Il denaro fa la felicità?
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Il denaro fa la felicità?

  1. 158 pagine
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Il denaro fa la felicità?

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Ricchi e felici, poveri e tristi? Ma allora perché i messicani si dichiarano in media più felici degli europei e degli americani, nonostante siano indiscutibilmente più poveri? Se la felicità è quantificabile, e sembra proprio che lo sia, alcune leggi fondamentali la governano. Questo libro affronta il rapporto tra felicità e ricchezza, ne analizza problemi e paradossi e raggiunge conclusioni sorprendenti.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858114148
Categoria
Sociology

VI. Felicità sostenibile come nuovo criterio per il welfare?

1. Le tre dimensioni del problema del benessere

Può la felicità diventare un indicatore obiettivo per le scelte socioeconomiche e può utilmente affiancare misure tradizionali, quali il reddito pro capite e i vari indicatori di progresso socioeconomico o di sviluppo umano? È questa la domanda che, alla luce delle riflessioni e degli approfondimenti sui singoli temi sviluppati nei capitoli precedenti, intendiamo porci in questo capitolo.
Una ragione che indurrebbe a rispondere affermativamente sta nella constatazione dei limiti degli indicatori esistenti. Il punto essenziale è il seguente: gli indicatori tradizionali non sono né abbastanza complessi, da tener conto della multidimensionalità dei problemi attuali, né abbastanza semplici (in senso di sinteticità e onnicomprensività), da esprimerne propriamente la complessità in una misura facilmente osservabile e quantificabile.
Quanto alla complessità dei problemi che la nostra generazione è chiamata ad affrontare, esistono almeno tre diverse dimensioni di sfida.
La prima è quella della povertà materiale, ampiamente diffusa in alcune aree del mondo e non scomparsa nei Paesi più ricchi, sia se consideriamo alcune sacche di popolazione locale, sia quando teniamo presente gli effetti dei flussi di immigrazione regolare e clandestina. Gli ultimi dati diffusi dalla Fao nel novembre 2006 parlano di oltre 850 milioni di persone afflitte dal problema della fame. È incredibile che la situazione sia questa, in un’epoca in cui la tecnologia ha essenzialmente risolto il problema dal punto di vista del volume di beni alimentari prodotti. La povertà, però, non è questione di tecnologia alimentare, quanto piuttosto una «malattia economica», dal momento che non si manifesta per scarsità di cibo a livello mondiale, ma per mancanza di capacità di acquisto (o comunque di autoconsumo e autoproduzione) a livello locale.
La seconda dimensione è rappresentata dal degrado ambientale e dal problema connesso del deterioramento delle risorse non rinnovabili e non appropriabili (come il clima), che costituisce l’aspetto più preoccupante del fenomeno.
Esiste, infine, una terza dimensione legata alla qualità della vita o all’infelicità. Per quale motivo, in un Paese sviluppato come il Giappone, si registrano trentamila suicidi all’anno, per lo più di giovani benestanti? E per quale motivo, nei Paesi più industrializzati, al crescere del livello del reddito aumenta anche in maniera significativa il consumo di antidepressivi?
La sfida che abbiamo di fronte è resa più complessa dal fatto che soluzioni parziali ad una sola delle tre dimensioni possono peggiorare la situazione di una o di entrambe le altre due. Come potrebbe accadere, ad esempio, se ci proponiamo di lottare contro la povertà tramite i consumi e la crescita economica, senza tenere in nessun conto le conseguenze non economiche delle azioni economiche, ovvero il possibile spiazzamento di altre determinanti della felicità, come la qualità della vita di relazione o il deterioramento delle risorse ambientali.
La scarsa efficacia di una strategia calibrata su una sola dimensione appare chiara anche se decidiamo di lavorare soltanto sull’obiettivo della sostenibilità ambientale, adottando una politica di sobrietà che passa attraverso la riduzione dei consumi, o addirittura ponendo come obiettivo la de-crescita, che potrebbe mettere a rischio la lotta alla povertà o il mantenimento di livelli accettabili di welfare.
La strategia mista di una crescita sostenibile dal punto di vista ambientale e di un’economia più leggera, nella quale aumenti progressivamente l’efficienza energetica della produzione e sia possibile creare più valore economico a parità di consumo di risorse ambientali, potrebbe essere una soluzione equilibrata, che tiene conto almeno delle prime due dimensioni di sfida. Ma cosa si dovrebbe fare per incorporare anche la terza? Siamo sicuri che il traguardo indicato da quest’ultimo obiettivo, quello dello sviluppo sostenibile, pur nella sua lungimiranza, tenga in debito conto il problema della qualità della vita e della felicità?

