Viaggio all'Eden
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Viaggio all'Eden

Da Milano a Kathmandu

  1. 138 pagine
  2. Italian
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Viaggio all'Eden

Da Milano a Kathmandu

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Era davvero il viaggio della vita. Erano altri tempi, più o meno mezzo secolo fa. La meta era lontana: l'India, il Nepal, l'Afghanistan. Le condizioni del viaggio erano disagevoli: niente aerei, carte di credito, cellulari, bed and breakfast; piuttosto traveler's cheque, scassati uffici del telegrafo, fermo posta, ostelli. I più fortunati viaggiavano su un pulmino Volkswagen, se no bus, treni, autostop. Fu davvero una grande migrazione, ricordata in questo prezioso Baedeker di Emanuele Giordana; lui – oggi giornalista specializzato in Paesi asiatici – fu uno dei pionieri. Fu un viaggio interiore, individuale e collettivo, alla ricerca di spiritualità, meditazione, allargamento della conoscenza e una reazione alla vita competitiva che si conduceva in occidente.

Un libro rievocativo, preciso e nostalgico.Enrico Deaglio, "Il Venerdì di Repubblica"

Emanuele Giordana ritorna sulla rotta degli anni Settanta per Kathmandu: il Grande Viaggio in India fatto da ragazzo e ripercorso a otto lustri di distanza. Un sogno che portò migliaia di giovani a Kabul, Benares, Goa, fino ai templi della valle di Kathmandu.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858139325

