Prima lezione di letteratura italiana
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Prima lezione di letteratura italiana

  1. 186 pagine
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Prima lezione di letteratura italiana

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La letteratura è il più ricco deposito della coscienza collettiva. Attraverso la storia della letteratura italiana riconosciamo il senso del nostro essere divenuti', la tradizione che ci ha costituito, la memoria delle esperienze di coloro che ci hanno preceduto, la lingua, l'ambiente, il paesaggio che si sono definiti nel tempo. Giulio Ferroni guida alla riscoperta del ruolo imprescindibile della nostra letteratura, nel suo legame con il nostro destino.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858106426

1. L’Italia e la sua letteratura

1. Letteratura e identità nazionale

La letteratura sfugge ad ogni definizione troppo recisa e determinata: al suo spazio si possono ascrivere tutte le forme che la parola umana assume quando si stacca dall’uso più immediato, dalla funzione primaria di scambio all’interno di specifiche comunità linguistiche. Già nell’ambito dell’oralità la parola può tendere a vari livelli a svincolarsi dall’immediatezza, a svolgere funzioni culturali anche molto articolate, a creare occasioni di conoscenza e di intrattenimento pubblico, a dar corpo a sentimenti collettivi, a costruire testi memorizzabili, forme e modelli variamente riutilizzabili. Nel passaggio alla scrittura tutte queste forme si affidano alla lettera (donde appunto il termine letteratura), danno luogo a qualcosa che resta nelle carte, che si stacca dalla voce e dalla diretta presenza personale, con una possibilità di circolazione in spazi anche distanti e di permanenza al di là del breve giro delle vite umane. Così la più fragile ed effimera parola umana, in tutti i modi in cui cerca di dar voce ad esperienze individuali e sociali, in tutte le forme culturali da essa elaborate, può acquistare una persistenza, svolgersi in un dialogo, anche conflittuale, tra generazioni diverse e lontane, che possono a loro volta cercare nuove modalità e nuove forme di manifestazione di sé.
Nei termini più generali si può dire che nella letteratura rientrino tutte le forme culturali che assume una lingua, in cui si riconosce la continuità di una comunità, la sua persistenza, il suo sviluppo storico, la memoria delle esperienze determinanti di un insieme sociale, l’articolarsi dei modi di percepire il mondo, l’espressione degli affetti, dei sentimenti, dei contrasti che vi hanno luogo (con l’evoluzione, l’arricchimento della stessa lingua, i suoi contatti con lingue diverse). Solo l’avvento delle tecnologie della comunicazione (a partire dal secondo Ottocento) ha cominciato a ridurre il rilievo di queste funzioni della letteratura, facendo sorgere forme e codici di tipo del tutto nuovo, molti dei quali non hanno però potuto fare a meno di appoggiarsi sulla letteratura, di assumere comunque la letteratura dentro di sé.
Come partecipi di una comunità nazionale il cui primo, più immediato segno di riconoscimento è dato dalla lingua che chiamiamo italiana, troviamo nella letteratura in lingua italiana il più ampio e ricco deposito della coscienza collettiva, il fittissimo insieme delle forme in cui essa si è cercata, manifestata, espressa, esaltata, contestata, ecc. Attraverso la storia e le opere della nostra letteratura vediamo in atto il senso del nostro essere ‘divenuti’, la tradizione che ci ha costituito, la memoria delle esperienze di coloro che ci hanno preceduto, l’ambiente e il paesaggio che si sono andati definendo nel tempo, l’articolarsi della nostra lingua in una molteplicità di forme e di possibilità, che ancora agiscono sul suo stato presente. È del tutto naturale, quindi, che ogni individuo di lingua madre italiana o che si senta partecipe del paese Italia, nell’avvicinarsi alla letteratura, e tanto più nel porla come oggetto di studio, consideri in primo luogo quella di lingua italiana; non è nemmeno possibile un adeguato contatto con le letterature straniere senza aver acquisito una prima familiarità con la letteratura nazionale, e specificamente con il suo spessore linguistico. Il senso di appartenenza all’Italia, la coscienza italiana più libera e aperta al dialogo con il mondo, non può prescindere dalla considerazione di ciò che la letteratura è stata per l’Italia, del rilievo determinante che essa ha avuto per l’affermazione della stessa identità italiana. E se oggi quell’identità viene messa in discussione dal più becero particolarismo, dal più ottuso egoismo localistico, tra rapacità economica e terrore del diverso, essa può essere ritrovata e affermata con forza nel contatto con l’intera storia della nostra letteratura, con l’ampiezza del suo sguardo sul mondo e la forza dei suoi grandi scrittori.
La questione del rapporto tra letteratura e identità italiana è d’altra parte all’ordine del giorno: molto diffusa, ormai con un carattere di luogo comune, è l’asserzione secondo cui per un grande tratto della storia italiana la mancanza di uno Stato unitario sia stata a lungo supplita dalla letteratura. Non potendo riconoscersi in uno Stato centralizzato, frantumata tra Stati diversi e sotto il dominio straniero, l’Italia avrebbe trovato una sua ideale unità entro la comunità dei letterati, partecipi di un valore comune affidato proprio alla lingua e alla letteratura, e più specificamente ad una lingua letteraria capace di imporsi egemonicamente sui diversi centri della penisola. Momento effettivamente ‘fondante’ di questa unità tutta letteraria andrebbe riconosciuto nel primo Cinquecento, nel periodo più turbinoso delle guerre d’Italia, quando gli Stati italiani perdevano la loro autonomia e il paese finiva sotto il controllo straniero: proprio allora, in una cultura animata da un fortissimo impegno modellizzante, volta a costruire, in un originale dialogo con l’antico, nuove forme e generi ‘moderni’, l’elaborazione teorica di Pietro Bembo avrebbe consegnato agli scrittori italiani un modello di lingua capace di circolare come elegante e raffinato strumento di comunicazione in tutti i centri della penisola, al di là del suo stato di frantumazione. Sarebbe cresciuta così un’Italia dei letterati, come una sorta di paese immaginario: in questa Italia gli scrittori potevano sentirsi membri di una comunità separata, sulla base di valori linguistici, formali e ideologici sostanzialmente condivisi, entro la quale si sospendeva e cancellava la reale e dolorosa disgregazione politica, sociale e anche linguistica. Da questa unità tutta culturale e immaginaria scaturiva il riconoscimento dei modelli italiani da parte degli stranieri invasori e il loro successo entro la nuova cultura europea, come segni di distinzione ‘moderna’. Tutto ciò sarebbe andato a scapito di una vera aderenza del nostro ceto intellettuale al concreto orizzonte nazionale; come ebbe a rilevare Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere, entro quello spazio tutto letterario si sarebbe consumato un distacco degli intellettuali dalla vita reale del paese e dal contatto con le stesse classi sociali da cui essi provenivano: essi si sarebbero mossi in un’ottica cosmopolitica, in chiave tutta retorica e formalistica, tenendosi lontani da quell’orizzonte nazionalpopolare che Gramsci considerava essenziale per un rapporto organico tra gli intellettuali e le masse popolari, ma che non riusciva a vedere in atto in nessun momento della storia culturale italiana.