2. Gli attuali indicatori sono a tre dimensioni (3D)?

Come il lettore avrà osservato, il dibattito che segue a queste domande trova il suo momento cruciale nella definizione degli indicatori di benessere. Sono queste le «stelle polari» che, una volta fissate, orientano quasi meccanicamente le scelte delle diverse istituzioni. Infatti, dopo aver stabilito un obiettivo, e l’indicatore da utilizzare per valutare la distanza dall’obiettivo stesso (ad esempio la produttività, la crescita del Pil o altro), l’incitamento a raggiungerlo diviene una sorta di «mantra» ossessivamente riproposto dai media, che finisce poi per plasmare i comportamenti di tutti gli agenti economici, attraverso gli incentivi e le regole che le politiche economiche o sociali mettono in atto in vista di quel traguardo.
Nel considerare le tre dimensioni di sfida sopra descritte, abbiamo assodato in via preliminare che gli obiettivi di benessere socioeconomico che ci poniamo, e gli indicatori sintetici utilizzati per monitorare il nostro progresso verso questo traguardo, non possono dare risposta soltanto a una delle tre dimensioni, ma devono tener conto della complessa trama di interdipendenze che le lega. Gli indicatori standard che siamo soliti utilizzare non hanno questa finezza.
È ormai ben noto che il reddito pro capite coglie soltanto l’aspetto della crescita economica media della popolazione, e non è in grado di catturare le dimensioni della sua sostenibilità sociale ed ambientale, nonché molti dei fattori che aumentano la felicità individuale. Per essere estremamente sintetici, aumenti di reddito pro capite possono accompagnarsi (anche se non necessariamente) a deterioramento ambientale, riduzione della qualità dei beni e dei servizi pubblici, peggioramento della vita di relazione. Per fare un esempio più specifico, lo sfaldamento dei legami familiari, con aumento del tasso di separazioni e divorzi, può generare l’esternalizzazione di una serie di transazioni legate ai servizi domestici, che prima si realizzavano dentro le mura di casa senza dar luogo a transazioni di mercato. Con la rottura dell’equilibrio familiare, esse si trasformano in beni e servizi domandati, che aumentando, ad esempio, i profitti di ristoranti o di lavanderie a gettone, generano un effetto positivo sul reddito pro capite. Gli studi sulla felicità, però, ci aiutano a comprendere come questo aumento del reddito generato dal fallimento delle relazioni non aumenta, anzi riduce, la soddisfazione media di vita degli individui.
A parte questo esempio estremo, il problema rilevante è che in molti casi il reddito non coglie dimensioni importanti che contribuiscono alla felicità collettiva.
Un modo interessante di verificare la natura contraddittoria di questo indicatore lo forniscono alcuni studi che analizzano la correlazione tra variazioni di reddito e variazioni di felicità dichiarata su campioni di individui, identificando di solito un gruppo consistente di frustrated achievers, ovvero di persone che registrano variazioni positive di reddito associate a variazioni negative di felicità. Quando questo avviene, lo stato di insoddisfazione è quasi sempre causato dal deterioramento, parallelo all’incremento di reddito, di una variabile non monetaria che ha un effetto importante sulla felicità.
Stando a queste considerazioni, una delle direttrici di implementazione degli indicatori di benessere è quella che cerca di correggere il reddito pro capite in modo tale da tener conto delle altre due dimensioni del problema (tutela ambientale e qualità/soddisfazione di vita). Esistono già da tempo sistemi di contabilità ambientale che correggono il reddito pro capite con misure di qualità dell’ambiente, anche se non sono ancora sufficientemente tenuti in considerazione e dunque non sono ancora diventati cultura condivisa per le istituzioni e la stampa economica. Inoltre, esiste già una batteria di indicatori socioeconomici e dello sviluppo umano che affiancano, solitamente, l’indicatore tradizionale di crescita economica con una serie di variabili legate a salute, durata della vita e istruzione (si pensi all’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite). Aspettativa media di vita alla nascita, mortalità infantile, tasso di alfabetismo, salute delle madri al momento del parto sono le variabili più comuni utilizzate per la costruzione di questi indici compositi che però, proprio per la loro natura, hanno seri problemi di aggregazione. Quando un indicatore è scomposto in una serie di sottoindicatori, chi decide i pesi tra questi ultimi? Ovvero, quanto dovrebbe contare, ad esempio, l’indicatore di aspettativa media di vita alla nascita e quanto quello di reddito pro capite all’interno dell’indicatore sintetico finale? Come armonizzare indicatori costruiti su scale di misura diverse?
Oltre a questi problemi strutturali, resta il fatto che anche gli indicatori socioeconomici hanno serie difficoltà nel cogliere fattori non materiali che contribuiscono alla felicità. Se alcuni di questi fattori non appaiono direttamente modificabili dalle scelte politiche (ad esempio il clima e la luminosità), e dunque la loro omissione non dovrebbe generare degli errori fondamentali nella scelta della direzione di marcia, altri (ad esempio la qualità della vita di relazione) sono profondamente legati alle scelte politiche e, tuttavia, non sono inclusi negli indicatori socioeconomici tradizionali, mentre andrebbero tenuti maggiormente in considerazione.
Infine, anche gli indicatori compositi più accurati finiscono per avere grossi limiti, non solo a causa dei problemi di aggregazione sopra accennati, ma anche per quanto riguarda la capacità stessa dei loro singoli componenti di misurare lo specifico fenomeno oggetto di osservazione. Un esempio interessante lo fornisce un rapporto sull’analisi della qualità della vita nelle province italiane effettuata da «Il Sole 24 Ore», il cui esito è una classifica sulla base di una batteria di indicatori che dimostrano un buon tentativo di conciliazione fra le diverse dimensioni del benessere e dello sviluppo. Tenendo giustamente presente che l’ambiente, oltre che risorsa produttiva, è un bene in sé, la cui godibilità aumenta il benessere individuale, una delle variabili considerate in questo rapporto è quella del verde presente nelle città. Il modo di misurarlo consiste nel calcolare l’estensione del verde pubblico e rapportarla agli abitanti o alla superficie metropolitana. Gli esiti, talvolta, sono contraddittori o paradossali. Chiunque sia stato a Latina concorderà nel definirla una cittadina immersa nel verde. Questa valutazione è quasi interamente determinata dal fatto che le abitazioni sono quasi tutte basse e provviste di ampi giardini interni, ricchi di vegetazione. Se però andiamo a guardare le statistiche sulla qualità della vita delle province italiane, troviamo Latina agli ultimi posti in corrispondenza dell’indicatore del verde urbano, e questo perché ha meno parchi pubblici rispetto a molte altre città. È noto che la presenza di parchi pubblici sia una risorsa importante, ma poiché l’indicatore del verde urbano trascura le altre due dimensioni (l’altezza limitata delle abitazioni e l’abbondanza di giardini privati con molta vegetazione), Latina viene collocata in una posizione esageratamente bassa della classifica, al di sotto di molte altre città nelle quali, anche in presenza di vaste estensioni di verde pubblico, l’ambiente non è affatto godibile e il verde, in agglomerati di palazzoni lontani da tali parchi, non si vede neanche con il binocolo.

