Prime lezioni di psicologia
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Prime lezioni di psicologia

  1. 152 pagine
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Prime lezioni di psicologia

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Informazioni sul libro

Con questo libro Giovanni Jervis ci guida in un percorso che, a partire dai trabocchetti della «psicologia ingenua», spiega con chiarezza le acquisizioni più importanti della psicologia moderna. «Prime lezioni» è una serie di testi introduttivi, esposizioni brevi e personali che hanno lo scopo di iniziare a un sapere.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858101780

Seconda lezione. La nascita della psicologia moderna

1. Casse sul molo

Chiunque, armato di buona volontà, si appresti agli studi di psicologia non può che avvertire un po’ di smarrimento considerando la diversità dei modi di intendere questa disciplina. Egli si sente come chi debba portarsi a casa una impressionante catasta di casse grandi e piccole che gli sono state scaricate davanti agli occhi sulla banchina di un porto, ciascuna con una sua etichetta: «comportamentismo», «psicoanalisi», «psicologia sociale», «cognitivismo», «psicologia animale», «psicologia infantile», «Piaget», «Jung», «Vygotskij»... Sa che in ogni cassa vi sono libri e manuali, ed è tentato di impadronirsi al più presto di tutto quanto così com’è e di assimilare con zelo, una dopo l’altra e senza farsi tante domande, quelle idee e informazioni. Ma, come minimo, avrebbe bisogno di sapere da dove viene quel materiale. Si chiede, o meglio dovrebbe chiedersi, come e dove tutto ciò è stato fabbricato e quanto tempo fa, e da chi e con quali propositi, e come ha fatto ad arrivare fin lì.
Riferirsi alla storia della psicologia, cioè ai centoventi anni da quando è nata la psicologia moderna, è il modo migliore per trovare linee-guida capaci di mettere ordine nella vasta e – apparentemente – confusa congerie di scuole e di indirizzi oggi sulla scena1.
La storia della psicologia, però, non è semplice, perché è difficilmente separabile dalla storia della cultura occidentale. Mentre la storia della geologia o dell’astronomia è, essenzialmente, storia di tecniche e di scoperte, si può avanzare l’ipotesi che la storia della psicologia, pur essendo anche storia di tecniche e di scoperte, sia stata di fatto prevalentemente una storia di idee. Queste idee, va aggiunto, non sono isolate, ma fanno parte di un itinerario di ricerca più generale sulla natura umana, che chiama in causa varie tradizioni filosofiche ed è andato incontro, nel tempo, a importanti e talora rapidi mutamenti di prospettive.
La storia della psicologia costituisce l’ossatura delle conoscenze psicologiche di cui disponiamo. Così, per esempio, se vogliamo apprendere cosa ci dice di interessante quel settore che chiamiamo «cognitivismo» (vedi più sotto) e che è componente di un gruppo di discipline dette «scienze cognitive», le quali si occupano di informazione e di modelli, noi saremo in grado di capire molto più rapidamente di cosa si tratta se, anziché considerare il cognitivismo in modo astorico, sapremo quando e dove è nato, e come mai da allora lo accompagnano controversie e discussioni. A maggior ragione capiremmo ben poco della psicoanalisi di oggi se non ci interessassimo alla maniera in cui ebbe origine, più di cento anni fa, nella cultura della fine dell’800 in cui si formarono Janet, Freud e Jung; e se poi non ne conoscessimo la storia fino ai nostri giorni.
Le varie scuole e indirizzi della psicologia attuale sono parte dell’evolvere, attraverso il trascorrere dei decenni, di alcuni temi di notevole interesse. Cercheremo di identificarli brevemente nelle prossime pagine.