1.
Direct Orient

A Milano il Magenta, il «baretto» di Sant’Eustorgio, l’Erika, la Bocciofila Martesana. Con capatine a Roma, suk italiano. Preparativi culturali, libri e cinema di periferia guardando Woodstock e Cavalieri selvaggi. La politica, i primi spinelli e la mistica del viaggio in Oriente.
Questa è la tua prima luna che vedi fuori di casa [...] / e, mentre dormi sul prato, [...] / tu vedi passare una macchina verde della Polizia / non ti vedono neanche / li senti andar via / capisci di colpo che il loro discorso è diverso dal tuo.
Claudio Rocchi, La tua prima luna, 1970
«Come in Afghan shop my friend... cheap price for you... Come in Afghan shop...» In origine fu Luca detto «Paglia». Prima con una Volkswagen Maggiolino, poi con mezzi di fortuna, aveva raggiunto Kabul via terra facendo all’inverso la stessa strada che gli australiani battevano da anni verso l’Europa. Sì, perché erano stati i giovani australiani a iniziare un grande viaggio che attraversava l’Asia per raggiungere le loro antiche origini europee, con un percorso che prevedeva tappe e lentezza verso le radici delle famiglie d’origine. Negli anni Settanta, invece, quel percorso à rebours iniziarono a farlo gli inglesi, i francesi, gli italiani.
Luca era stato uno dei primi del nostro giro e, già ormai agli studi superiori (studiava, si fa per dire, geografia a Parigi), veniva all’uscita del Carducci, liceo milanese fuori dalla cerchia dei Navigli (il che gli dava, come Classico, un’aura proletaria di periferia), a esibire magliette ricamate, pipette, scatoline argentate comprate nel bazar della capitale afgana: «Come in Afghan shop my friend... cheap price for you...». Quella cantilena ammaliava noi giovani liceali disposti e predisposti a sognare la trasformazione delle nostre vite di militanti a tutto tondo in qualcosa che andasse oltre la Resistenza, la lotta per il diritto allo studio, le manifestazioni per il Vietnam. Restavamo confusi da quegli stracci colorati, dagli stemmi della famiglia reale, dal richiamo di strade polverose che andavano verso oriente. La meta però non era Canberra. Era Kathmandu.
La febbre del viaggio era cresciuta in tempo reale. Fabrizio tornava da Wight, dove il neonato Festival del rock era stato sospeso nel 1970 dopo solo tre edizioni, Marco andava e veniva da Amsterdam, Paglia e Adriano raccontavano di Istanbul, la Porta d’Oro, prima tappa del Viaggio all’Eden, che era poi il titolo della prima guida dedicata e curata da Marco Amante e Luigi Buffarini Guidi, uscita nel ’73. Contagiati da quella febbre, si passava dal sogno alla partenza. I preparativi correvano lungo una sorta di filo rosso che si dipanava in città: nei licei, nei primi corsi all’università, nel servizio notturno alla posta che, all’epoca, assumeva precari per tre mesi, pagava un discreto stipendio e forniva la prima vera base di massa del tesoretto necessario per partire.
I ritrovi serali andavano per quartiere. Noi di zona Loreto ci trovavamo in un baretto che forse non arrivava a 15 metri quadri. Per aumentarne lo spazio vitale il Gino, padre padrone del bar Erika di via Montepulciano, vagamente claudicante e dotato di una moralità gesuitica ma anche di una flessibilità libertaria ante litteram, si serviva di una botola sotto il bancone dove teneva i liquori. Magari stavi ordinando uno «spruzzato» (bianco secco con bitter e seltz, versione milanese dello spritz) e quello improvvisamente spariva nella botola per riemergerne con una bottiglia di Campari, una Vecchia Romagna e un richiamo alla marmaglia: «Maledeti capeloni...». Era veneto il Gino e dunque – all’opposto dei sardi – disdegnava le doppie, ma in compenso ci conosceva uno per uno e, seppur raramente, dispensava buoni consigli: «Con quella roba farai una brutta fine...». Alludeva all’eroina il Gino, la polvere grigiastra che iniziava a circolare. Sugli spinelli era tollerante, ma andavano fumati girato l’angolo. Il bar doveva restare pulito.
I bar erano i luoghi dove scambiarsi indirizzi, consigli, strade più o meno percorribili. A una cert’ora ci muovevamo per andare dal ritrovo di quartiere a quello cittadino più in voga al momento: il Magenta, vicino alla Stazione Nord, che serviva panini con pancetta sino a tarda notte ed era frequentato dai «grandi» – gli universitari –, soprattutto del Movimento studentesco. Il «baretto» di Sant’Eustorgio, dietro piazza Vetra a Porta Ticinese, che aveva poi preso il sopravvento grazie al vasto spazio antistante e ai prezzi contenuti. Non così lo storico Giamaica di Brera, caro per le nostre tasche come il Tombon de San Marc: ci avresti lasciato troppo dei risparmi che servivano al grande viaggio. A Sant’Eustorgio ci trovavi quelli del liceo Manzoni o del Berchet, i più arrabbiati degli istituti tecnici, le prime bande infagottate nei giubbotti di pelle anche a fine luglio.
