1. L’età: un criterio molto speciale
Nel 2009, l’ingegner Eugenio Borghetti creò un caso e accese un certo dibattito sul «Corriere della Sera». Pieno di energia e in ottima forma fisica – andava in bicicletta, in palestra, insomma stava benone – scrisse una lettera al giornale in cui raccontava la sua esperienza di settantenne che voleva rendersi utile agli altri. La cosa risultò impossibile: «Volevo donare il sangue: non posso... mi rispondono che dopo i sessant’anni il sangue non è più buono. Volevo lavorare sulle ambulanze: troppo anziano». Si iscrisse allora a un corso di volontari di base della Protezione civile, ottenne l’attestato e lo spedì alle varie sedi: nessuna risposta. Venne infine a sapere che per gli ultrasessantacinquenni non c’era niente, troppo vecchio per il volontariato. L’ingegnere ci rimase male: per la prima volta, a settant’anni, si era sentito «come uno che chiede l’elemosina»1.
«Che assurdità», commentò il giorno dopo sullo stesso giornale lo psicologo ottantatreenne Marcello Cesa Bianchi, intervistato da Giusi Fasano. «Purtroppo c’è la tendenza diffusa a credere che conti la questione cronologica più di quella fisica e psicologica. Non è così. Non esiste un modello standard legato a un’età. È assurdo anche solo pensarlo perché la variabilità individuale è notevolissima, come capisce chiunque». «E i regolamenti nei quali è incappato l’ingegnere monzese?», chiese la giornalista. «Sono due mondi che non si parlano», rispose Cesa Bianchi. «Da una parte c’è un numero crescente di persone che, come lui, hanno passato i sessanta-settanta e che vogliono sentirsi attivi, utili, che vogliono crescere, contribuire e imparare ancora. Dall’altra, la propensione a pensare che non siano in grado di farlo. Non è vero. La vecchiaia non è un destino predefinito, è un’avventura esistenziale da inventare. Si può essere creativi fino all’ultimo istante di vita».
Altri noti e meno noti lettori non più giovani si fecero sentire: Gillo Dorfles suggerì altre attività da fare nel tempo libero, Umberto Veronesi sostenne che «andare in pensione già a sessantacinque anni è come nascondere un patrimonio sotto il materasso», Gianfranco Finamore si chiese «perché bisogna per forza sentirsi utili?», mentre Salvatore Scargiali affermò che «l’energia degli anziani è superiore a quella di molti giovani». Vennero espresse posizioni diverse, unite però dal desiderio di affermare con forza che essere anziani non significa essere “una scarpa vecchia”, da buttare, e che l’età non può essere un criterio primario di valutazione.
Invece l’età è proprio un criterio di giudizio primario: pochi millisecondi sono sufficienti per identificare approssimativamente – magari in modo erroneo – l’età e il genere di un individuo. Queste prime informazioni vengono utilizzate per categorizzare le persone e come guida per il comportamento interpersonale. E gli stereotipi legati all’età sono ancora più potenti di quelli, già forti, legati al genere.
Questo libro parla di ageism, un termine inglese intraducibile che fa riferimento al pregiudizio e alla discriminazione basati sull’età. In generale, il pregiudizio si attiva nei confronti di persone appartenenti a una categoria2 diversa dalla propria (altra etnia, altro genere, altro orientamento sessuale, ecc.). L’età è una categoria molto particolare perché le persone cambiano la loro appartenenza categoriale nel corso del tempo e lo fanno involontariamente. La specificità dell’ageism, ciò che lo rende diverso da altre forme di pregiudizio, è il fatto che ogni essere umano lo può prima o poi subire, ne può diventare la vittima poiché colpisce durante diverse fasi del ciclo di vita. Il caso dell’ingegner Borghetti, appena citato, rappresenta un esempio di pregiudizio verso i più anziani. Ma l’ageism può riguardare anche i più giovani, compresi i bambini e gli adolescenti, e per questo motivo è stato definito come un fenomeno intergenerazionale (North e Fiske, 2011). Ogni fascia d’età è potenzialmente oggetto di un pregiudizio basato soprattutto – come cercherò di dimostrare – sulla premessa implicita che il prototipo dell’essere umano, l’esemplare che ne rappresenta al meglio le caratteristiche, è l’adulto di sesso maschile3. L’uomo adulto costituisce il termine di confronto, il punto di riferimento cognitivo rispetto al quale gli altri esseri umani sono considerati in qualche modo manchevoli, difettosi, insomma, imperfetti.