3. La nuova frontiera di Amartya K. Sen

Una recente proposta in direzione di un allargamento di prospettive nella determinazione degli indicatori di sviluppo socioeconomico è quella di Amartya K. Sen, che poggia sui due concetti fondamentali di capabilities e functionalities. Il benessere individuale dipenderebbe dalla gamma di opportunità di azione (capabilities), legate alle possibilità concrete che gli individui hanno in un determinato contesto socioeconomico, e dalle funzionalità psicofisiche (functionalities) e i loro eventuali limiti, che potrebbero ostacolare la possibilità di azione e di realizzazione della persona. Per comprendere appieno il principio delle capabilities e functionalities dobbiamo partire da un’osservazione fondamentale, secondo la quale la libertà in sé è nulla senza capacità. La possibilità concreta di usufruire delle opportunità di azione, che un quadro di libertà ci offre, dipende dalle nostre capacità e funzionalità che, a loro volta, sono in funzione del nostro livello di istruzione e della qualità della salute, che permettono di dare contenuto concreto, ad esempio, al godimento di diritti politici ed economici.
Il concetto delle capacità, dunque, sembra indicarci orizzonti meno angusti di quello del semplice benessere socioeconomico, perché considera come criterio fondamentale del benessere quello dell’allargamento delle possibilità concrete di azione e di realizzazione individuale. In questo senso, il principio delle pari opportunità appare significativamente legato alla proposta di Sen, in quanto si prefigge di creare un contesto socioeconomico nel quale il singolo possa esprimersi aggiungendo anche un elemento di equità.
I concetti di capabilities e functionalities associano il pregio di essere più generali ed onnicomprensivi al difetto di essere difficilmente quantificabili e sintetizzabili in un indicatore misurabile. Inoltre, come nel caso di tutti gli indicatori precedenti, da quelli che misurano il benessere puramente materiale, come il reddito pro capite, a quelli che combinano diversi indici di sviluppo socioeconomico, sono inevitabilmente paternalisti perché stabiliti dall’alto. Non sono i singoli cittadini a decidere cosa fa aumentare il loro benessere, ma è sempre un gruppo di studiosi illuminati che formula per loro i criteri sulla base dei quali esso viene misurato.