2. Letteratura e vita civile: Francesco De Sanctis

Una più diretta considerazione della vicenda storica dei letterati italiani (intellettuali in quanto letterati) mostra un quadro molto più problematico di quello individuato da Gramsci nell’urgenza politica e programmatica della riflessione dei Quaderni: senza contare il fatto che oggi possiamo avere molti dubbi sulla stessa consistenza del concetto di nazionalpopolare e sull’eventuale carattere nazionalpopolare di altre culture europee. Non mi pare credibile, del resto, nemmeno il postulato secondo cui l’identità italiana sarebbe stata a lungo sostenuta e promossa solo dalla letteratura: è vero piuttosto che in ogni fase della sua storia la letteratura ha dato voce con i suoi strumenti ad un’identità italiana che si riconosceva anche prima e fuori dello spazio letterario; l’ha seguita nel suo contraddittorio sviluppo nel tempo, nelle sue ragioni vitali, ne ha illuminato la coscienza nel vario disporsi del nesso tra passato e presente, tra spazio e tempo. La travagliata storia materiale, sociale, politica del nostro paese ha trovato nella letteratura il suo grande quadro di espressione, di riflessione, di conflitto: non soltanto lo specchio, ma la spinta attiva e dinamica, in un viluppo di desideri, di passioni, di immaginazioni, di scatti e di prostrazioni, di esaltazioni e di depressioni, di entusiasmi e di miserie. Insomma, nel bene e nel male, la nostra letteratura è stata carica di storicità: e non è un caso che ad essa sia stata dedicata la più bella storia letteraria che sia mai stata scritta, quella di Francesco De Sanctis, in due volumi apparsi nel 1870 e nel 1871, proprio nel momento culminante della realizzazione dell’Unità d’Italia.
Tra i tanti segni dell’immersione di questa Storia della letteratura italiana di De Sanctis nella vitalità del presente ce n’è uno bellissimo, che si colloca proprio al centro dell’opera, nel grande capitolo (il XV) su Machiavelli. Si tratta di un diretto entusiasmante richiamo ad un evento che aveva luogo proprio mentre lo storico scriveva le pagine su quell’autore così carico di passione politica e civile, cioè la presa di Roma con la fine del potere temporale dei papi (20 settembre 1870):
In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il viva all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli.
È stato tante volte notato che la Storia di De Sanctis è il romanzo della letteratura e della vita sociale italiana, un romanzo in cui le opere letterarie si animano come personaggi e in cui si manifestano le diverse facce, i diversi caratteri psicologici, i diversi orizzonti morali in cui si è incarnata la storia civile del nostro paese. Nell’ottica desanctisiana la letteratura dà forma al diverso atteggiarsi civile e morale del paese, alla tensione della sua coscienza, al vario modo di concepire il rapporto con la realtà. Il libro costruisce un diagramma che conduce dalla trascendenza medievale (a cui Dante giunge a dare una sostanza reale, incarnandola nell’evidenza di individui carichi di vita) alla scoperta del mondo naturale e della sua immanenza: ma questa scoperta si risolve in indifferenza morale, in un corrosivo spirito comico, espressione di una borghesia cinica e smaliziata, a cui andrebbe attribuita la responsabilità della decadenza italiana, della lunga sottomissione al dominio straniero (emblematica la figura di Pietro Aretino e il richiamo alla tradizione, nel capitolo XVI, che lo voleva morto dal ridere: «Secondo una tradizione popolare molto espressiva Pietro morì di soverchio ridere, come morì Margutte, e come moriva l’Italia»). Dissolto il Medioevo e venuta meno quella tensione civile e morale che animava l’impegno dantesco, per De Sanctis la cultura del Rinascimento italiano genera il «mondo moderno», senza però riuscire a realizzare pienamente la modernità, proprio per la mancanza di quella «serietà», di quella tensione morale, che avrebbe invece animato le culture nazionali europee: dall’interno stesso di quello stato di decadenza si sarebbe però sviluppata una «nuova scienza», con una nuova apertura seria e profonda alla realtà, i cui frutti si sarebbero sentiti solo verso la fine del Settecento con il primo sorgere di una nuova letteratura finalmente segnata da uno spirito nazionale.