Il bar era un luogo di aggregazione sociale dove ai discorsi sul calcio si era sostituita l’organizzazione di picchetti e presidi o dove ci scambiavamo dritte per comprare il fumo migliore o su quella trattoria che praticava prezzi popolari e il cui vino non era veleno. E poi, con l’arrivo dell’estate, i primi racconti: i posti dove andare a dormire ad Atene, i prezzi del Magic Bus da Istanbul a Delhi, le dritte sui privilegi neocoloniali che resistevano nella beata incoscienza della Guerra Fredda. In India, ad esempio, i bianchi di qualsiasi nazionalità avevano diritto a posti riservati su tutti i treni a lunga percorrenza. Non c’era nemmeno da fare la fila, ma dovevi saperlo altrimenti ti toccava, come a tutti, un viaggio in cui lottare per stendere le gambe o appoggiare le chiappe su un sedile. Quel paese, a sentirselo raccontare, non sembrava diverso da quello che Kipling aveva fatto attraversare al suo Kim durante il «Grande Gioco», la guerra più o meno guerreggiata che, nell’Ottocento, aveva opposto la Russia alla monarchia britannica per il controllo dell’India e dell’Asia centrale.
La voglia del viaggio, nella seconda metà degli anni Settanta, era diventata un contagio febbrile, irrefrenabile e trasversale. In Oriente ci andavano il fricchettone o l’hippy (c’era una distinzione tutta politica tra i due soggetti), il «katanga» della Statale (appellativo conquistato sul campo menando i poliziotti ai cortei), quelli di Lotta Continua ma anche i più seriosi militanti di Avanguardia Operaia, «quelli del manifesto» ma anche un tipo che si era nominato «anarco-sioux», riflessione nobile e autoreferenziale nell’evoluzione di un movimento così variegato in cui avevano trovato posto persino i nazi-maoisti. Anche quelli in qualche modo finiti sulla rotta d’Oriente.
La febbre si curava con dosi massicce di informazioni più o meno virtuali: le prime edizioni di Hermann Hesse, I Ching – testo sacro cinese di divinazione –, i classici della beat generation dove ancora non sapevi se vagolare per Milano ti facesse assomigliare ai protagonisti di I sotterranei o se la spasmodica attesa della partenza non ricordasse i preparativi di Sulla strada, due romanzi di Jack Kerouac che erano pane quotidiano, trascorsa l’epoca della lettura obbligata di Marx e Lenin. Musica a tutto volume nelle serate a casa di amici, scambi di vinili e, più avanti, delle prime cassette. I film di culto in qualche cinemino di terza visione (le classi sociali si riflettevano anche sul grande schermo, ma nel contempo a prezzi popolari per tutte le tasche), nei nobili cinema d’essai o in sale corsare come il Nobel o, dietro la Stazione Centrale, il mitico Abanella.
Visto che all’epoca al cinema si poteva fumare, alate circonvoluzioni di denso fumo aromatico avvolgevano pellicole passate alla storia come Woodstock, meno noti lungometraggi del nuovo cinema americano (Punto zero, road movie del ’71 di Richard Sarafian), per non parlare della più mitica tra le mitiche pellicole dell’epoca: Cavalieri selvaggi di John Frankenheimer, girato in Afghanistan nel ’72, meta intermedia – e intanto virtuale – del viaggio all’Eden. Dell’Afghanistan sapevamo poco. Ignoravamo che il viaggio all’Eden, il cui obiettivo finale era la valle di Kathmandu in Nepal, avrebbe compreso una sosta in questo paese sospeso su un abisso imminente che ancora perdura.
La febbre, il contagio, la peste si diffondeva intanto a macchia d’olio. Arrivata a Varese si incuneava a Genova, risaliva verso Cremona, si alimentava dei racconti di abili napoletani che contraffacevano i biglietti del treno con copie di una matrice da 100 lire trasformata in 10.000, si spandeva nella capitale dove si arricchiva di nuovi racconti. Quando noi milanesi «scendevamo» a Roma, che allora ci sembrava un immenso, affascinante suk, se paragonata alla statica geometria funzionalista di Milano, passavamo ore nella romanissima Campo de’ Fiori, dove oggi nemmeno più la Vineria è rimasta proprietà di un autoctono e dove – mi dicono – le mazzette comprano lo spazio pubblico per allungare sedie e tavolini sul selciato.
