparsi della bambina. Adesso lei la rivoleva, ma sua sorella non intendeva restituirgliela e, poiché la figlia era sua, chiedeva che il Tribunale intervenisse per assicurargliene la restituzione. Il suo discorso iniziò in presenza della bambina, ma già dalle prime battute la piccola fu accompagnata fuori, rimanendo sempre attaccata alla zia dalla quale non accennava a volersi staccare.
Spiegai alla donna che in quella udienza si discuteva se il figlio Remo dovesse o meno recarsi dalla nonna per un ultimo saluto, mentre in un successivo incontro si sarebbe potuto discutere della figlia Katia e del suo affidamento. Le chiesi però, visto il groviglio di relazioni familiari, di riferirmi, in ordine, quanti figli avesse, chi fossero i relativi padri e quale fosse il rapporto con sua sorella, affidataria della piccola Katia. Le chiesi, infine, di dirmi con chi vivesse al momento.
La donna parlava con toni concitati, saltando confusamente dal lontano passato ad un recentissimo presente. Riu­scii ad ogni modo a capire che l’attuale convivente, con il quale andava perfettamente d’accordo, era fuori, nel corridoio. Mi chiese se poteva entrare; io annuii, e feci cenno al primogenito di uscire.
Si fece avanti un ragazzo che sembrava più giovane del figlio che avevo appena fatto allontanare; mi disse il suo nome e apparve subito ansioso e a disagio. Volle addirittura che io gli garantissi un avvocato perché non sapeva in che faccenda si sarebbe venuto a trovare. Pensai che, nonostante la giovane età, doveva aver avuto dei problemi con la giustizia, perché era troppo sospettoso e spaventato. Avevo visto giusto: accertai successivamente che da minorenne aveva commesso qualche furto e una ricettazione. Lo rassicurai dicendogli che, al momento, volevo fargli solo alcune domande sulla sua convivenza con la madre di Remo: gli chiesi da quanto tempo durasse, e quanti anni avesse lui.
Si chiamava Luca e aveva ventiquattro anni. Era rimasto orfano di madre sin da piccolo, e suo padre era un uomo violento; per questi motivi era stato collocato in un istituto. Lì aveva conosciuto il figlio primogenito della donna ed erano diventati amici; in occasione di una visita a casa dell’amico, invece di ritornare dal padre, incline all’alcol e ai maltrattamenti, restò nella casa della madre dell’amico che evidentemente gli aveva fatto posto anche nel letto. Ricordo che mentre andava via salutai la donna con una battuta: «Non lo metta incinto! Mi raccomando!». Lei rispose con un sorriso che voleva essere rassicurante: «Non vi preoccupate, ci sto attenta, ho fatto già due aborti!...».
Il figlio Remo fu autorizzato a far visita alla nonna, che purtroppo morì di lì a poco, e successivamente, al termine dell’anno scolastico, fu affidato al padre che aveva ereditato la casa materna e vi era restato a vivere con la sua compagna, che il bambino da sempre chiamava mamma. Il piccolo, rientrato nella casa dove era sempre vissuto, poté respirare quell’aria familiare che sentiva sua e riprendere le abitudini che gli erano care e le amicizie dei primi anni di scuola. Mantenne rapporti, anche se non desiderati e ricercati, con la madre e con i fratelli Florin e Katia. Quest’ultima tornò a vivere, dopo una breve esperienza di affidamento alla madre, con la zia materna che già le aveva fatto da madre per ben nove anni, rendendola una bambina serena, anzi felice.
La donna, sicura, anzi spavalda, assistita da un avvocato agguerrito quanto lei, è più volte tornata a fare richiesta per riottenere il figlio e la figlia, dei quali mai si era occupata nel corso della loro infanzia. Al rigetto della domanda di affidamento è seguito il ricorso alla Corte di appello, che ha confermato il provvedimento del Tribunale. Il Servizio sociale ha riferito che entrambi i bambini hanno ritrovato il benessere, messo a rischio dall’affidamento alla madre, non appena rientrati nella famiglia in cui erano cresciuti, l’una protetta dall’affetto della zia materna, l’altro protetto dall’affetto della famiglia ricostituita dal padre, che intanto si era accresciuta per la nascita di un fratellino.