All’art. 3 della Costituzione italiana si legge: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Si noterà che l’età non è presa specificamente in considerazione, non si è pensato fosse necessario, nel 1947, indicarla come possibile fonte di disuguaglianza. Non c’è da stupirsi: non solo la politica, ma anche le scienze sociali hanno tardato a riconoscere che l’età può costituire un’importante prerogativa da cui emanano benefici o danni psicologici e sociali. Solo negli ultimi decenni studi su pregiudizi e stereotipi legati all’età compaiono a fianco di quelli legati all’etnia, al genere, alla nazionalità e all’orientamento sessuale se pur, ancora oggi, in misura minore.
La discriminazione, la segregazione e anche l’eliminazione fisica perpetrate in base all’età della vittima hanno invece una lunghissima storia. Nell’antichità, l’infanticidio era molto frequente. Nella Sardegna nuragica o nella Cantabria (Pittau, 1991) – e anche, in epoche meno remote, in alcune società come gli Inuit canadesi Takamiut, i Mataco del Gran Chaco boliviano o i Murngin australiani (Neuberg, Smith e Asher, 2000) – era pratica corrente sia uccidere che abbandonare i bambini, o i vecchi, o entrambi. In lotta perenne per la sopravvivenza, questi gruppi erano spinti dalla necessità di limitare il nutrimento a coloro che contribuivano maggiormente al lavoro fisico, erano in grado di sostentarsi e, al caso, di difendere se stessi e il gruppo dai nemici. L’ingombro di questi “pesi” era soprattutto sentito dalle popolazioni nomadi, per le quali la capacità di spostarsi autonomamente costituiva un’esigenza primaria. Al contrario, nella maggior parte delle società stanziali a tradizione orale, in cui era sentita la necessità di insegnare e tramandare conoscenze e cultura, gli anziani erano oggetto di rispetto reverenziale e di grande considerazione in virtù della loro saggezza e memoria storica. Nella nostra società, infine, dove si guarda più al futuro che al passato e dove la conoscenza e la trasmissione culturale si avvalgono in gran parte di strumenti tecnologici e informatici, gli anziani tornano a essere percepiti prevalentemente come un peso. Il loro sapere non conta più, appare obsoleto. Riaffiorano così vecchi pregiudizi e ne nascono di nuovi.
Fino a quando si è giovani, quando si diventa vecchi? I criteri e i pareri si diversificano: un demografo utilizzerà parametri differenti da uno psicologo, perché tali sono i loro punti di vista e le loro finalità. Inoltre, l’aspetto fisico, l’attività svolta, le abitudini di vita valgono da punto di riferimento per decifrare l’età e spesso contano più di un criterio meramente anagrafico. Lo stesso convenzionale criterio anagrafico, del resto, è mutato nel tempo in relazione alle aspettative di vita, cosicché, per esempio, il concetto di giovane si è assai allungato invadendo anche sfere che fino a qualche decennio fa erano considerate parte dell’età matura (Livi Bacci, 2008). Lo stesso può essere detto per l’anziano: oggi chi ha sessant’anni si sente, e giustamente, di mezza età perché i centenari abbondano. Si aggiunga che i giudizi sull’età cambiano in rapporto ai contesti di riferimento: se un giocatore di calcio è ritenuto anziano già a trentacinque anni, un senatore di quarant’anni è considerato giovane.
