1786. La riforma «criminale» di Pietro Leopoldo
di Giuseppe Ricuperati
Ogni titolo giustificato da un evento esemplare e destinato a segnare non solo il suo tempo ma anche i successivi sottintende alcuni problemi che è compito dello storico esplicitare. Scomponiamolo nei suoi elementi. Il primo tratto è una data, che si potrebbe a sua volta rendere precisa, definendo il mese e il giorno della promulgazione, 30 novembre 1786. Era un anno – per l’Europa – senza guerre rilevanti, ma non privo di inquietudini, soprattutto a Est, dove si delineavano tensioni fra l’Impero asburgico e quello ottomano. Firenze, la capitale del Granducato di Toscana, era una città che oscillava demograficamente fra i sessantacinque e i settantamila abitanti, secondo i calcoli di un illuminato religioso, Marco Lastri, che si dedicava alla statistica, destinata ad essere una passione del secolo. Egli aveva preso il posto di Giovanni Lami nella direzione di uno dei più significativi giornali italiani e toscani del Settecento: le «Novelle Letterarie». Un notevole diarista come Giuseppe Pelli Bencivenni, che ci ha lasciato una cronaca quotidiana ricchissima, intelligente e qualche volta un po’ ossessiva, aveva colto l’importanza dell’evento, connesso alla pubblicazione della legge, qui definita riforma «criminale» e forse più nota come Leopoldina. Tre termini meritano attenzione perché hanno una lunga e articolata storia alle spalle. Il primo è quello di «riforma», che un Maestro degli studi sull’Illuminismo come Franco Venturi considera come uno dei luoghi essenziali dei Lumi. Riforma è una parola importante, a lungo scritta con la lettera maiuscola, per sottolineare una svolta significativa che spezzava la Res publica christiana europea, non come un’eresia qualunque, magari fortunata e per un momento capace di trovare proseliti, come i movimenti religiosi del Due e Trecento, dai catari alle beghine, ma tale da creare una nuova geografia dell’Europa, ormai divisa in confessioni, un’articolazione territoriale definita e separante. Ma il termine si era secolarizzato fra Sei e Settecento, diventando sinonimo di ogni processo di trasformazione, quindi non molto lontano, anche se diverso, da Rivoluzione, che, derivando dall’astronomia, faceva ancora pensare ad un ciclo con un’andata e un ritorno, ma anche a un mutamento, come avevano rivelato opere di pubblicisti del Seicento, che avevano parlato delle rivoluzioni di Napoli, di Palermo, della Catalogna.
Per un lungo tratto le parole Riforma, Rivoluzione e Rinascita avevano avuto un elemento comune che merita di essere sottolineato: erano metafore del mutamento e insieme segnali di eventi straordinari. Con la crisi della coscienza europea e con il Settecento il termine riforma si era secolarizzato e differenziato da quello di rivoluzione. Era diventato plurale. Le riforme erano processi che il potere realizzava per cambiare qualcosa che ormai appariva anacronistico, sbagliato, inadeguato come risposta al problema. Il caso della Leopoldina appare uno dei più significativi in Europa. Un sovrano fra i più colti – e anche fra i più grafomani – esponente di quel modello sempre sfuggente e difficile da identificare in pochi tratti che è l’assolutismo illuminato, aveva deciso che era ora di cambiare il sistema della giustizia, tenendo conto di alcuni grandi riferimenti europei, a partire da quelli cui era stato educato, dal giusnaturalismo seicentesco, alla sua mediazione verso il Settecento che nasce quando Grozio, Pufendorf e Cumberland vengono tradotti in francese da Jean Barbeyrac. Il giovanissimo Pietro Leopoldo, un secondogenito per qualche lustro del tutto lontano dall’idea di diventare granduca di Toscana, era stato educato dal trentino Carl’Antonio Martini, un giurista che aveva rappresentato una variante giusnaturalistica più moderna rispetto a quella cui era stato formato dai gesuiti – tramite i testi latini dello stesso Pufendorf – il fratello Giuseppe. Per esemplificare in modo sommario la differenza, il testo latino del De officio hominis et civis secundum legem naturalem libri duo, parlava esclusivamente di sudditi e dei loro diritti e doveri, mentre Barbeyrac aveva allargato la traduzione facendo diventare quelli che per Pufendorf erano ancora soggetti cittadini a pieno titolo: un salto di qualità che avrebbe aperto il discorso agli autori dell’Illuminismo, da Mably a Rousseau. Questa formazione, non condizionata fin dal principio da un destino immediato di responsabilità politica, fece sì che Pietro Leopoldo giungesse a conoscere gran parte della letteratura politica dell’Illuminismo, da Locke, a Montesquieu, a Rousseau, a Beccaria. Quest’ultimo a sua volta aveva fatto una lettura intensissima del Ginevrino, sviluppandone l’altro polo dei Lumi, l’utopia, attraverso una rivoluzione del diritto di punire. Non è facile capire se Pietro Leopoldo conoscesse direttamente l’opera di Gaetano Filangieri, La scienza della legislazione, uscita fra il 1780 e il 1783, a ridosso della Le...