Filosofia della comunicazione
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Filosofia della comunicazione

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Filosofia della comunicazione

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Che cosa deve essere il linguaggio per essere realmente comunicazione.Perché comunichiamo e perché dobbiamo – se dobbiamo – comunicare.L'eterogenea complessità del problema della comunicazione nelle discipline filosofiche essenziali, in un efficace strumento introduttivo che approfondisce le questioni centrali e fa emergere nuove brillanti soluzioni.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117651

III. Capire e farsi capire: pragmatica

di Claudia Bianchi

1. Azzardi della comunicazione

Al bar, sorseggiamo un caffè. Ascoltiamo distrattamente la conversazione di due amici al tavolo vicino:
Lei: «Beh?»
Lui: «È finita».
Ora siamo a casa; sorseggiamo un caffè e distrattamente guardiamo in tv la nostra soap opera preferita. Due amici conversano al tavolo di un bar:
Lei: «Come è andato l’incontro di ieri di Ridge con Brooke, sua promessa sposa ma incinta di suo fratello Nick?»
Lui: «Brooke ha deciso che non sposa più Ridge, e sta pensando seriamente di sposare Nick. La loro relazione è finita».
Certo, nel secondo caso ci è più facile capire che cosa si stiano dicendo i due interlocutori: ma perché il dialogo ci sembra così artificioso? La ragione è che la comunicazione (quella reale) è generalmente un’impresa assai rischiosa, che conduciamo in stretta collaborazione con i nostri interlocutori e che, malgrado l’apparenza di estrema facilità, richiede una complicità e un’attività di coordinazione straordinarie. Le soap non corrono grandi rischi. Il telespettatore più infedele è sempre messo nelle condizioni di ritrovare il filo della vicenda, al prezzo di dialoghi estenuanti: ripetitivi, ridondanti, innaturalmente espliciti (oltre che, certo, deliziosamente kitsch).
Quando parliamo ci guardiamo bene dallo specificare tutto. Quello che diciamo è spesso incompleto, ellittico, a volte oscuro o ambiguo, ricco di deittici (espressioni come ‘questo’ o ‘quello’, o ‘lui’ e ‘lei’, con cui facciamo riferimento a un’estrema varietà di oggetti), quasi sempre accompagnato da gesti, sguardi, pause e intonazioni che chiariscono le nostre parole; quello che comunichiamo è in larga misura implicito. Eppure anche le conversazioni di tutti i giorni sono rette da meccanismi, regolarità, strategie comunicative, sistemi di aspettative che soccorrono il povero spettatore privo del riassunto delle puntate precedenti che noi tutti siamo in molte delle nostre interazioni linguistiche quotidiane. La pragmatica è quella parte dello studio generale del linguaggio che si occupa di svelare i meccanismi comunicativi, di portare alla luce regolarità e strategie, di analizzare i complessi sistemi di aspettative che rendono possibile la comunicazione.
Per cominciare cercheremo di mettere in discussione la concezione tradizionale della comunicazione come processo di codifica e decodifica di messaggi, e suggeriremo che essa è invece essenzialmente espressione e riconoscimento di intenzioni. A quello tradizionale opporremo un modello alternativo di comunicazione che, spostando l’attenzione sull’uso del linguaggio in concrete situazioni comunicative, piuttosto che sulle sue proprietà astratte e formali, ne sottolinea la pluralità di dimensioni. Innanzitutto la dimensione sociale. Verrà evidenziata la varietà degli usi discorsivi delle frasi dei linguaggi naturali: affermazioni, ordini, domande, richieste, promesse, divieti, e così via. In tale prospettiva parlare significa agire: ogni frase serve a compiere un atto regolato da consuetudini sociali più o meno complesse, e a volte perfino da norme di carattere istituzionale. Accanto alla dimensione sociale del linguaggio, ne verrà messa in luce la dimensione inferenziale. La produzione e la comprensione linguistica fanno appello a conoscenze che non sono meramente linguistiche: chi parla, al fine di farsi comprendere, e chi ascolta, al fine di comprendere, sfrutta informazioni derivate dall’ambiente fisico, dalla conversazione sin lì svolta, ma anche da quell’insieme di conoscenze, ipotesi, credenze, pregiudizi, aspettative che ciascuno condivide con i propri interlocutori. Tali informazioni costituiscono le premesse di processi inferenziali, in cui i soggetti utilizzano capacità razionali generali, non specifiche al linguaggio, e presuppongono la razionalità dei loro interlocutori. Infine la dimensione cognitiva. La questione dell’interpretazione del comportamento linguistico dei nostri interlocutori si lega indissolubilmente a quella dell’interpretazione del loro comportamento in generale, dei modi in cui effettivamente otteniamo, processiamo, organizziamo e trasmettiamo l’informazione, e in ultima analisi dei modi in cui costruiamo e modifichiamo la nostra rappresentazione del mondo. Verranno indicate le direzioni di ricerca più stimolanti e originali verso le quali si muove una disciplina che intreccia sempre più il proprio cammino con la psicologia, le scienze cognitive e i modelli di rappresentazione e di elaborazione dell’informazione. In chiusura, ci soffermeremo brevemente sulla sottodeterminazione del contenuto esplicito della comunicazione: i fenomeni di dipendenza contestuale sembrano presenti anche al livello di ciò che è espresso letteralmente da un enunciato. Verranno presentate due concezioni alternative: la prospettiva ‘letteralista’ e la prospettiva ‘contestualista’. Dall’esame critico delle posizioni in gioco emergerà un punto di vista inedito sulla comunicazione – concepita ora come un processo di collaborazione. Il parlante sfrutta uno sfondo di informazioni condivise con il destinatario, di cui la conoscenza delle regole del linguaggio (la conoscenza del codice) costituisce solo una parte, solo un insieme di indizi che si pone sullo stesso piano degli elementi contestuali: l’elemento chiave per la comunicazione verrà individuato nella coordinazione fra interlocutori.