Secondo Neugarten (1968) le persone si creano aspettative piuttosto precise circa il timing degli eventi nel loro ciclo di vita, una specie di “orologio sociale” che dice loro se sono “in tempo” o “fuori tempo”. La percezione di essere fuori tempo – ossia di agire, sentirsi e pensare in modo discordante rispetto alla propria età anagrafica – provoca uno stato di malessere poiché abbassa il livello di autostima. Effetti simili possono manifestarsi quando si crea una discrepanza tra i tempi in cui ci si aspetta che accadano determinati fatti e i tempi in cui questi si realizzano. Varie ricerche hanno riscontrato, per esempio, che una donna che diviene nonna anzitempo, così come una persona che perde prematuramente un genitore, manifestano livelli più alti di stress rispetto a coloro che vivono le stesse esperienze quando se le aspettano.
L’età appare come una prerogativa di primaria importanza non solo nella percezione degli altri, ma anche nella valutazione di se stessi, poiché è uno dei fattori che la gente usa per differenziarsi dagli altri e stabilire a quale categoria appartiene. Si definisce come age identity – in italiano identità legata all’età – quella parte del concetto di sé che è legata all’appartenenza a una determinata categoria di età. Per decidere quale sia la propria categoria di appartenenza si considerano generalmente tre dimensioni dell’età (Montepare e Zebrowitz, 1998): una più strettamente psicologica (percezioni in merito alle proprie abilità cognitive e motivazioni a imparare cose nuove), una fisica (percezioni circa la propria apparenza e salute) e una sociale (percezioni riguardanti le proprie attività sociali, i propri interessi e il trattamento che gli altri ci riservano). A seconda di come si percepiscono rispetto a queste tre dimensioni, le persone hanno più o meno desiderio di rimanere in una determinata fase della vita o di abbandonarla. Per esempio, si è visto che i giovani con un’identità di età psicologica e sociale più vecchia hanno – rispetto agli altri coetanei – un maggior desiderio di abbandonare il loro gruppo di età e di passare a quello successivo perché si aspettano che comporterà maggiori responsabilità, libertà personale e autonomia. Variazioni culturali nell’ambito di queste aspettative possono spiegare perché in certi paesi (come gli Stati Uniti) siano maggiormente incoraggiate l’acquisizione di autonomia e fiducia in se stessi a differenza di altri paesi (come il Giappone). Tornerò su questa distinzione in riferimento all’Italia.
A livello teorico, e non solo, è poi importante distinguere i gruppi di età dalle generazioni. Una generazione non è accomunata solo dall’età, ma anche dal fatto che i suoi membri hanno vissuto le stesse condizioni di socializzazione e gli stessi eventi storici (Mannheim, 1952). Per esempio, le persone nate nel secondo dopoguerra, tra il 1945 e il 1964 – i cosiddetti baby boomers – stanno ora entrando a far parte della categoria degli anziani, ma per la loro esperienza e la loro storia presentano caratteristiche, atteggiamenti e comportamenti in parte diversi da quelli degli anziani che li hanno preceduti. L’essere cresciuti in un periodo di sviluppo economico e aver poi vissuto, in modo diretto o indiretto, l’esperienza del Sessantotto, degli anni di piombo, e così via, li ha profondamente segnati e differenziati rispetto ai propri genitori, cioè alla generazione che ha vissuto la guerra. Certi stereotipi, certi pregiudizi possono riguardare non genericamente una classe di età – i più anziani – ma essere collegati alla specifica generazione che in quel momento la rappresenta.
