Dopo gli anni Zero
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Dopo gli anni Zero

Il nuovo design italiano

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Dopo gli anni Zero

Il nuovo design italiano

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La prima mappa critica del nuovo design italiano, dal Duemila a oggi, «un evviva alle persone nate intorno agli anni Ottanta» (Alessandro Mendini). In una panoramica assolutamente inedita, troveremo i fatti cardine che hanno segnato l'affermazione del design attuale all'interno di una tradizione storica consolidata, i luoghi, ovvero le imprese emergenti, le scuole, gli spazi della comunicazione e il loro rapporto con il luogo per eccellenza contemporaneo, cioè la rete. E ancora, i modi nuovi e alternativi di progettazione, produzione e autoproduzione e, soprattutto, i nomi di questa giovane storia italiana: più di 200 designer, per la maggior parte under 30.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858111505
Argomento
Design

Nomi

Dopo gli anni Zero non sta evidentemente a significare che tutto quello che ha preso vita precedentemente allo spartiacque del nuovo millennio cessi di essere determinante per lo scenario presente: anzi, la maggior parte dei progettisti che lavorano da più di un ventennio vede proprio in questi ultimi anni la propria attività prendere forma, con l’affermarsi di un metodo e il consolidarsi attivo di una prassi che contribuiscono in modo decisivo a delineare i caratteri della scena attuale. Anche lo scenario futuro è in buona parte inaugurato dagli investimenti nella ricerca, che proprio queste realtà già avviate riescono a orientare. Tuttavia la nostra scelta è di concentrarci solo su chi dal Duemila circa in poi ha cominciato ad avvicinarsi a questa professione: sulla «nuova scena italiana», cioè quella massa finora abbastanza indistinta ma rumorosa che da qualche tempo si affaccia alla realtà del progetto, sgomitando per affermare la propria presenza in un sistema già consolidato, occupando interstizi vacanti e aprendone di nuovi.
Proprio per dar conto di questa pluralità di risposte, va detto che nell’arco di un solo decennio si configurano esperienze molto diverse, per cui diventa necessario suddividere questo momento in più tempi. Rispetto alla classificazione anagrafica, che abbiamo utilizzato per descrivere i risultati delle statistiche, in questo caso dobbiamo optare per inquadramenti indipendenti dall’età. Ovviamente, la situazione di chi ha avviato la propria attività di designer intorno alla fine degli anni Novanta, riletta oggi, è abbastanza diversa da quella di chi ha iniziato il mestiere tra il 2002 e il 2008, e molto distante da chi si è avvicinato al design dopo il 2010 e ha, naturalmente, un’esperienza più breve da raccontare. Eppure, un po’ come la temperatura, si tratta di una «generazione percepita», in cui le comuni impressioni che questi progettisti suscitano contano più del criterio scientifico, che serve invece a distinguerne i profili curricolari. È giusto partire da qui, accogliendo anche la legittima insoddisfazione di chi rivendicherebbe una maturità diversa e maggiore, e invece viene abbastanza indiscriminatamente ascritto al nuovo o giovane. E chiedersi perché.
Quello che accade è che cambia l’età, cambiano le dimensioni del portfolio e gli obiettivi; sorprendentemente, invece, le poetiche spesso si assomigliano in maniera trasversale, unendo progettisti di esperienze distanti e separando i coevi nello stesso decennio. È possibile che questo abbia a che fare con un fenomeno di emulazione dei giovanissimi nei confronti di prassi già rodate da progettisti più maturi, ma forse si tratta anche di fare appello a una contiguità di riferimenti. Fatti, luoghi e modi così differenti rispetto a quanto accaduto fino agli anni Ottanta/inizio Novanta sono invece incredibilmente simili per chi si avvicina al mondo del progetto tra il 2000 e il 2010, indipendentemente dall’età, e al tempo stesso sono così diversificati da offrire ai tanti progettisti altrettante possibilità. Non solo: fatti, luoghi e modi sono determinati proprio da questi nuovi designer e non di rado invitano la generazione precedente a rinegoziare i propri strumenti di approccio all’attualità.