Sorseggiando oggi una birra dal Nolano, l’unico locale dove il cliente ha a disposizione una «mazzetta» di altro tipo, quella dei giornali, che comprende ancora «il manifesto», da quell’epoca sembra passato un secolo. In effetti erano quarant’anni fa. C’è ancora a Milano la Bocciofila Martesana, ritrovo per anziani eletto a domicilio dei sognatori dell’Eden. Resiste il bar del Pino in via Cerva, ora ristorante elegante gestito dai figli che hanno però conservato quel fascino d’antan. E più o meno gli stessi prezzi. Non quelli della Martesana, dove il pasto completo veniva 500 lire e dove il conto mentale era quanto ti era rimasto per prendere il Direct Orient da Parigi, via Milano, sino a Istanbul. Già Orient Express dal 1883, il suo ultimo viaggio con quel nome ormai letterario si era compiuto nel maggio del ’77.
Esiste ancora il bar Magenta, esiste il Jamaica – che per un certo periodo si scriveva Giamaica –, è scomparso l’Erika. Prima si è trasferito nell’angolo di fronte, lasciando il posto a un negozio di abbigliamento; alla fine è stato ceduto. Oggi, a sostituire la funzione aggregativa dei bar – a Milano e altrove – esistono i centri sociali, oppure gli appuntamenti con gli aperitivi «mangia e bevi» di cocktail e stuzzichini o ancora i wine bar, che hanno scelto un nome inglese per sostituire il termine «osteria». A Milano resiste il bar Basso, il luogo deputato all’aperitivo, oggi come allora, per la mano felice dei suoi barman: Campari shakerato, Bellini, Negroni sbagliato e via discorrendo, sino all’invasione della caipirinha o di altre miscele esotiche.
A metà tra il bar proletario e il night, gli anni Settanta avevano visto nascere, crescere e poi passare di mano il primo locale della sinistra alcolica. Si chiamava Punto Rosso ed era stato aperto da quattro giovinastri i cui nomi, da soli, erano un programma: l’Ocio (contrazione di Ho Chi Minh), Spratt, il Carletto e il conte Balbo, «erikesi» doc e ben ammanigliati con tutta la sinistra extraparlamentare. Tanto ammanigliati da far paura anche alla mala milanese, che già non era più quella dei Turatello ma voleva comunque metter le mani su tutto ciò che si muoveva dopo le nove. Una sera i balordi chiedono il pizzo e i quattro gli fanno capire che questa roba «non la paghiamo». I balordi danno un appuntamento per far valere il loro rispetto e i quattro fanno un paio di telefonate. Così all’appuntamento si presenta buona parte del servizio d’ordine di Lotta Continua e il clan del Casoretto, circolo politico «menatosto» di zona Loreto, più alcuni di Rosso o di Potere Operaio – PotOp in gergo. Inutile dire che era tutta gente dell’Erika. Solidarietà trasversale. I balordi vedono la truppa, capiscono l’antifona e girano i tacchi. Vittoria: il Punto Rosso è zona franca.
Già Raro Folk Club, il Punto, che era ufficialmente un circolo Endas (Ente di Azione Sociale), aveva raggiunto il suo apice in un solo anno con 4.500 tesserati (la tessera era imposta dall’Endas, che così tanti soci di un club non ne aveva visti mai). Ballo che dura una sola stagione. Il locale passa di mano. Diventa Chicote (come l’omologo di Madrid) e poi Ciucaté («ubriacone»). Tre dei quattro soci fondatori si ritirano, l’Ocio si ingrandisce e apre con altri un Punto Rosso-discoteca, tendone che annuncia anche a sinistra la Milano da bere, ballabile e meno militante. Nascono locali a bizzeffe, ma per ritrovare quell’atmosfera c’è forse ancora un posto che la trasmette, in via Castel Morrone: La Belle Aurore, con gli inossidabili Adele e Fiorenzo in cucina e al bancone. I due, ex del Teatro Officina, luogo storico della Milano anni Settanta, tengono in vita oltre al locale anche quel che resta di una gloriosa stagione. Che Fiorenzo, se conquistate la sua simpatia (il che può non essere facilissimo), potrebbe rinverdire tra un prosecco e un vodka martini.
Intanto il viaggio all’Eden era per molti già cominciato. Prima coi pionieri della fine degli anni Sessanta (come i primi «capelloni» accampatisi su indicazione della rivista «Mondo Beat» alla periferia di Milano, che il «Corsera» aveva ribattezzato «Barbonia City»), poi con quelli, come Paglia, dei primi Settanta. Mentre iniziava la stagione dei raduni rock organizzati da «Re Nudo» e Radio Popolare – già Radio Milano Centrale – invadeva l’etere delle emittenti libere in FM. Stava per cominciare l’esodo di massa. Un primo nucleo era partito per Matala, nell’isola di Creta, dove potevi dormire nelle grotte sulla spiaggia e iniziare a sognare la strada verso la Porta d’Oro. Era il 1971 e la Milano da bere, il riflusso, i socialisti, i fasti nefasti degli anni Ottanta erano di là da venire. Sacco in spalla e autostop sull’autostrada fino a Bari e poi nave per Igoumenitsa, oppure Direct Orient da Milano a Istanbul via Sofia. L’arte del viaggiare, su cui ognuno ha da dire la sua, iniziava di prima mattina con gli esami alle spalle e il bagliore dell’Asia sullo sfondo del Pirellone. Buon viaggio.