La Storia desanctisiana si presentava così come una parabola della decadenza italiana, dei legami della letteratura con quella decadenza e dei suoi tentativi di arginarla: e veniva come a marcare l’insieme della letteratura italiana sotto il segno di una mancanza, di quel difetto di senso morale in cui si trovava la motivazione dell’indifferenza con cui le classi dirigenti si sarebbero piegate al dominio straniero (sotto l’azione negativa e invadente della Chiesa della Controriforma); ma quella mancanza era come bilanciata da quell’apertura alla modernità, raccolta e pienamente realizzata dalle più avanzate nazioni europee. Al culmine di questo processo, la conclusione della Storia, nella felice coincidenza della realizzazione dell’Unità d’Italia, suggeriva una nuova apertura verso il futuro, in un orizzonte responsabilmente moderno, segnato da un più avanzato «senso della realtà», da un più vigoroso «realismo nella scienza, nell’arte, nella storia», in cui la letteratura, «rifatta la coscienza, acquistata una vita interiore», si facesse «eco della vita contemporanea universale e nazionale» (cap. XX).
Il fascino di questo disegno generale, di questo ‘romanzo’ orientato verso il futuro, continua a resistere al di là della sua schematicità e delle sue contraddizioni. Per noi non è certo più credibile la parabola della decadenza italiana, nei termini e con le ragioni in cui viene tracciata da De Sanctis: gli svolgimenti storici ci appaiono molto più mossi e intricati, non certo risolvibili in quella moralistica denuncia dell’indifferenza e del cinismo nazionali. Ma la Storia della letteratura italiana resiste, come grande modello, percezione suprema dell’orizzonte civile di un’intera tradizione, per il modo in cui mette in gioco le grandi opere letterarie in rapporto all’intreccio delle situazioni reali, delle personalità degli autori, del tempo, dello spazio, dell’insieme sociale in cui si svolgono: e per l’eccezionale disposizione a sentire la qualità dei testi, la vita che vi pulsa e ne sprigiona, lo spessore letterario, anche quando il giudizio storico, morale ed estetico viene a disporsi su un piano negativo, se non di vera e propria condanna. Nelle pagine di De Sanctis la letteratura è sempre in situazione; anche quella storicamente più lontana si dispiega in un dinamico rapporto con il presente del critico. Questi è attento a seguire nelle opere più diverse una dialettica tra forma e contenuto, che gli rivela tensioni, opposizioni, sintesi tra immagini di vita in movimento, nel nesso tra libere individualità e orizzonte ‘civile’ e sociale.
Rispetto al carico di passione e di sensibilità di questo capolavoro, non mi sembrano accettabili certe disinvolte liquidazioni che se ne sono fatte e continuano a farsi negli ultimi tempi. Non si tratta di sottoscrivere e riproporre il diagramma desanctisiano, ma di valutare la sua efficacia interpretativa, la luce particolare che il grande critico arriva a portare su opere ed esperienze disposte su un così lungo arco temporale, anche se poi i singoli giudizi saranno da rettificare, correggere, rovesciare. E lasciano perplessi i tentativi di riprendere quel diagramma rivoltandolo a centottanta gradi: come quelli del mio amico Amedeo Quondam che, contestando la nozione risorgimentale e desanctisiana di ‘decadenza’, finisce per rivalutare in pieno il rilievo estetico e la forza modellizzante del classicismo di antico regime, e la stessa presenza dominante della Chiesa: contro l’orizzonte politico-moralistico e civile di De Sanctis giunge ad attribuire una funzione di avanzata modernità proprio a quelle istituzioni e a quel quadro sociale che il grande critico riteneva responsabili della decadenza italiana.