Come la storia del design italiano è fatta da molte eccellenze non italiane, così una descrizione del nuovo scenario non può non tenere conto degli italiani che operano all’estero, o degli stranieri che ormai da diversi anni hanno spostato il loro domicilio in Italia. Vengono perciò – anche un po’ campanilisticamente – ricondotti alla paternità italiana anche quelle prassi e quei risultati che in molti casi si sono volutamente affrancati dall’italianità. D’altra parte, è successo pure che molti italiani residenti in patria abbiano smarrito i caratteri del design nazionale a favore di un maggiore europeismo28, per cui l’Italia è in un certo senso anche patria del design olandese, di quello scandinavo, di quello francese, ecc.
Un inventario di tutto il nuovo design italiano, oltre che impossibile, sarebbe una manovra poco utile e forse anche un po’ ingiusta nei confronti del riconoscimento delle specificità delle eccellenze. Materia inclusiva – e mai come oggi ostaggio della pubblicizzata multidisciplinarietà –, il sistema del design ospita tanti improvvisatori, qualche mestierante e diversi progettisti non troppo dotati di poetica e di etica del progetto. Qui interessa provare a ordinare non tutti gli altri, ma quelli tra gli altri che negli ultimi anni hanno prodotto esempi che valga la pena di immortalare e custodire in questo museo virtuale della scena odierna italiana. Il valore perciò è stabilito non tanto in base a criteri di gusto, ma tenendo conto della maggiore o minore rilevanza nella qualificazione dello scenario presente.
Anziché cercare di chiudere il design in una definizione («design autoprodotto», «design industriale», «furniture design», «design primario», ecc.), si è preferito perciò rivolgere l’attenzione ai progettisti e ai loro casi concreti: l’unica foto (seppure mossa) che si è scelto di scattare è quindi alle persone, passando da quello che pensano, producono e immettono nel mondo.
A tal fine sono state isolate alcune caratteristiche che descrivono – seppure con un andamento carsico fatto di sottotraccia ed emersioni – la generazione di progettisti diversi che si è affacciata sulla scena del design negli ultimi dieci anni: il rapporto con i Maestri italiani (continuativo o conflittuale); il rapporto con la rete come interlocutrice nell’ideazione, nel processo e nella distribuzione; l’approccio olistico alla filiera industriale (dall’affiancamento tecnico a quello di marketing e comunicazione) e la propensione all’autodafé; l’interpretazione del design come medium per l’immissione di un messaggio concettuale nel mondo, da una parte, e dall’altra l’insistenza sul disegno come fine; l’empirismo sperimentale e lo spostamento di significato dal prodotto al processo.
Così, a partire dall’analisi di progetti emblematici, sono emerse alcune poetiche che in realtà descrivono delle modalità piuttosto che dei progettisti, benché sia­no attribuite a dei generi di designer. Si tratta di neopost che disegnano progetti, di sulpezzisti e integrati nel prodotto, soft pop e retro chic nel disegno, messaggeri di idee o concept, rizomati nelle prassi, metonimici ed empiristi nei processi. Non etichette fisse, ma titoli esemplificativi: è possibile che uno stesso designer oscilli tra due o più di queste prassi nell’arco della sua carriera, o che ne applichi contemporaneamente più di una, anche nell’approccio a un unico lavoro (Fig. 13). In questa sede ci limiteremo a presentare dei casi esemplari e dei nomi particolarmente significativi.