2. Codice, intenzioni, inferenze: parole e parlanti

La comunicazione viene tradizionalmente concepita come un processo che mette in gioco due dispositivi di trattamento dell’informazione: il meccanismo di emissione modifica l’ambiente fisico del meccanismo di ricezione per far sì che quest’ultimo costruisca rappresentazioni simili a quelle immagazzinate dal primo meccanismo. In particolare, nella comunicazione verbale, il parlante P apporta delle modifiche all’ambiente acustico del destinatario D – in modo che D formi pensieri o rappresentazioni mentali simili a quelli di P. Ma in che modo uno stimolo fisico, che non ha alcuna somiglianza con la rappresentazione mentale di P, può provocare la somiglianza delle rappresentazioni di P e D? La risposta tradizionale – da Aristotele (che la concepiva per la comunicazione orale) ai semiotici contemporanei (che l’hanno estesa a ogni forma di comunicazione) – è il cosiddetto modello del codice: la comunicazione consiste nella codifica e decodifica di messaggi. È perché due soggetti condividono un medesimo codice che essi possono comunicare, stabilendo una corrispondenza fra messaggi interni al soggetto (pensieri o rappresentazioni mentali) e segnali esterni (ad esempio le frasi di una lingua). Gli enunciati di una lingua corrispondono ai segnali esterni: le parole permettono a P di rendere il proprio pensiero accessibile agli altri.
In queste pagine vedremo che gli studiosi di pragmatica si oppongono al modello del codice. Sosterremo che la rappresentazione semantica di una frase (la sua codifica) spesso non coincide affatto con i pensieri che possono essere espressi proferendo quella frase: il significato convenzionale delle frasi utilizzate da un parlante determina in modo solo incompleto ciò che il parlante può dire con quelle frasi in concrete situazioni comunicative. Vediamo meglio in che senso.
La semantica viene tradizionalmente concepita come lo studio del significato convenzionale delle espressioni e delle frasi di una lingua – del loro significato a prescindere dalle circostanze in cui esse sono utilizzate da parlanti specifici. In quest’ottica le teorie semantiche sono fondate su tre tesi:
a. il significato delle frasi di una lingua è determinato completamente dalle regole sintattiche e dalle convenzioni semantiche della lingua;
b. le frasi hanno la funzione di rappresentare stati di cose del mondo;
c. il significato convenzionale di una frase è dato dall’insieme di condizioni di verità della frase – le condizioni che il mondo deve soddisfare perché la frase ne costituisca una descrizione appropriata, e sia vera.
Conoscere il significato di una frase significa allora sapere come deve essere fatto il mondo perché la frase sia vera, sapere in quali casi essa descrive correttamente il mondo, e in quali casi no.
E tuttavia, contrariamente a quanto sostiene la tesi a, la sola conoscenza delle convenzioni semantiche di una lingua non è sufficiente a determinare qual è lo stato di cose rappresentato da una frase: il contenuto proposizionale di una frase (il pensiero espresso da una frase ben formata dell’italiano, le sue condizioni di verità) non sempre è fissato completamente e univocamente dalle convenzioni semantiche. Anche la tesi secondo cui le frasi di una lingua hanno la sola funzione di descrivere stati di cose (la tesi b) non è plausibile: una volta completato e disambiguato il contenuto proposizionale di una frase, le convenzioni semantiche non fissano il tipo di atto linguistico che il parlante può compiere proferendo quella frase. Mostreremo che le obiezioni alle tesi fondanti a e b fanno emergere la necessità di un’integrazione della competenza semantica con quella pragmatica, delle conoscenze linguistiche con quelle enciclopediche, o contestuali.
