Contro il non profit
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Contro il non profit

  1. 192 pagine
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Contro il non profit

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Come una teoria riduttiva produce informazioni confuse, inganna l'opinione pubblica e favorisce comportamenti discutibili a danno di quelli da premiareCome una teoria riduttiva produce informazioni confuse, inganna l'opinione pubblica e favorisce comportamenti discutibili a danno di quelli da premiare.Che cosa hanno in comune un'università non statale e un doposcuola in quartieri degradati? Un centro fitness e un'organizzazione sportiva per disabili? Un pub e una mensa per i poveri? Una clinica religiosa e un'associazione di volontariato sanitario? Per tutti è ovvio che siano organizzazioni preziose perché non distribuiscono utili, favoriscono la coesione sociale e rispondono ai bisogni dei più deboli. Il loro contributo all'interesse generale, però, non è scontato. Una teoria difettosa ha infatti unito in un insieme magmatico iniziative della massima utilità sociale, altre genericamente positive e altre che utilizzano a fini propri l'alone di benemerenza di cui questo insieme gode.Giovanni Moro fornisce una prospettiva critica su questa realtà, sempre più importante ma conosciuta poco e male.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858111475

1. Una dichiarazione di intenti

1. Genus turpe

Gli studiosi medievali di retorica chiamavano genus turpe quel genere letterario in cui si sostengono argomenti che suonano ripugnanti ma il ricorso ai quali permette di costruire un discorso efficace. Un ottimo esempio di genus turpe è la famosa Modesta proposta di Jonathan Swift secondo la quale, per risolvere in un colpo solo il problema della sovrappopolazione e quello della povertà in Irlanda, la cosa migliore da fare era ingrassare i bambini poveri per venderli ai ricchi proprietari come prelibatezza gastronomica. Temo che questo libro rientri decisamente nel genus turpe. Che cosa c’è, infatti, di più ripugnante oggi di schierarsi contro chi si occupa dei poveri, dei deboli, dei malati e dei bambini abbandonati?
Tuttavia, a differenza di quanto può far credere il titolo, volutamente provocatorio, questo libro non è contro il non profit, specialmente se con questo termine vago e residuale (non-qualcosa) si intendono cittadini che si organizzano e agiscono sulla scena pubblica, lì dove sono in gioco diritti da tutelare o da far riconoscere, beni comuni da curare o da arricchire, persone in difficoltà in modo temporaneo o permanente da aiutare a esercitare i propri poteri e le proprie prerogative. Non potrei proprio essere contro questo tipo di non profit perché in un modo o nell’altro tutta la mia vita a questo è stata dedicata: prima con la partecipazione alla costituzione, alla fine degli anni ’70, e poi con la guida, tra il 1989 e il 2002, di un movimento di cittadini operante in Italia e in Europa, Cittadinanzattiva; quindi come studioso nel think tank (naturalmente non profit) che presiedo, Fondaca, e in diverse università, nonché come autore di ricerche su questo fenomeno, inedito e anomalo nel panorama delle società contemporanee.
Il libro è invece contro il non profit – o terzo settore che dir si voglia – se con questa espressione si intende una categoria del pensiero economico diventata prima teoria sociale, poi provvedimento legislativo di carattere tributario e quindi spazio protetto di azione in cui un po’ tutto è possibile – dai ristoranti alle palestre, dalle cliniche alle polisportive – con tutto ciò che ne consegue in termini di dubbia utilità sociale, possibili arricchimenti personali, conflitti di interesse, elusione fiscale, rapporti di lavoro insani, concorrenza sleale con le imprese private, ricchi che diventano più ricchi e poveri più poveri, «buoni» che legittimano vantaggi per i «cattivi». Direi, anzi, che è proprio questo secondo significato che è oggetto del libro, critico ma anche costruttivo nell’indicare il molto che non va per poter fare meglio: e si può fare molto, ma molto meglio.
Ancora, il libro non è stato scritto per accodarsi alla crescente ondata critica – un po’ giustificata e un po’ scandalistica – che si è manifestata negli ultimi anni a proposito delle organizzazioni non profit, con particolare riferimento a quelle che operano nel welfare e a quelle che si occupano di cooperazione internazionale allo sviluppo. Per chi, come me, ha una memoria abbastanza lunga su questi fenomeni, non è difficile ricordare che la stessa retorica, ma di segno opposto, per anni è stata riversata su qualunque sciocchezza o banalità promossa da quello che veniva (e viene) enfaticamente denominato «volontariato», «solidarietà», «sociale» e via elencando, considerato buono di per sé. Che ci siano comportamenti negativi è fin troppo ovvio. Ma questo non è un libro di denuncia, né è volto a suscitare scandali.
Piuttosto, il libro mira a mettere in luce i fattori che concorrono a determinare questi comportamenti, non andando a scandagliare le eventuali bassezze dell’animo umano, ma cercando di far emergere il problema che ne è alla base.
Questo punto è, a mio avviso, della massima importanza: mentre le rappresentazioni correnti attribuiscono comportamenti auto-interessati o di pura convenienza a cadute o deviazioni di carattere morale, la mia convinzione è che questi comportamenti, stridenti con un senso comune che attribuisce al «terzo settore» virtù intrinseche, siano invece impliciti nella stessa concettualizzazione del non profit, oppure ne siano una conseguenza logica e materiale. In altre parole, questa concettualizzazione, con le sue conseguenze nelle leggi, nelle politiche pubbliche, nell’amministrazione, nei comportamenti dei soggetti privati, contiene in sé il germe di patologie che sono perfettamente coerenti con essa.
Intendiamoci: utilizzare i soldi raccolti per i poveri per pagare le vacanze del presidente di una associazione, oppure dare cibo scaduto ai bambini di un asilo, o maltrattare gli anziani in una casa di riposo sono reati e basta, non c’è altro da aggiungere. Ma «vestire» un ristorante da associazione culturale, pretendere che la organizzazione di gite turistiche abbia un particolare valore sociale perché realizzata da volontari, dichiarare non profit una struttura sanitaria o educativa i cui costi la rendono inaccessibile per la maggioranza della popolazione, tanto per fare qualche esempio, sono patologie intrinseche alla concettualizzazione del «non profit» o «terzo settore», e non a una malattia morale dei suoi protagonisti. Qui sta il problema che con questo libro intendo affrontare. Ma qual è, più precisamente, questo problema?