2. Due psicologie? La psicologia vista dal basso e quella vista dall’alto

Secondo i trattati più diffusi, il fondamento naturale della psicologia, e quindi il punto di partenza per ogni esposizione didattica, è il funzionamento elementare del sistema nervoso. I corsi generali di questa materia cominciano dunque, tradizionalmente, parlando della cellula nervosa e del suo funzionamento, poi dei riflessi spinali, poi dei riflessi condizionati, della percezione, del cervello, e così via.
D’altro lato i principianti della psicologia hanno spesso la sensazione che persista uno spazio vuoto fra i fondamenti della psicologia così concepiti e un’altra psicologia, che è quella che a loro interessa maggiormente: non la psicologia elementare ma quella «evoluta», che riguarda la complessità della vita quotidiana, le ansie e gli equilibri e gli squilibri del vivere nel mondo di oggi.
Ed è vero che, in un certo senso, a lungo sono esistite, e in parte ancora esistono, due psicologie: la psicologia scientifica «di base», che si fonda sullo studio del sistema nervoso e sembra occuparsi più volentieri di topi che di persone, e la psicologia della coscienza e della mente, della vita familiare e sociale, interpersonale e affettiva. Tutte le vicende della psicologia, prese nel loro insieme, possono esser viste come la storia del rapporto, e degli scambi crescenti, fra una psicologia «elementare» (più sistematica, non c’è dubbio, più scientifica, ma anche più arida, limitata e pedante) e una psicologia «della complessità», cioè della coscienza e della cultura, che è più disordinata e creativa, talora più opinabile, ma anche più praticamente utilizzabile.
Questa psicologia della complessità, essendo una psicologia dei problemi umani nella vita quotidiana, in molti suoi aspetti è legata al buon senso, all’introspezione, all’intuizione e alla media cultura comune. Per certi lati, dunque, per quanto complessa, è spesso abbastanza facile da capire, in quanto coglie intuitivamente fenomeni globali. Essa si trova quindi ad avere non pochi punti di contatto con la psicologia ingenua, e questo è certamente un suo punto debole.
Va però ancora ricordata la difficoltà a sistematizzare tutta questa materia. La psicologia nel suo insieme, o meglio l’insieme delle sottodiscipline che la compongono (come la psicologia fisiologica, la psicologia animale e l’etologia, la psicologia sociale, la psicologia della personalità, la psicologia dello sviluppo e del ciclo di vita, la psicologia clinica, e così via), raggruppa un insieme molto vasto di ipotesi. Queste ipotesi non sono tutte ben collegate fra loro; e va aggiunto che alcune sono ben fondate e collaudate, altre molto meno. Nell’insieme, malgrado i suoi sviluppi negli ultimi quindici o vent’anni abbiano subito un’enorme accelerazione, la psicologia ha ottenuto meno successi di quelli che hanno caratterizzato le altre scienze del ’900, come la biologia, la medicina o la fisica: tuttora, le sue incertezze sono notevoli. La psicologia è una scienza ancora fragile.
I motivi di fondo di questa debolezza si possono, forse, intuire; e spiegano perché tante persone trovino insoddisfacente quella psicologia «di base» che, per il fatto di prendere le mosse dai nervi e dai riflessi, sembra poi incapace di sollevarsi al di sopra del più volgare livello biologico.
Il fatto è che il comportamento umano sembrerebbe, almeno a un primo esame, irriducibile alle comuni leggi naturali. Va precisato che, nell’opinione della maggioranza degli psicologi, una simile irriducibilità, se pure veramente esiste, è meno netta e meno drammatica di quel che sembra a un primo esame. Però, considerando le vicende e le follie dell’umanità, oppure anche prendendo in esame il variegato romanzo che è la vita biografica di ognuno di noi, non è poi così arbitrario tenere per vero almeno questo: che la mente umana, in quanto produttrice di azioni e di valori, è la cosa più complessa che esista al mondo. E se l’essere umano è complesso come attore di eventi oggettivi – storie di vita, storie di popoli – sembra esserlo ancora di più nella sua dimensione interiore, o soggettiva. L’interiorità vissuta di ciascuno, l’universo sconfinato dei sentimenti e dell’immaginazione, il pozzo apparentemente senza fondo della vita mentale, si dilata in uno spazio immateriale che sembra sfuggire a ogni tentativo di catalogazione.
A tutto ciò va aggiunto, quasi a spingere queste considerazioni sull’orlo di una sorta di baratro, un dubbio di metodo: il fatto che la mente umana studi se stessa sembra configurare una contraddizione insanabile e quindi un limite, forse persino un’impossibilità della conoscenza.
Sembra, appunto: ma non è detto che sia così. Come vedremo, è probabile che un limite di questo tipo non esista. Eppure si può comprendere che, di fronte alla complessità della natura umana, noi possiamo essere indotti, ancora una volta, ad accantonare come inadeguato lo studio della psicologia fisiologica «di base», che ci sembra troppo meccanicistica. Ne siamo risospinti a considerare la mente secondo la prospettiva dell’idealismo, che aveva dominato il pensiero occidentale da Cartesio fino almeno alla metà dell’800: cioè vedendola alla stregua di un fenomeno spirituale primario.