Esaminiamo qualche esempio che sembra avvalorare le critiche alla tesi a. Abbiamo affermato che, per determinare ciò che viene detto da un parlante P, per stabilire cioè a quale stato del mondo P faccia riferimento, è necessario completare in vario modo il contenuto delle espressioni utilizzate da P. Bisogna innanzitutto fissare il riferimento di espressioni indicali e dimostrative, come in
(1) Questo è mio
(a quale oggetto si riferisce P con l’espressione ‘questo’?). È necessario poi risolvere l’ambiguità di espressioni omonime, come in
(2) Troppo calcio fa male alla salute
(P sta parlando di sport o di dieta?); e ancora si deve assegnare l’interpretazione appropriata a espressioni polisemiche come in
(3) Adoro Umberto Eco
(P si riferisce all’individuo o alle sue opere?); infine è spesso opportuno restringere il dominio dei quantificatori: in
(4) È un locale alla moda: ci vanno tutti,
P, con il quantificatore ‘tutti’, sta evidentemente facendo riferimento alla totalità non degli esseri umani ma degli individui appartenenti a un gruppo determinato contestualmente.
Ci sono poi casi più complessi, come i fenomeni di bridging: in
(5) Ho comprato una macchina usata. I sedili sono sfondati,
ciò che è detto deve essere arricchito con l’informazione che i sedili della macchina che ho comprato sono sfondati – informazione che non viene letteralmente espressa da (5); o i casi di transfert, come
(6) L’ulcera è stata dimessa
in cui bisogna determinare contestualmente il riferimento dell’espressione ‘l’ulcera’ (il paziente o la malattia?). E infine quanto detto letteralmente con l’enunciato
(7) Vorrei del caffè
proferito in un bar deve essere integrato con l’informazione che P ha espresso il desiderio di una sostanza liquida e non in grani (naturalmente le cose andrebbero altrimenti se P avesse proferito (7) in una torrefazione), non gelida (ma d’estate l’interpretazione potrebbe essere differente) bensì calda (ma non con una temperatura prossima al punto di fusione), posta in un contenitore e non versata sul bancone, in quantità ragionevole (non una goccia ma nemmeno tre litri) e dopo un tempo altrettanto ragionevole (preferibilmente non dopo tre giorni). Sintassi e semantica, da sole, non permettono di determinare le condizioni di verità di (1)-(7): la conoscenza del significato (o dei significati) delle parole contenute nelle frasi esaminate e dei modi in cui esse sono combinate non è sufficiente per individuare quale stato di cose il parlante stia descrivendo. È necessario possedere conoscenze che riguardano il mondo, e non il linguaggio – conoscenze enciclopediche (o pragmatiche) e non semantiche o sintattiche.
Passiamo ora ad esempi che costituiscono un’obiezione alla tesi b. Supponiamo di aver determinato e opportunamente completato o arricchito il contenuto espresso da un certo enunciato: sarà ancora necessario stabilire quale atto linguistico ha compiuto il parlante che si è servito di quell’enunciato. Non tutti gli enunciati, infatti, vengono usati per descrivere stati del mondo: per fare solo un esempio,
(8) La porta è aperta
