Appendici
1.
Aristillo «a bocca socchiusa»
(Parte seconda, cap. V)
Per le Ecclesiazuse la superstite annotazione antica è davvero poca cosa. Le tre commedie femminili, assenti nel Marciano gr. 474, furono oggetto di minori cure. C’è un abisso tra queste note quasi inesistenti e le masse di note accumulatesi in più ondate – come vedremo – sullo studiatissimo Pluto. L’unica notazione, presente nel manoscritto Ravennate, a proposito di Aristillo è telegrafica: αἰσχροποιὸς οὗτος («costui era autore di nefandezze»). Qui giova ricordare che αἰσχροποιός serba, per esempio nell’invettiva di Giasone contro Medea nel finale della Medea (v. 1346) il suo valore generico di «autore di nefandezze» (così Giasone definisce Medea, che ha appena ucciso i figli).
L’altra nota, anch’essa presente nel Ravennate, riguarda la pianta di menta tirata in ballo per indicare il cattivo odore (alito) di Aristillo, e precisa che, se bruciata, giova a scacciare i serpenti.
Tutt’altra la situazione per quel che riguarda il Pluto. Ci sono tre strati di annotazioni:
a) gli scolii ‘antichi’ (scholia vetera), presenti nel Ravennate e nel Veneto;
b) la massa di note, autografe, elaborate da Giovanni Tzetzes (XII secolo) certo sulla base di materiali più antichi: sono state identificate due distinte redazioni di questo imponente corpus di note;
c) le annotazioni molto più recenti, di origine umanistica.
Sappiamo che il Pluto è una commedia privilegiata per la cura che vi dedicarono l’antica erudizione e l’antica esegesi. Per Aristillo però sapevano ben poco, elucubravano sulle parole che trovavano nel testo. Per dipanare questa selva e coglierne il crescit eundo, conviene dar conto distintamente dei tentativi di spiegazione seguendo la stratificazione, accertata, dell’intero materiale.
La premessa è – come sappiamo – che il bersaglio principale del parodico contrasto tra Carione e il coro dei contadini (modellato sul ditirambo di Filosseno) è la celebre cortigiana Laide, installatasi a Corinto con il ricchissimo e deforme Filonide. Lo scherzo consiste nell’immaginare che Laide, come l’omerica Circe, trasformi in maiali gli uomini che cadono in suo potere. Laide sta con Filonide unicamente per il suo denaro: per Carione la liberazione di Pluto dalla cecità è premessa per una sperata cuccagna, donde l’esaltazione ‘gaglioffa’ del caso Laide. Carione minaccia grottescamente i contadini di far loro ciò che fa Circe alle sue vittime, e di trasformarli perciò in porci che andranno grugnendo la frase «seguite la madre, porcelli!» (v. 308). Il coro reagisce con minacce ancora più grottesche: lo appenderanno, gli tapperanno il naso con sterco e sarà allora lui a dire, come Aristillo, «seguite la madre, porcelli!» (v. 315). Perché, ancorché appeso e immobilizzato in quel malo modo, Carione debba pronunciare a sua volta quella esortazione, non è del tutto chiaro. Né gli scolii lo spiegano.
Gli scolii ‘antichi’ commentano l’esortazione ai «porcelli» al verso 308: «Dicono che questo sia un proverbio. Infatti i ragazzi usano dire questa frase». Oppure: «Questo è un proverbio e dicono che sia riferito agli ignoranti». E ulteriormente chiariscono che «seguite la madre» sta per «seguite me».
Gli scolii di Giovanni Tzetzes (1110-1185), densi di dottrina, ci sono giunti sui margini di manoscritti meno prestigiosi, ma non meno rilevanti, del Ravennate. E se ne possono distinguere due redazioni, l’una rappresentata soprattutto dal Vaticano Urbinate greco 141, l’altra dall’Ambrosiano C 222 inf. e dal Parigino Supplément Grec 655. Tzetzes sa molto sul ditirambo di Filosseno e sulla storia di Laide. Al verso 308 (esortazione ai porcelli) commenta:
a) «Si tratta di un proverbio che si suole dire a proposito degli ignoranti (ἐπὶ τῶν ἀπαιδεύτων)»;
b) «È un proverbio detto a proposito degli ignoranti, e cioè: i simili coi simili, i ragazzi coi genitori e gli allievi coi maestri».