2. Il problema

Il problema è che nella categorizzazione del non profit una miriade di organizzazioni e iniziative vengono accorpate in un magma informe, tenuto insieme solo da una ragione fiscale, e nel quale attività della massima utilità sociale finiscono per essere messe insieme ad altre, ottime e piacevoli ma che con l’interesse generale c’entrano poco; e insieme ad altre ancora, che invece utilizzano (in diversi casi, più precisamente, sfruttano) l’alone di rispetto, simpatia e fiducia pubblica di cui questo magma gode, soprattutto per merito di chi lo fa credendoci. Tutto ciò ha effetti rilevanti nella vita del paese, se appena si pensa che il settore non profit, secondo i dati più recenti, conta 301.191 istituzioni e organizzazioni, con quasi un milione di lavoratori, oltre a 4,7 milioni di volontari; con una ottantina di miliardi di euro di entrate, pari a più del 3% del Prodotto interno lordo (Pil).
Le radici di questa situazione stanno nella adozione acritica di un paradigma arcaico e residuale con il quale sono state classificate insieme tutte le realtà non pubbliche e non private (private nel senso di finalizzate a generare un profitto per i proprietari o gli azionisti). Questo paradigma attribuisce a tali realtà una rilevanza primariamente in termini economici, in quanto produttrici di offerta e lavoro nel mercato dei servizi; e in secondo luogo in quanto promotrici di socialità, dando un valore assoluto al fatto di mettersi e stare insieme, qualunque sia l’attività che viene condotta.
A questo primo problema se ne è aggiunto un altro quando tale prospettiva è stata acriticamente assunta per l’Italia (ma la situazione di altri paesi europei non è molto diversa). Non si è considerato, cioè, che questa classificazione di entità più o meno sociali ma senza scopo di lucro risponde a una logica estranea alla storia della nostra Repubblica, nella quale, che piaccia o meno, è lo Stato che ha la responsabilità di garantire sicurezza, assistenza e supporto alle persone; o, per dirla con le parole della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona umana. La logica implicita in questa operazione, al contrario, è quella di un sistema di welfare in cui la presenza dello Stato per rispondere ai bisogni della società è marginale e in cui è la comunità a farsi carico di tali bisogni, sia realizzando servizi a ciò finalizzati, sia finanziandoli con donazioni.
Il legislatore italiano ha raccolto tutto ciò in una congerie di normative diverse e concorrenti, la più importante delle quali, tuttavia, è di natura tributaria. Quest’ultima riconosce un valore sociale alla produzione di servizi nel welfare e nella vita comunitaria, favorendo, con un sistema di sgravi e misure premiali, le organizzazioni e le istituzioni che operano in questo quadro. Un mondo eterogeneo come lo possono essere le università non statali e i doposcuola nei quartieri periferici, o i ristoranti e le mense per i poveri, è stato così creato per legge.
Gli opinion maker hanno fatto il resto, attribuendo un valore sociale in sé a queste realtà, che hanno potuto così svilupparsi sulla base di un presupposto di carattere ideologico e catalizzando sempre più intenzioni e aspirazioni che di valore sociale hanno poco o nulla. Invece di un monitoraggio e di una valutazione del pubblico connessi alla effettiva attività svolta e ai reali benefici conseguiti dalla collettività e dalle persone in stato di bisogno, si sono attivati controlli burocratici e puramente formali, basati sulla tradizionale cultura del sospetto dello Stato verso i cittadini, salvo stracciarsi le vesti quando si scopriva che qualcuno si era appropriato di soldi non propri o che ne aveva fatto un uso abnorme.
D’altra parte, per molti addetti ai lavori, questa confusione è stata un buon affare: ha consentito di ergersi a rappresentanti di un universo enorme e ricco reclamando spazio, risorse e cariche politiche e amministrative; di liberarsi dalla responsabilità della gestione dei servizi pubblici abbandonandoli a se stessi o sottopagandoli; di migliorare la propria reputazione cavandosela con qualche donazione; di drenare risorse per definire e analizzare sempre meglio un tutto che è omogeneo quanto una stanza in cui si trovano un microscopio, un cannone, un cesto di frutta, un cavallo a dondolo e un ippopotamo.
Le organizzazioni non profit, come dice una mia amica americana, restano irriducibilmente delle entità economiche che non hanno azionisti. Che facciano cose abnormi, inutili, neutre, positive o meritorie rispetto all’interesse generale va dimostrato su base empirica e non è affatto garantito da questo status. Esso, al contrario, fa sì che chi si spende per l’interesse generale sia trattato esattamente allo stesso modo di chi si mette insieme per coltivare passioni e interessi perfettamente legittimi ma privati e di chi fa della condizione di essere «non profit» niente altro che un buon affare.