I «neopost» e i loro post

Quelli che l’eredità dei Maestri

Non c’è un designer in Italia che non si sia affacciato alla professione senza pensare al trascorso di uno dei Maestri universali di design. Sebbene, nella quasi totalità dei casi, si tratti di progettisti che non hanno esplicitamente consegnato la propria eredità a dei discepoli – «Maestri loro malgrado», li definisce Marco Romanelli29 –, queste figure eroiche rappresentano, per chiunque abbia anche solo trascuratamente studiato design, una stella polare, il ricordo costante di un tempo e un modo eternamente ricercati: i Maestri sono unanimemente considerati delle icone carismatiche della cultura materiale e del suo trasbordo nell’immaginario sociale – e in qualche caso politico – dell’Italia dal dopoguerra ai nostri giorni. Anche da chi poi sceglie quotidianamente di approcciare la disciplina in maniera del tutto personale e affrancata dalla loro prassi.
Ci sono invece dei progettisti per i quali l’appuntamento, anche solo platonico, con i Maestri rappresenta una spinta autentica e pressante. Sono designer il cui percorso professionale è orientato, consapevolmente o meno, alla riproduzione di approcci e prassi operative molto vicini a quelli dei predecessori, o meglio dei predecessori dei predecessori, saltando in buona sostanza una generazione. Li ribattezziamo neopost. «Neo» perché attuano un nuovo tentativo di inserirsi nel solco di quella storia, «post» perché sono il confronto con essa e il desiderio latente di esserne legittimati come eredi a guidare il loro percorso. Desiderio latente che rappresenta una risposta alla domanda non sempre tacita, da parte del «sistema», di un ritorno all’età dell’oro del design italiano, che sarebbe scomparsa, insieme ai Mae­stri, nel design contemporaneo.
È impossibile semplificare in maniera precisa e uniforme la complessità e l’eterogeneità di quelli che unanimemente riconosciamo come i Maestri del design italiano. Anzi, è proprio ad alcuni di loro che si deve la fondazione di «scuole» e culture del progetto orientate a linguaggi, e ancor prima a intendimenti della disciplina, molto distanti tra loro e strenuamente mantenuti tali. Eppure ritornano alcuni caratteri più o meno trasversali ai vari personaggi, riuniti, oggi più che allora, intorno alla nostalgia proprio per lo smarrimento di quell’impronta. Un’interpretazione postuma oggi annovererebbe tra le qualità principali di quella storia la considerazione del prodotto come uno strumento, una metafora e non un fine della progettazione; l’enciclopedismo professionale, per cui disegno, teorizzazione e pulsione artistica costituiscono le sfaccettature compresenti di uno stesso approccio disciplinare; l’innesto critico e provocatorio nel prodotto, con vena polemica o umoristica; l’attaccamento perennemente rinegoziato con il mondo dell’imprenditoria, che rappresenta una sponda al proprio lavoro ben ponderata nel rapporto intellettuale, creativo, produttivo, a sfavore di quello meramente meccanico, economico e merceologico; la dimestichezza con le realtà dell’artigianato; la tensione più o meno rumorosa verso il «fare gruppo». Sono questi alcuni dei caratteri che tra i progettisti che si affermano a cavallo degli anni Novanta (la generazione dei cinquanta/sessantenni di oggi) vanno indebolendosi, a causa di una maggiore concentrazione sul prodotto, sul suo potenziale innovativo, sul suo valore di scambio e di affermazione di un gusto estetico, da una parte, e dell’assorbimento della carica utopica in espressioni più al confine con l’artisticità, dall’altra. Alcuni di questi tratti distintivi dei Maestri ricompaiono invece mutati, emulati e mutilati all’inizio del nuovo millennio.
È il caso di progettisti come Giulio Iacchetti, Matteo Ragni, Gabriele Pezzini, Paolo Ulian, Lorenzo Damiani, e dei più giovani che parzialmente a quelle scuole si sono formati. Tra gli aspetti più interessanti di questi designer ci sono la varietà di interlocutori con cui si confrontano – istituzioni pubbliche e private, scuole, aziende (di settore e non), artigiani, critici, editori – e il fatto che il prodotto inteso tradizionalmente rappresenti una percentuale relativa rispetto a tutti gli ambiti in cui la propria pro­fessione trova applicazione: i neopost sono essenzialmente designer di progetti (prima che di prodotti o processi). Non a caso, si tratta di designer ricordati più per le operazioni speciali che sono stati in grado di aggregare o per le riflessioni di carattere teorico che hanno prodotto, che per la progettazione industriale in senso stretto.