3. Da quando esiste l’Italia

Uno sguardo d’insieme alla storia della nostra letteratura impone la considerazione di alcuni dati molto generali, riconoscibili al di là delle preferenze e delle scelte teoriche e ideologiche. In primo luogo risulta evidente che la possibilità stessa di parlare di una letteratura italiana è data dalla percezione di un’identità che è in atto già nei primi secoli dello sviluppo della nostra lingua, checché ne abbiano detto in contrario storici e linguisti portati a sovrapporre all’evidenza dei dati le loro ossessioni e prevenzioni ideologiche, con cavillazioni di vario tipo sull’estensione geografica ed etnica a cui si riferisce l’uso di termini come Italia e italiano (e lasciamo il fatto che queste ossessioni sono oggi miseramente approdate al pericoloso separatismo leghista).
Questo senso di identità precede di molto l’emergere del concetto moderno di nazione e l’aspirazione a uno Stato unitario: è insomma qualcosa di ben diverso dalla identificazione di una unità statale, e risale a un fascio di radici culturali, storiche e geografiche. Il suo fondamento è in una convergenza di pluralità, che scaturisce da un secolare conflitto tra l’eredità della Roma antica e la serie fittissima di spinte disgregatrici date dalla persistenza di tracce delle etnie preromane e dagli eterogenei intrecci con le culture dei più diversi invasori. L’Italia e la sua lingua si individuano, già nel Convivio e nel De vulgari eloquentia danteschi, come un organismo che è nello stesso tempo unitario e disgregato, che, per la sua stessa molteplice configurazione, aspira ad una curia, ad un orizzonte di identificazione comune; Dante, del resto, individua il suo pubblico proprio negli italici (Convivio, I, 4, 6), quelli che usano l’«italica loquela» (ivi, 10, 7). E la Commedia evoca più volte l’Italia, in un nesso geografico, etnico e linguistico di ampia estensione, contemplato con un appassionato e doloroso senso di appartenenza, dall’«umile Italia» ricordata già nel prologo (Inferno, I, 106) alla «serva Italia, di dolore ostello» che suscita l’invettiva di Sordello (Purgatorio, VI, 76), ad alcuni formidabili slarghi, come la cruciale similitudine che indica il lento erompere del pianto di Dante di fronte ai rimproveri di Beatrice subito dopo l’incontro con lei nel Paradiso terrestre (e si noti qui l’ampia prospettiva geografica, su cui tornerò nel cap. 4: il dosso d’Italia, cioè l’Appennino, è identificato in rapporto ai venti freddi del nord-est, li venti schiavi, che congelano la neve, e a quelli caldi che vengono dall’Africa, la terra che perde ombra, e innescano il lento processo del suo sciogliersi):
Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela...
(Purgatorio, XXX, 85-90)
E ricordo ancora la splendida individuazione del monastero di Santa Croce di Fonte Avellana, sede della contemplazione di san Pier Damiani, sotto il monte Catria:
Tra ’due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ’troni assai suonan più bassi,
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria.
(Paradiso, XXI, 106-111)
Il Dante della Commedia, del resto, riconosce e afferma la specificità italiana proprio nel conflitto e nella lacerazione, in uno stato di disgregazione che avvelena lo splendore del «giardin dell’impero», popolato di tiranni e tirannelli: è l’«umile Italia» già sopra ricordata che attende quella «salute» promessale già sulla soglia, lì nel prologo del poema, dall’annuncio del prossimo avvento del Veltro, che ucciderà la lupa (e occorre ricordare che quell’umile viene fuori da un fraintendimento dell’aggettivo virgiliano, d...

Indice dei contenuti

  1. 1. L’Italia e la sua letteratura
  2. 2. Storia letteraria e lettura dei testi
  3. 3. Lingua, stile, metrica, retorica
  4. 4. Storia e geografia: dentro e fuori d’Italia
  5. 5. Le arti sorelle
  6. 6. Il tempo a venire
  7. Nota bibliografica