Il principio che la madre biologica sia sempre l’angelo tutelare della casa e della famiglia è ormai franato: sono tante, troppe, le madri totalmente prive di affettività, di senso di responsabilità, di attenzione anche minima ai figli. Quante le madri che non sanno rispondere in modo adeguato alle esigenze affettive e materiali del figlio? In particolare, del figlio nella primissima infanzia? Sono troppi i bambini che non sono mai stati abbracciati, carezzati dall’affetto di una madre, forse perché lei stessa non aveva conosciuto e sperimentato, a sua volta e a suo tempo, il sentimento di una donna che l’abbia stretta al petto e abbia saputo dirle parole d’amore.
Questa donna, cuoca in un ristorante, sognava di poter gestire una trattoria tutta sua, e aveva perciò bisogno di un compagno giovane e forte in grado di muoversi tra fornitori e avventori; il cervello sarebbe stato lei, naturalmente... L’incontro con il giovane amico del figlio, a livello consapevole o inconsapevole, l’aveva indotta a tenere e mantenere una condotta seduttiva e a far balenare agli occhi del giovane il progetto a cui pensava da tempo. Non a caso aveva suggerito al giovane, divenuto il compagno del momento, di accettare un posto di lavoro come cameriere nel ristorante in cui già lavorava Florin; era lei a gestire i guadagni di entrambi, che sarebbero dovuti servire ad acquisire la gestione di una trattoria. Era, dunque, questo lo scopo della donna: strumentalizzare i figli, biologici o “psicologici”, per soddisfare i propri bisogni; come madre, evidentemente, non aveva obiettivi.
Il nostro ufficio, osservatorio privilegiato del malessere infantile e giovanile, registra sempre più frequentemente casi in cui il malessere dell’infanzia ha origine nell’anaffettività della madre e nella sua indifferenza ai bisogni dei figli. Molte donne mettono in secondo piano i propri bambini, a favore della propria libertà e dell’inseguimento delle proprie ambizioni, e questo è vero a tutti i livelli sociali. Anzi, oserei dire che questa ignoranza dei sentimenti d’amore e delle emozioni ad essi connesse, causa di sofferenza nell’infanzia e successivamente nell’adolescenza, è più diffusa nelle famiglie di buon livello sociale perché in esse sono maggiori le occasioni che chiamano altrove la madre e che possono creare il distacco emotivo.
Questa osservazione mi riporta alla mente la vicenda familiare del giovane Mario, diciassettenne, figlio di due professionisti di ceto sociale elevato, affidato in sede di separazione alla madre, insieme alla sorella di qualche anno più giovane. In casa viveva anche il nuovo convivente della donna.
Il ragazzo ci venne segnalato per la condotta aggressiva e violenta verso la madre e verso gli oggetti a lei cari, e il mancato rispetto di ogni regola, anche minima, necessaria alla convivenza familiare. Spesso faceva volare piatti, bicchieri, bottiglie e quant’altro era sulla tavola; rincasava tardi la notte e poi restava attaccato al computer, e l’indomani, invece di levarsi per tempo e andare a scuola, restava a dormire impedendo alla cameriera di rassettare la sua stanza, dove il disordine era prossimo al caos. Venimmo a sapere che era riuscito a forzare la cassaforte di casa per rivendere – contro il volere della madre – i suoi regali di battesimo, comunione e cresima, perché voleva comprare una moto usata...
L’ascolto di questo ragazzo mise a nudo la sua sofferenza, acutizzatasi ancor più, negli ultimi tempi, per l’indifferenza della madre che trascorreva sempre più tempo lontano da casa a prescindere dalle necessità di lavoro: cene, congressi, shopping... tutto sembrava allettare lei e il suo convivente più della permanenza a casa con i figli.
Il padre, anche lui noto professionista, accoglieva il figlio nei periodi di massima conflittualità del ragazzo con la madre, ovvero quando questa lo buttava fuori casa o quando era stato il ragazzo a sbattere la porta e ad allontanarsi dall’abitazione materna. Anche lui si era rifatto una famiglia, e la sua attuale moglie mordeva il freno, tollerando a fatica la presenza del ragazzo, fin quando non riuscì a convincere il marito a fittargli un appartamentino e a trovargli un lavoro come meccanico, sfruttandone la passione per le moto. Nessuno si preoccupò del fatto che il ragazzo interrompesse così gli studi.