3. Puzzle ed enigmi

Chi fa ricerca sa che gli oggetti della osservazione scientifica sono di due tipi. Si possono rendere queste diverse situazioni, facendo ricorso al linguaggio comune, in termini di enigmi e puzzle. Gli enigmi sono quelli che caratterizzano situazioni in cui non tutto è noto o visibile, per cui il lavoro del ricercatore è volto a scoprire fatti, fenomeni o processi che fino a quel momento non erano stati individuati e che sono necessari per interpretare o spiegare la realtà. I puzzle, invece, denotano situazioni in cui tutto è già noto e ciò che è necessario è assemblare o fondere le informazioni esistenti in modo tale da spiegare di più e meglio fatti e circostanze.
Sulla base di questa distinzione, si può dire che l’oggetto del libro è tutto meno che un enigma. Nulla di quello che illustrerò è ignoto o si può considerare una scoperta. Tutti i materiali necessari sono disponibili e largamente conosciuti, se non al grande pubblico, almeno agli addetti ai lavori: ricercatori, esperti, policy maker, legislatori, donatori privati, esponenti del cosiddetto terzo settore. L’oggetto di questo libro è, dunque, un vero e proprio puzzle: tutti i pezzi sono sul tavolo e la sfida è quella di metterli assieme nel modo giusto, nel senso di maggiormente produttivo in termini di conoscenza. È ciò che mi propongo di fare e devo dire che si tratta di un compito decisamente più agevole di molti altri che mi sono trovato ad affrontare nel mio lavoro di ricerca.
Un enigma, tuttavia, c’è anche in questo caso. Esso si può rendere con semplici domande. Perché, di fronte a una situazione così evidente, non sono state sviluppate (a quanto mi consta) le semplici – a tratti del tutto banali – considerazioni che costituiscono il contenuto di questo libro? Come mai in trent’anni di dibattiti, ricerche, leggi e regolamenti, azioni amministrative, campagne di comunicazione e attività dei media, investimenti pubblici e privati, non si è guardato con più attenzione al mostro concettuale prima che fattuale che si stava generando? Perché non è stato fatto qualcosa per evitare che comparisse quello che assomiglia a un Golem? Io stesso, scrivendo queste pagine introduttive, mentre ho davanti agli occhi i pezzi principali del puzzle, non ho elementi per rispondere alla domanda sull’enigma del suo mancato riconoscimento. Essa, tuttavia, è a suo modo importante quanto la questione di mettere insieme i pezzi nel modo giusto.