Di Giulio Iacchetti abbiamo già ricordato l’intuizione di Design alla Coop nel 2005 e l’inaugurazione di un marchio di produzione e distribuzione privata, Internoitaliano, nel 2012. Nel mezzo, la sua mostra monografica al Triennale Design Museum, Oggetti disobbedienti, assorbiva nel titolo quella tensione polemizzante a sfondo civico-politico che costituisce la dimensione critica forse più interessante della sua produzione tridimensionale. All’estremo opposto, e apparentemente conflittuale, si polarizza in Iacchetti una ricerca più riflessiva e ottemperante, ma altrettanto incisiva, come quella rivolta agli oggetti sacri e di culto (Fig. 1), culminata nella mostra Cruciale – che durante il Salone del Mobile del 2011 ha portato al Museo Diocesano di Milano venti croci autoprodotte – e nella partecipazione alla mostra collettiva Ave amen, dedicata ai rosari: un affascinante percorso di recupero della cultura materiale, con radici nei temi fondanti dell’antropologia e della religione.
La produzione di Iacchetti si muove tra le microaziende extrasettore riorientatesi al design, il piccolo artigianato, la grande distribuzione e alcuni importanti marchi del settore. Il suo eclettismo si esprime anche nel fatto di essere percepito come il capostipite aggregatore di una new wave fresca e innovatrice, da una parte, e dall’altra di tendere a essere riconosciuto come un collega dalla generazione precedente, anagraficamente più vicina a lui ma professionalmente forse più distante. Senza mai perdere di vista la legittimazione dei capostipiti, ai quali parte del suo lavoro rende un più o meno esplicito omaggio. È proprio in virtù di questo collegamento che nei suoi progetti (non solo prodotti) si riflette un’eredità mista che potremmo ascrivere contemporaneamente a Bruno Munari come a Enzo Mari, ad Achille Castiglioni come a Ettore Sottsass, carismi difficilmente sintetizzabili, dei quali invece Iacchetti sa applicare simultaneamente una fetta importante di lezione, a volte anche contrastandone il modello. Ed è così che il segno cede il posto al simbolo, il significante al significato, e l’oggetto diventa trasmettitore di un messaggio breve e semplificato, a contenuto etico o sociale, ironico o polemico. A dispetto di un carattere introverso e ponderato, il suo lavoro parla con gli strumenti più sofisticati della comunicazione, anche quando il suo ruolo slitta da quello di progettista puro a quello di art director o consulente che tesse relazioni sapientemente modulate. Nonostante la sua tensione all’estero, Iacchetti resta uno dei progettisti italiani più italiani che ci sia. Il suo ex socio, Matteo Ragni, ne è un altro esempio.
Matteo Ragni, che con Iacchetti aveva fondato Aroundesign nel 1998 – studio vincitore del Compasso d’oro per la posata Moscardino30 nel 2001 –, è invece forse il più «mendiniano» tra i suoi colleghi, in parte per il condiviso debito artistico con le avanguardie (su tutte il Futurismo, che Ragni omaggia nella sua interpretazione del marchio Campari, di cui è direttore artistico dal 2009), in parte per la predilezione per un segno marcatamente personale, in addizione più che a sottrazione, tangente al kitsch. Se Iacchetti è in certi casi anche un buon «oltraggiatore» della storia, Ragni è più allineabile con l’etica del «rispettoso omaggio», che si riflette nella sua predilezione per le citazioni – una delle quali, non a caso, dà il benvenuto al visitatore sul suo sito internet.
Oltre che di Campari, Ragni è art director della storica azienda milanese di tappezzerie Jannelli & Volpi e del marchio Alpi, azienda leader nel se...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione di Alessandro Mendini. I designer enigmisti anni Dieci
  2. Fatti
  3. Luoghi
  4. Modi
  5. Nomi
  6. Voci
  7. Ringraziamenti
  8. Illustrazioni