Oggi Mario condivide l’appartamento con un amico e non ha rapporti né con la madre né con la sorella, e solo sporadici rapporti con il padre e i suoi fratelli germani.
Mantiene invece rapporti con Oreste, il primo convivente della madre: subito dopo la separazione dal marito la donna andò a convivere con un insegnante di liceo, al quale Mario, che all’epoca aveva soltanto quattro anni, si legò affettivamente riconoscendolo come padre e soffrendo duramente quando, dopo cinque anni, la relazione della madre con Oreste si interruppe definitivamente. Qualche volta lo chiama ancora papà, e l’uomo lascia fare perché gli vuole, anche lui, ancora bene e glielo dimostra prendendosene cura. Lo ha convinto a presentarsi privatamente agli esami di licenza superiore di un istituto tecnico, e Mario si è molto impegnato perché è l’unica persona, a dire del Servizio sociale, che ancora lo segue, o forse tenta di seguirlo, a riscuotere la sua fiducia e a dargli a sua volta fiducia. Ha superato ormai gli esami di licenza superiore, e questo è già di per sé un ottimo avvio; frequenta una brava ragazza di qualche anno più grande di lui, che sta cercando di infondergli fiducia in se stesso e negli altri, di indurlo ad abbandonare la sua diffidenza e ad acquisire una certa dose di autostima.
L’anaffettività pesa forse più del maltrattamento fisico e si configura come maltrattamento psicologico per un bambino che per sua natura è fragile e bisognoso di conferme. Quando il bambino cerca di accontentare e assecondare l’adulto di riferimento, e ogni suo comportamento viene svilito e denigrato, le reazioni possono essere diverse: rabbia e aggressività, o isolamento e depressione.
Questi comportamenti adolescenziali, sempre più diffusi, testimoniano il fallimento educativo e l’incapacità affettiva degli adulti di riferimento.
I giudici minorili incontrano sempre più frequentemente ragazzi affetti da disturbi dell’umore, che oscillano tra depressione e violenza e che nel tempo potranno presentare una vera e propria patologia psichiatrica. Sono tanti i ragazzi che il Tribunale è costretto a collocare in una comunità perché non più tollerati dalla famiglia a causa di comportamenti reattivi e violenti, o anche a causa di condotte devianti, quali assunzione di droghe o di alcol, e perciò allontanati, senza tentennamenti e senza alcuna remora, dalle madri o dai padri, insofferenti e incapaci di amare, di comprendere e di accogliere il disagio dei propri figli.
Si tratta spesso di ragazzi di livello sociale medio-alto che non hanno avuto figure adeguate di riferimento, per la girandola di conviventi alternatisi a fianco della madre, per il continuo avvicendarsi di tate e di parenti e amici in una casa che non sentono come la propria. La famiglia può aver fornito loro denaro e beni di consumo, ma non ha consentito la costruzione di un legame di attaccamento sicuro, che è ciò di cui più di tutto hanno bisogno.
Lo slancio verso i genitori, in questi casi, è stato sempre mortificato. I ragazzi mi dicono: «Non riesco più a parlare con mia madre...», oppure: «Non sono mai riuscito a parlare con mio padre...»; e ancora: «Quando mia madre mi parla non mi guarda mai in faccia, negli occhi, perché contemporaneamente fa altro, e se io le parlo non mi ascolta..., sta sempre al telefono o sul letto per riposare, o è fuori con le amiche...», «Mio padre non ha mai tempo per me per chiedermi come mi sento..., cosa sto pensando. L’unica domanda è: “Come va la scuola?”, e sa bene che a me, della scuola non importa niente!».
Le ragazze reagiscono diversament...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. Madri che non sanno amare
  3. 2. Il migliore amico di papà
  4. 3. I figli alienati
  5. 4. L’adozione mite
  6. 5. La ricerca delle origini
  7. 6. Duplice tradimento
  8. 7. La famiglia con due mamme
  9. 8. Quando una madre non vuole vedere
  10. 9. La finestra murata
  11. 10. Il passato che ritorna
  12. 11. Alla ricerca dell’identità di genere
  13. 12. «La bambina non è tua...»
  14. 13. Esiste un rifugio sicuro?
  15. 14. Rapita
  16. 15. L’avventura del desiderio
  17. Quarant’anni nella giustizia minorile