4. Confessioni

È opportuno che in questo capitolo introduttivo io inserisca un tema che, usualmente, ha posto in prefazioni o postfazioni, i luoghi in cui l’autore riporta informazioni e intenzioni di carattere personale. Mi sembra giusto, cioè, chiarire da quali esperienze ha avuto origine l’idea del libro. Si tratta di esperienze di due tipi, quella più prossima di ricercatore e quella, più antica, di dirigente di una organizzazione di cittadini.
Come ricercatore sociale mi sono trovato diverse volte a misurarmi con la difficoltà di produrre informazioni e conoscenze attendibili su quella porzione di settore non profit che è stato ed è un tema fondamentale della mia attività, vale a dire la molteplicità di forme di auto-organizzazione di cittadini che operano come attori della scena pubblica. Ciò è avvenuto, in particolare, tra il 2004 e il 2006, quando mi sono trovato a dirigere la parte sull’Italia, affidata a Fondaca, di un progetto di ricerca internazionale sulle società civili, il Civil Society Index. In quella occasione ho potuto toccare con mano quanto è difficile ottenere dati dalle basi informative esistenti, essendo queste prevalentemente focalizzate sul settore non profit nel suo complesso. Paradossalmente, produrre dati e informazioni su insiemi di organizzazioni con forti elementi comuni (come quelle di attivismo civico che io studio) è molto più difficile che dare i numeri su un magma che non ha alcun elemento rilevante di comunanza, come appunto il non profit. Chi intende farlo, deve compiere vere e proprie acrobazie intellettuali e metodologiche1.
È stato soprattutto riflettendo su questa esperienza che, a partire dal 2006, con i colleghi di Fondaca abbiamo aperto un dialogo con l’Istat, che aveva come oggetto proprio il problema che ho illustrato sopra e i modi per risolverlo. A partire da questo dialogo, e grazie alla sensibilità del nuovo presidente dell’Istat Enrico Giovannini, tra il 2011 e il 2012 è stato possibile elaborare, assieme ai dirigenti e ai ricercatori dell’istituto di statistica, una domanda-filtro che è stata inserita nel questionario del Censimento delle organizzazioni non profit riferito al 2011 e che mirava proprio a selezionare, in questo magma, quelle organizzazioni definibili «di cittadinanza attiva» in quanto operanti per la tutela di diritti, la cura di beni comuni e l’empowerment di soggetti in difficoltà2.
Queste esperienze condotte come ricercatore mi hanno portato a riflettere, in modo più generale, sul settore non profit e a raccogliere nel corso del tempo materiali, dati e riflessioni che sono la base di quanto contenuto in questo volume. Ma anche a chiedermi più volte perché, nella comunità scientifica, non fosse stato posto come centrale un problema così evidente.
La seconda esperienza che mi ha spinto a scrivere questo libro è più lontana nel tempo, ma a suo modo più importante. È quella che ho fatto come segretario generale di Cittadinanzattiva tra il 1989 e il 2002. Sarà perché il movimento che dirigevo è decisamente anomalo rispetto alle rappresentazioni correnti della realtà, o perché, proprio per questa ragione, esso ha elaborato e cercato di praticare una via autonoma all’attivismo civico, violando consapevolmente consuetudini e regole non scritte, ma nel corso di questa esperienza mi sono più volte reso consapevole di quanto la realtà fosse diversa dalle sue tematizzazioni e dalle norme di legge che pretendevano di regolarla, o, più precisamente, di crearla.
Ma soprattutto ho avuto netta la sensazione che noi comuni cittadini, impegnati per i diritti dei malati, per la tutela dei consumatori, per il monitoraggio della qualità dei servizi di...

Indice dei contenuti

  1. 1. Una dichiarazione di intenti
  2. 2. La invenzione del non profit
  3. 3. Dove casca l’asino
  4. 4. L’effetto alone
  5. 5. Il caso italiano, ovvero come farsi del male da soli
  6. 6. Conseguenze non volute
  7. 7. Un Golem sfuggito al controllo
  8. 8. Da capo
  9. 9. Virtù civiche
  10. Riferimenti e ringraziamenti