VIII. L’attività agricola e i suoi problemi
Il 27 giugno 1835 il marchese Michele di Cavour veniva nominato «vicario e sovraintendente generale di politica e polizia della città di Torino». Era una carica minore, rispetto all’ufficio, ben altrimenti illustre, di viceré di Sardegna, che il marchese, per un momento, aveva sperato di ottenere; ed egli l’aveva accettata solo con «demi-plaisir», e magari nell’attesa di farsene gradino a funzioni più alte, di ministro, alle quali riteneva di poter aspirare. Ma se anche quelle ambizioni erano destinate a rimanere deluse, la carica di vicario, con poteri che le spettavano, non solo di minuta polizia urbana, ma anche e soprattutto di sorveglianza e polizia politica, e insomma col compito di «tener d’occhio, perseguitare, seccare tutti quelli che erano afflitti della nomea di liberali o commettessero qualche atto da rivelarli intinti di quella pece», faceva in realtà del marchese uno degli uomini più potenti e temuti del regno. Già Camillo aveva accolto con qualche riserva la nomina del padre a una carica che comportava «ingerimenti di polizia»; e nell’opinione liberale del tempo e dei decenni successivi quelle riserve diventarono un giudizio che ha pesato a lungo sulla memoria del marchese vicario. Di lui Francesco Predari parlò come di uomo «inviso al popolo e dal popolo temuto perché noto avversario di ogni bene politico, accusato d’arricchir colla fame del povero, e, come Vicario della città, potentissimo nelle sevizie poliziesche»; mentre il Bersezio (per ricordare solo alcuni fra gli scrittori che più contribuirono a trasmettere alle generazioni successive l’immagine tradizionale del Piemonte carloalbertino e dei suoi uomini), considerandolo «per convinzione o per convenienza addetto a quel partito di assoluta, intransigente riazione, che nell’Italia centrale fu detto Sanfedista», lo disse «più realista del re, più gesuita d’un padre della Compagnia, più cattolico dell’arcivescovo, più intollerante dell’Inquisizione». A demolire questa immagine tradizionale lavorò con impegno, com’è noto, il Ruffini; e certo definizioni e giudizi del genere sono del tutto inadeguati alla personalità di quell’uomo intelligente e scettico, spregiudicato e tenace che fu il padre di Cavour, quale abbiamo imparato a conoscerlo nelle successive fasi della sua varia e complessa esperienza. Tuttavia non è difficile intendere quali aspetti della sua personalità abbiano potuto concorrere a formare agli occhi dei contemporanei la sgradevole immagine che una polemica interessata e deformante ha poi consegnato alla tradizione. Tornato dopo venti anni, grazie ad una carica che gli consentiva rapporti presso che quotidiani col re, a diretto contatto con le fonti supreme del potere, come più non gli era accaduto dopo la dissoluzione della piccola Corte del principe Borghese, il marchese di Cavour aveva qui trovato un terreno di azione atto alla sua natura dominatrice; e se pure le sue convinzioni politiche e ideologiche erano assai più duttili e realistiche di quanto gli osservatori non fossero indotti a credere, era naturale che, chiamato a difendere la società esistente sulle posizioni dell’assolutismo, l’ormai cinquantaquattrenne marchese portasse in quel compito non solo l’inesauribile energia e l’«immense et insatiable activité» che gli erano proprie, ma anche una qualche dose di quella implacabilità che parimenti abbiamo appreso a conoscere. Di quelle doti egli aveva cominciato a far mostra, in qualche misura, già nell’ufficio di sindaco di Torino: e se la città ne aveva in qualche misura profittato sul piano amministrativo e finanziario, ciò che invece ne aveva sofferto era la sua personale popolarità: la quale, annotava Cavour, nell’estate 1834, «paraît être terriblement sur le déclin». Tutto fa ritenere che quel declino abbia assai progredito quando il marchese assunse l’ufficio, di per sé non certo popolare, di vicario; e taluni esempi che sono giunti a nostra conoscenza dei metodi con i quali egli adoperava l’autorità di polizia, dalla strenua difesa del clero e delle persone ecclesiastiche anche in situazioni in cui lo stesso re Carlo Alberto trovava eccessivo lo zelo spiegato dal vicario, alla parte ch’egli ebbe nel caso Heldewier e nei suoi successivi sviluppi, mostrano che i giudizi della pubblicistica liberale, certamente eccessivi, non erano tuttavia senza qualche fondamento. La prima e più evidente tra le ragioni della ben nota ‘impopolarità’ che il conte di Cavour ebbe ad affrontare nei primi tempi della sua carriera politica era dunque presente fin d’ora.