4. Il salto logico dell’indicatore della felicità: opportunità e problemi

Rispetto ai problemi che affliggono gli indicatori sino ad ora analizzati, da quelli tradizionali alle nuove proposte più lungimiranti, vale a dire lo schiacciamento eccessivo sulla dimensione materiale del benessere, la difficoltà di aggregazione degli indici compositi e il paternalismo, l’indicatore della felicità sembra fare un decisivo salto di qualità. La felicità dichiarata, infatti, non può essere accusata di limitare la visuale alla sola dimensione materiale del benessere (a meno che tutti gli individui intervistati non decidano di far coincidere la loro soddisfazione di vita con questa unica prospettiva); è un indicatore straordinariamente sintetico, che produce un’automatica aggregazione di varie componenti in un’unica scala di misura, valutando implicitamente il loro impatto in termini di contributo alla felicità; non può essere tacciata di paternalismo in quanto, con un capovolgimento di approccio, è l’individuo a stabilire cosa lo rende felice.
A fronte di queste importanti caratteristiche, dobbiamo però necessariamente valutare i limiti e i rischi dell’utilizzo pedissequo di questa misura come criterio di orientamento per le scelte politico-economiche.
Uno dei problemi è sollevato proprio da Sen, con la sua immagine dello «schiavo felice». Secondo Sen, gli individui che si trovano in una condizione di privazione dei loro diritti fondamentali possono non avere consapevolezza della possibilità di essere titolari di tali diritti, e quindi vivere la condizione di perdita della propria dignità senza averne la minima percezione, al punto da non essere neppure in grado di rivendicarla. Tali individui, non avvertendo l’infelicità dello scarto tra la loro condizione e quella in cui avrebbero diritto di trovarsi, vivono come «schiavi felici», facendo venir meno quella proprietà della felicità dichiarata di essere un indicatore che segnala anche il percorso di emancipazione e di sviluppo delle capacità e funzionalità umane.
In sostanza, la critica di Sen non è che un caso particolare di un problema più vasto e generale che affligge il criterio della felicità dichiarata, ovvero il suo essere troppo soggetto ai capricci di variabili psicologiche, rischiando così di trasformarsi in una zattera sballottata tra i flutti della rincorsa tra aspirazioni e realizzazioni. Tale rincorsa può generare molti paradossi, arrivando ad abbassare il grado di soddisfazione di chi ha molto e ad aumentare quello di chi non ha, riducendo di fatto in maniera significativa le distanze tra i due estremi nella scala della ricchezza materiale.
Una possibile risposta alla difficoltà presentata dalla figura dello «schiavo felice» è che le scelte di politica economica sono necessariamente guidate dalle preferenze dell’elettore mediano, e hanno forti limiti nel soddisfare esigenze contrastanti di singoli individui. Se riflettiamo sui risultati delle determinanti della felicità, ampiamente commentati nei capitoli precedenti, possiamo osservare che l’intervistato mediano non appare per nulla affetto dalla sindrome dello «schiavo felice», rivelando un forte e significativo legame tra la propria felicità dichiarata e tutti quegli indicatori che lo emancipano socialmente e gli consentono di aumentare le proprie capacità e funzionalità. Insomma, l’individuo che si riconosce più felice per maggiori livelli d’istruzione, maggior qualità della salute, successo nella sua vita relazionale, minor inflazione e disoccupazione, non sembra proprio assomigliare allo «schiavo felice» anche se, probabilmente, all’interno degli ampi campioni di intervistati qualche «schiavo felice» potrebbe esserci.
Basta dunque attenersi ai risultati generali di questi studi e ai pesi impliciti in essi, definiti dalle diverse grandezze d’impatto dei fattori che aumentano o diminuiscono la felicità media dichiarata, per ottenere un criterio di orientamento nelle scelte di politica economica e sociale, che sicuramente andranno in una direzione di maggiore emancipazione della persona.
Un altro problema, più generale, consiste nella dipendenza da fattori psicologici delle risposte date dagli intervistati. Il costruire degli indici che prescindano dall’eventuale fattore psicologico ci farebbe ricadere nuovamente nella separazione dei saperi e nel rischio insito nella nostra cultura, estremamente specializzata, di procedere a compartimenti stagni. Secondo i fautori della separazione dei saperi, infatti, gli economisti si dovrebbero limitare a porre i cittadini nelle migliori condizioni di benessere materiale, mentre poi il problema della felicità sarà risolto dai cittadini stessi nella sfera del privato o con l’aiuto de...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. Il denaro fa la felicità?
  3. II. Il paradosso del rapporto tra reddito, relazioni e felicità
  4. III. Quanto ci rendono infelici disoccupazione e inflazione?
  5. IV. Felicità e lavoro
  6. V. Felicità, competizione e mercato
  7. VI. Felicità sostenibile come nuovo criterio per il welfare?
  8. VII. I dubbi a fine percorso: si può (e a che serve) misurare la felicità?
  9. Per saperne di più