3. Psicologi e umanisti

La psicologia quale oggi la conosciamo ha origine con la nascita della psicologia scientifica, verso il 1880. Intorno a quell’epoca alcuni fenomeni psicologici, come le sensazioni e la memoria, per la prima volta diventano oggetto di indagini sperimentali di laboratorio.
Alla fine dell’800, e anche nei primi anni del ventesimo secolo, il progetto di costruire una psicologia come scienza si configurava come la speranza di costituire una disciplina altrettanto solida quanto la fisica o la chimica. Le scienze tradizionali della natura dovevano rappresentarne il modello; e l’ipotesi da cui si partiva era che il sistema nervoso fosse considerabile alla stregua di una grande fabbrica fatta di tanti mattoni tutti simili, o meglio composta di tantissime macchine elementari, dunque omogenea dai suoi aspetti più complessi a quelli più semplici: tanto che, studiando la natura dei singoli mattoni e la struttura di ogni singolo meccanismo, per successive aggiunte si pensava che si sarebbe arrivati a capire non solo la struttura della fabbrica nel suo insieme, ma anche la natura dei suoi prodotti, cioè il comportamento, le percezioni, il pensiero.
Persistevano tuttavia, in altri settori della cultura, dubbi e riserve. Queste riserve derivavano dal settore ideologico che sempre si era opposto all’idea di una psicologia come scienza esatta: e cioè da un vasto schieramento di pensatori antimaterialisti, interessati sia a temi spirituali, sia a temi culturali.
Per i sostenitori di una concezione spiritualistica ed eventualmente anche religiosa della psiche, quest’ultima andava equiparata all’anima. Insieme a questi, e in un certo senso come parte dello stesso schieramento, vi erano però, e vi sono anche oggi, altri critici della psicologia scientifica – più laici, meno spiritualisti dei primi – che hanno man mano fatto valere il loro punto di vista nel corso del ’900, avanzando argomenti decisamente interessanti. Secondo la loro ottica, che è non tanto spiritualistico-religiosa quanto umanistica, non dobbiamo commettere l’errore di ritenere che il pensiero e la coscienza dipendano soltanto dal funzionamento del cervello: è infatti lecito chiedersi se pensiero e coscienza non vadano messi in relazione, e anzi forse in modo più netto, col mondo storico, con la civiltà, con quell’universo della cultura che, in ultima analisi, caratterizza l’uomo rispetto agli animali.
Quest’ottica è oggi minoritaria, ma è tutt’altro che irrilevante. Sarebbe fare un torto alla psicologia moderna non riconoscere che la sua ricchezza tematica e il suo interesse sono dati anche dalla diversità, e anzi talora dal contrapporsi, di queste impostazioni di fondo.
Gli psicologi che si occupano di ricerca sistematica e sperimentale seguono di preferenza la tradizione naturalistica e si riallacciano quindi all’ipotesi che ciò che chiamiamo la mente, oltre a non essere affatto l’anima, sia un insieme di manifestazioni che trova la sua spiegazione più nel cervello che nella civiltà e nella cultura. Una concezione materialistica dei processi mentali prevale fra coloro che frequentano laboratori e usano calcolatori e statistiche. D’altro canto, a farle da argine e contrapposizione, troviamo oggi non tanto una concezione spiritualistica e religiosa, quanto soprattutto la concezione umanistica e culturale della mente, in particolare fra quegli psicologi che si occupano di meno di ricerca pura e di più di problemi clinici, sociali ed educativi.
Naturalmente, anche qui il rischio è di dimenticare il metodo scientifico e di appellarsi eccessivamente al buon senso, con tutti i suoi margini di ingenuità: ma non pochi psicologi sostengono che questo è un rischio da accettare consapevolmente. A loro parere, infatti, si commettono meno errori se, dopo avere accantonato i troppo ingombranti spiritualismi tradizionali, si esaminano i comportamenti in tutta la loro complessità e globalità, e anche nella loro storicità e nella loro dimensione di fenomeni culturali, rifiutando dunque di ridurli alle loro componenti biologiche. In questa prospettiva la mente, il pensiero e la coscienza non sono visti come fenomeni interni all’individuo, ma invece come eventi interindividuali, collettivi e sociali.
I principali sostenitori di una psicologia culturale e interpersonale sono stati, a partire dagli anni ’70 del ventesimo secolo, Kenneth Gergen, Rom Harré e Jerome Bruner.

4. La psicologia operativa, ovvero pratico-empirica, e il suo (parziale) superamento

Fin dall’inizio del secolo scorso un’altra divisione in due campi si sovrappone, mescolandovisi, a quella appena vista: ed è la divisione, cui si è già accennato, fra la psicologia scientifica (correntemente identificata con la psicologia sperimentale) e la psicologia pratico-operativa, in quanto psicologia «immediatamente utile». Quest’ultima è spesso definita, con una terminologia peraltro impropria, «psicologia applicativa». Il motivo della spaccatura è questa volta più pratico che ideologico.
Da quando esistono come categoria professionale, gli psicologi sono stati invitati, spesso con interessanti lusinghe economiche e di carriera, a fornire il loro aiuto in settori come l’industria, la scuola e l’esercito, o a dare un soccorso alle persone nevrotiche...

Indice dei contenuti

  1. Ringraziamenti
  2. Prima lezione. Cos’è la psicologia
  3. Seconda lezione. La nascita della psicologia moderna
  4. Terza lezione. Fare molto con poco
  5. Quarta lezione. La fabbrica dei talenti