può sì essere una semplice asserzione, ma in circostanze particolari verrà utilizzato come richiesta (di chiudere la porta), come invito (a entrare o a uscire), come sfida (ad andarsene oppure a restare), come avvertimento (qualcuno potrebbe sentire), come promessa (di accogliere l’interlocutore in ogni momento), e così via.
E anche una volta fissato il contenuto esplicito dell’enunciato, e l’atto linguistico compiuto dal parlante, è spesso necessario determinare ciò che il parlante intende comunicare implicitamente usando quell’enunciato. Dobbiamo ad esempio stabilire se P, proferendo
(9) Giovanni è solo un bambino,
stia facendo un’affermazione letterale (Giovanni ha sette anni) o metaforica (Giovanni si comporta in modo infantile); o determinare che cosa P ci voglia dire proferendo, di fronte al nostro nuovo gatto,
(10) È un siamese!
Il significato convenzionale di una frase spesso non coincide con i pensieri che un parlante può esprimere esplicitamente proferendo quella frase, né tantomeno comunicare implicitamente: in contesti opportuni, usando (10) un parlante può comunicare tanto il pensiero ‘Adoro il tuo gatto’ quanto il pensiero ‘Detesto il tuo gatto’ (per un approfondimento delle obiezioni alle tesi a e b, cfr. Bianchi 2003).
Sono allora i parlanti a comunicare, e non le parole. Contro le tesi a e b, non sono le frasi a rappresentare stati di cose, ma i parlanti a servirsi di enunciati (frasi proferite in contesti determinati) per compiere uno dei tanti atti linguistici a nostra disposizione: asserire, ordinare, domandare, avvertire, invitare, promettere, e così via. È questo che rende la comunicazione un’impresa rischiosa: non si tratta, o non si tratta solo, di decifrare messaggi codificati completamente in un sistema di segni condiviso come una lingua naturale (l’italiano, nel nostro caso). Nelle pagine che seguono, la comunicazione verrà caratterizzata piuttosto come espressione e riconoscimento di intenzioni: per usare una metafora paradossale entrata recentemente in voga, comunicare coinvolge un’attività di lettura del pensiero. Naturalmente non possiamo individuare direttamente le intenzioni comunicative dei nostri interlocutori – non possiamo letteralmente ‘leggere nel pensiero’ di chi parla; e tuttavia possiamo riconoscere tali intenzioni grazie a fattori esterni, come le parole e i gesti, e il contesto in cui si svolge la conversazione.
Anticipiamo la tesi generale qui difesa analizzando esempi contenenti espressioni dimostrative (‘questo’, ‘quello’, ‘quel gatto’). Come accennato, si tratta di espressioni che hanno un riferimento solo in un dato contesto, e con le quali un parlante può riferirsi a oggetti diversi in contesti diversi. Scegliamo questo tipo di esempi perché la connessione fra espressione e referente è particolarmente evidente nel caso dei dimostrativi, pubblica, accessibile alle nostre intuizioni. Per assicurarsi che il destinatario riconosca l’intenzione (referenziale) associata all’espressione dimostrativa, il parlante si fonda su tre tipi di informazione condivisa.
1. In primo luogo, il contesto extralinguistico più immediato, l’ambiente fisico accessibile a parlante e destinatario. Il parlante può ut...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. I. Combinare espressioni: sintassi
  3. II. Afferrare pensieri: semantica
  4. III. Capire e farsi capire: pragmatica
  5. IV. Analizzare testi: semiotica
  6. V. Interpretare discorsi: ermeneutica
  7. VI. Persuadere: retorica
  8. VII. Conoscere attraverso parole: epistemologia
  9. Bibliografia
  10. Gli autori