Gli impegni della nuova carica rendevano certo difficile, per il marchese, conservare nelle proprie mani la diretta gestione dell’intero patrimonio familiare, come aveva fatto sino a quel momento. Ma non si trattava solo di questo. In realtà, una lunga serie di delusioni e di crisi, protrattasi al di là di ogni previsione, aveva finito per disaffezionare anche un uomo così tenace e pieno di risorse da quelle intraprese che, specie con l’acquisto di Leri, egli aveva iniziato per assicurare alla famiglia una grande e solida fortuna terriera. «Mon père – notava Cavour – ne fait bien que ce qui a des charmes pour lui; dès qu’une affaire le contrarie, il la néglige et l’abandonne, nous en avons eu plusieurs exemples. Grinzane en est un frappant». Gli anni peggiori, culminati probabilmente nella disastrosa annata 1825-26, erano passati; le rate dovute per Leri al principe Borghese erano ormai liquidate; ma i benefici dell’azienda erano tuttora ben lontani dal livello sperato, e le delusioni d’agosto del marchese erano diventate un’esperienza abituale in casa Cavour, dove fornivano anche materia alle scoperte ironie degli irriverenti figliuoli. L’anno 1833 si era concluso con una perdita di oltre 36.000 lire, e in media il triennio 1832-34 era stato poco migliore, così da suscitare serie preoccupazioni in chi, come Vittoria di Clermont-Tonnerre, era interessato nell’affare. Si aggiunga fors’anche il proposito, sempre coltivato in questi anni dal marchese, di aiutare Camillo ad uscire dalle penose incertezze degli ultimi anni, e di avviarlo sulla via di una sicura e proficua attività. Maturò così il progetto di trasferire la diretta gestione di Leri, sia pure sotto l’alto controllo paterno, al figlio cadetto, più incline alla pratica e agli affari, mentre in Gustavo si era ormai chiaramente delineata la prevalente vena filosofica; e Camillo si dichiarò pronto ad assumerla. Della cosa doveva essersi parlato già prima, ma fu nell’estate 1835, durante il primo grande viaggio di Cavour in Francia e in Inghilterra, ch’essa si avviò a conclusione. «Papa enfin est à Lery – scriveva il conte a Gustavo il 20 marzo di quell’anno –: il en était tems. Je crois que les affaires privées ne lui conviennent plus... Il faut donc qu’il liquide sa fortune ou qu’il en cède l’administration à quelqu’un qui sache et puisse faire ses affaires. Je suis toujours prêt à m’en charger, s’il le veut». Il 25 aprile successivo il padre gli comunicava il suo assenso: «je suis maintenant sur la grande économie – gli scriveva dopo aver accennato alle difficoltà dell’anno in corso –, et disposé à t’associer dans l’administration de Lery en te laissant sur le courant libre arbitre, me réservant pour les grands points».
Tornato a Torino, come s’è visto, a fine luglio, Cavour fu dapprima trattenuto in città dalla minacciosa epidemia di colera che, dopo altri paesi d’Europa, colpì allora il regno sardo, facendo strage soprattutto a Genova. A Torino gli effetti furono assai meno gravi, ma bastarono a diffondere timori e terrori in ogni classe della società. Chiamato, dalla sua nuova carica, a una posizione di prima linea nella lotta contro il flagello, Michele di Cavour spiegò le sue vaste risorse di talento e di energia, la sua capacità di lavoro e il suo spirito pratico nell’organizzazione dei soccorsi, con risultati che riscossero il plauso unanime dei governanti e dei governati, pur in giorni come quelli, quando, a Torino come altrove, si diffondevano le più atroci dicerie sui disegni di avvelenamento perpetrati dalla nobiltà e dal governo. Era escluso che un membro della famiglia del vicario potesse lasciare la città in un simile momento: e Cavour prese dunque bravamente il suo posto, fu anch’egli nominato, come altri giovani membri della nobiltà, ispettore sanitario, con l’incarico di «veiller sans cesse à ce que l’on observe toutes les mesures de précaution prescrites par les gens de l’art». Ma, dopo aver «attendu de pied ferme pendant deux semaines» l’arrivo del colera a Torino, e «voyant qu’il ne venait pas», Cavour si recò, poco prima della metà di agosto, a Leri, dove non ci si occupava «pas plus du choléra que du Grand Turc», per iniziarvi quelle funzioni di direzione e di rinnovamento che dovevano occupare tanto posto nella sua vita durante il quindicennio successivo. È probabile che nei primi tempi egli si sia concesso un periodo dedicato soprattutto all’ambientamento e a una migliore informazione sullo stato e sui proble...