Tutte queste differenze, in rapporto a criteri, contesti e generazioni, rendono il discorso sui pregiudizi collegati all’età estremamente complesso, poiché non è possibile una delimitazione universalmente condivisa delle classi d’età che dei pregiudizi costituiscono il bersaglio. Una recente ricerca (Abrams, Vauclair e Swift, 2011) ha analizzato quali siano le classi d’età a cui le persone fanno riferimento per definire giovani e vecchi. Si tratta di uno studio molto importante per il nostro tema – vi farò riferimento spesso – perché ha preso in esame gli atteggiamenti verso l’età, in particolare verso la tarda età, basandosi su un campione rappresentativo delle persone con più di quindici anni di ventotto Stati europei (purtroppo l’Italia non è tra questi)4. Ebbene, da questa indagine è emerso che mediamente gli intervistati collocano a sessantadue anni l’inizio della vecchiaia e poco sotto i quarant’anni la fine della giovinezza. Tuttavia, i confini tra le età cambiano in modo sostanziale da un paese all’altro. Per esempio, per i norvegesi si è giovani fino a trentaquattro anni, mentre per i greci fino a cinquantadue; in Turchia l’inizio della vecchiaia è posto mediamente a cinquantacinque anni, mentre in Grecia a sessantotto. Questa ricerca ha anche confermato un fenomeno già altre volte rilevato: la percezione circa i confini tra le classi d’età varia in relazione all’età della persona intervistata. Più precisamente: tanto più le persone invecchiano, tanto più tendono a spostare avanti nella vita la fine della giovinezza e l’inizio della vecchiaia.
Tutti questi scostamenti, attribuibili alle differenze individuali, alla cultura, alle abitudini di vita e forse anche alla lingua, mettono in luce come qualsiasi classificazione sia opinabile. Inoltre, l’età è una variabile continua e, come tale, ridurla a un insieme di categorie è del tutto arbitrario. Le categorie, infatti, non sono neutre: come hanno illustrato egregiamente vari esperimenti in psicologia sociale (a partire da Tajfel e Wilkes, 1963), l’uso delle categorie spinge a sottovalutare le differenze interne a ciascuna categoria e a sopravvalutare le differenze tra di loro. Per esempio, se definisco “anziani” coloro che hanno superato i sessant’anni, tenderò impropriamente a considerare chi ha sessantadue anni più simile a una persona di settanta che a una di cinquantanove. Tuttavia le categorie – con i limiti di cui si è detto e di cui invito chi legge a tenere conto – ci facilitano la vita perché riducono la complessità e, in questo caso, rendono più comprensibile il ragionamento che intendo fare. Pertanto non mi voglio sottrarre a una, se pur flessibile, ripartizione sebbene sia consapevole della sua arbitrarietà. In questo libro, considerando adulti coloro la cui età è compresa tra i trentacinque e i sessantacinque anni, definirò più giovani coloro che sono al di sotto di questa fascia d’età e più anziani coloro che ne sono al di sopra. In queste tre categorie – che corrispondono grosso modo alla visione tripartita del ciclo di vita che le persone comunemente hanno – possono essere individuati diversi sottotipi che presentano caratteri specifici e nei confronti dei quali esistono aspettative sociali (e pregiudizi) differenti. Prenderò quindi in considerazione questi tre gruppi d’età, le sottocategorie relative e le attuali relazioni tra queste, ovvero gli atteggiamenti e i comportamenti intergenerazionali.
1 Cfr. «Corriere della Sera», 12 giugno 2009.
2 In questo testo userò i termini categoria e gruppo in maniera interscambiabile, non ripetendo ogni volta entrambi, per evitare eccessive lungaggini ma ben consapevole del fatto che i due costrutti non sono equivalenti.
3 Tutte le persone che hanno raggiunto la maggiore età sono considerate adulte. Per semplicità, però, mi riferirò ai giovani adulti come giovani, alle persone di età intermedia come adulti e a quelli che l’hanno superata come anziani.
4 La ricerca è stata effettuata elaborando dati raccolti dall’European Social Survey (quarta tornata, 2008). Il campione era composto da circa cinquantacinquemila persone.