Gli ‘scolii più recenti’, cioè quelli del cosiddetto Corpus Thomanum-Triclinianum, attribuiti cioè a Tomaso Magistro e a Demetrio Triclinio, conservati in molti manoscritti di XIV-XV secolo, commentano l’esortazione ai porcelli non al verso 308, ma al 315. Si tratta in questo caso di un manoscritto Ambrosiano della metà del XV secolo (L 41 sup.), che annota: «Questo era un proverbio frequente presso i poeti (λεγομένη παρὰ τοῖς ποιηταῖς), quando alcuni ignoranti seguono un ignorante». Il termine adoperato è sempre ἀπαίδευτος / ἀπαίδευτοι.
Ma sul significato del proverbio c’erano anche altre spiegazioni. Nell’Appendix Proverbiorum (Centuria II) il proverbio effettivamente c’è, ma la spiegazione è un’altra: «Lo si dice a proposito di coloro che seguono altri in modo adulatorio per farsi mantenere».
A favore dell’interpretazione proposta dagli scolii antichi e da Tzetzes, e contro quella dell’Appendix, si può fare riferimento al detto «il porco ad Atena» (ὗς τὴν Ἀθηνᾶν), espressione proverbiale che stigmatizza l’ignorante che vuol istruire chi sa. «Sus Minervam – spiega Festo – in proverbio est, ubi quis id docet alterum, cuius ipse inscius est» (ed. Lindsay, p. 408). La forma greca è attestata da Plutarco nei Precetti politici (803D) nel famoso aneddoto sulla sprezzante risposta di Demostene a Demade che osava correggerlo. E da Teocrito (Idillio 5, 23): «Una volta il porco si mise a gareggiare con Atena etc.».
Sul possibile nesso tra la forma proverbiale segnalata dagli scolii (e variamente interpretata) e il detto Sus Minervam si avventurò Charles Girard (Carolus Girardus) nel suo commento (Parisiis 1549): «Olim ἕπεσθε μητρὶ χοῖροι proverbiali tropo de iis dicebatur, qui indocti ipsi indoctos sequebantur; propterea quod sus Minervae opponitur».
A questo punto possiamo considerare, altrettanto stratigraficamente, le note riguardanti Aristillo. Ricordiamo che negli scolii alle Ecclesiazuse l’unica notizia (in realtà una generica illazione dal testo) è: αἰσχροποιός. Gli scholia vetera al Pluto, presenti nel Marciano, nell’Ambrosiano L 39 sup. e in vari altri codici, danno una spiegazione che forse ha deluso le aspettative dei moderni, infatti è stata del tutto accantonata: «Aristillo, poeta infame (αἰσχρὸς ποιητής) e che stava a bocca aperta [κεχηνώς, ma in realtà il testo di Aristofane dice ὑποχάσκων, che significa «con le labbra socchiuse»] nella sua attività poetica (ἐν ταῖς μουσουργίαις), o – come altri dicono – che veniva criticato per la sua ignavia (ἐπὶ μαλακίᾳ διεβάλλετο)».
Gli stessi codici presentano qui anche un altro lemma: «Aristillo, turpe poeta che per la sua turpitudine stava sempre a bocca aperta».
Il Veneto, l’Ambrosiano e altri aggiungono poi una annotazione sintomatica del processo di costruzione arbitraria: «Di lui [= Aristillo] fa cenno (scil. Aristofane) nelle Ecclesiazuse definendolo [sic!] αἰσχροποιός». Come sappiamo, invece, quel termine non figura nel testo delle Ecclesiazuse (v. 647 e contesto), ma è la parola con cui lo scoliaste se l’è cavata di fronte all’ignoto Aristillo (αἰσχροποιὸς οὗτος). A partire da questa base fallace i moderni s...