2.
Alla periferia del Viaggio

I dintorni del grande viaggio: la Jugoslavia di Tito e l’isola di Mljet, Matala e la Grecia, il viaggio verso Istanbul. Treno, autobus, nave, autostop. Il ponte di Mostar ricostruito, la Grecia e le regole del default. In viaggio tra caffè, dittature, letture ignorate.
Maybe I’ll go to Amsterdam / Or maybe I’ll go to Rome / And rent me a grand piano and put some flowers ’round my room / But let’s not talk about fare-thee-wells now / The night is a starry dome / and they’re playin’ that scratchy rock and roll / beneath the Matala Moon.
Joni Mitchell, Carey, 1971
Scendiamo dall’aereo questa volta, non più dal traghetto Brindisi-Igoumenitsa, e Atene non sembra davvero più la stessa. E non per via dei cortei che assediano il palazzo del governo, l’aumento dei mendicanti, i titoli dei giornali che strillano di default, troika, disoccupazione o delle atrocità di Alba Dorata. Atene non è più la stessa di quarant’anni fa quando, prima tappa verso l’India, era una meta obbligata per l’adepto del viaggio all’Eden, il mitico tragitto che menava a Kathmandu. Quarant’anni fa la Grecia era ancora in mano alla dittatura anacronistica dei colonnelli, che avevano dimissionato il re ed eretto uno Stato di polizia durato otto anni. Era un paese povero e sottomesso ma incredibilmente accogliente, come se i greci vedessero in quelle frotte di giovani col sacco in spalla una sorta di riscatto possibile: l’annuncio che l’Europa non si era dimenticata di loro.
Paese agricolo e incontaminato, intriso di una civiltà antica e fortemente ospitale, aveva il suo grande bazar ad Atene, città di servizi, sporca e caotica. Tutto fuorché affascinante, se si escludeva il Partenone, meta obbligata persino per chi considerava la Grecia solo un luogo di passaggio. I vialoni erano invariabilmente attraversati da lunghi striscioni con la scritta «Viva il 21 aprile», che si riferiva all’aprile del 1967, quando i militari avevano creato la «dittatura dei colonnelli», che loro chiamavano asetticamente «Giunta». Li osservavamo, quegli striscioni, durante le lunghe attese aspettando un passaggio in «stop», sgranocchiando il rosario dei nomi di paesotti che dovevamo attraversare per arrivare sino in Turchia: Kavala, Komotini, Alexandrupoli. Succhiavamo cetrioli e pomodori e stavamo scoprendo cos’era lo yogurt che da lì in avanti ci avrebbe stregato con quel sapore che, dai Balcani in poi, stupiva i nostri palati abituati a quelle creme industriali dolcificate che mammetta ci obbligava a sorbire. E che dire del caffè greco? «ένα καφε μητρίό παρακαλώ» (Ena kafe metrio parakaló) era la prima locuzione da imparare. In quelle estati torride il metrio (caffè zuccherato) era servito con un bicchier d’acqua ghiacciata che era una delizia, accompagnato da una Karelia, la marca di sigarette ovalizzate che costava meno. I nostri primi incontri con l’«...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. I. Il grande viaggio
  3. 1. Direct Orient
  4. 2. Alla periferia del Viaggio
  5. 3. La Porta d’Oriente
  6. 4. L’epopea di Chicken Street
  7. 5. Khyber Pass
  8. Digressione obbligatoria: la guerra afgana
  9. 6. Nella Terra dei puri
  10. 7. India 1
  11. 8. India 2
  12. 9. India 3
  13. 10. L’arrivo nell’Eden
  14. II. Strade collaterali, tra scoperta e turismo
  15. A oriente: il Sud-Est asiatico
  16. A oriente: isole nella corrente
  17. A occidente: il tè nel deserto marocchino
  18. Ancora più a occidente: sogno americano
  19. Epilogo
  20. Glossario
  21. Immagini