Sociologia delle migrazioni
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Sociologia delle migrazioni

  1. 274 pagine
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Sociologia delle migrazioni

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L'evoluzione storica del fenomeno migratorio e le tendenze contemporanee, le cause delle migrazioni e i percorsi d'inserimento nel mercato del lavoro, le politiche migratorie e l'analisi dei costi/benefici per il paese di ingresso e per quello d'origine, in un'ampia ricognizione che tiene conto degli studi e delle ricerche realizzati a livello internazionale.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116173
Categoria
Sociology

1. Un «glossario» per lo studio delle migrazioni

L’emigrante – ci dice il dizionario della lingua italiana – è colui che espatria alla ricerca di lavoro o di un miglioramento economico. Tuttavia, nel momento in cui la presenza di immigrati provenienti da paesi stranieri cominciò a divenire visibile in diverse città italiane, nel linguaggio corrente divenne usuale una certa confusione tra i termini emigrato e immigrato: retaggio storico di un popolo per eccellenza di poveri e di emigranti. Ancora oggi, una sorta di «lapsus» fa sì che, perfino nelle sedi più qualificate, si continuino a volte a chiamare i nuovi arrivati con l’appellativo col quale si indicavano i milioni di italiani che nel passato hanno lasciato il paese.
Nella seconda metà degli anni ’80 si fece strada un termine inedito, ma destinato a una grande popolarità: quello di extracomunitario. Esso rispecchia forse il fatto che l’Italia è divenuta un paese d’immigrazione straniera negli anni in cui prendeva corpo il processo d’integrazione europea e la distinzione tra cittadini dei paesi membri e cittadini dei paesi terzi diventava giuridicamente rilevante. Si tratta comunque di un’espressione impropria, se si considera che il suo significato corrente non equivale a quello giuridicamente corretto. Da un punto di vista giuridico, infatti, sono extracomunitari (ammesso che l’espressione sia ancora adeguata dopo che il termine «Unione» è subentrato a quello di «Comunità») anche i cittadini svizzeri, giapponesi e nord-americani, laddove nel significato corrente tale appellativo vorrebbe definire unicamente gli immigrati provenienti dai paesi del Sud del mondo e dell’Est europeo: più che indicare la non appartenenza a una comunità politica, esso è venuto a significare una condizione di presunta emarginazione sociale. Il 1° maggio 2004, l’ingresso nell’Unione Europea di dieci nuovi paesi ha trasformato dall’oggi al domani i loro cittadini in «comunitari». E lo stesso è avvenuto il 1° gennaio 2007, con l’ammissione di Bulgaria e Romania: un paese, quest’ultimo, tra i principali nell’alimentare i flussi «extracomunitari» in Italia. Le statistiche hanno dovuto essere corrette, con l’effetto di registrare una brusca caduta del numero di «extracomunitari» soggiornanti in Italia. E le medesime persone, senza ovviamente avere in nulla modificato le loro caratteristiche, attitudini e capacità, si sono ritrovate, improvvisamente, titolari di maggiori diritti e opportunità.
Come dimostrano questi esempi, le categorie con cui definiamo i migranti non esistono «in natura», ma sono il frutto di processi di costruzione sociale che riflettono scelte di tipo politico-giuridico, atteggiamenti e vissuti della popolazione, sentimenti custoditi dalla memoria collettiva. Per tale ragione, il glossario per lo studio delle migrazioni ha un’insopprimibile arbitrarietà, alla quale non possiamo che rassegnarci. Ciò rende più problematica l’analisi dei fenomeni, ma costituisce anche, a nostro avviso, uno dei lati più affascinanti dello studio del fenomeno migratorio. Come cercheremo di dimostrare in questo capitolo, le parole ci «dicono» molto!

1.1. La costruzione sociale della figura del migrante

Agli albori della sociologia, la riflessione sulla figura dello straniero appare illuminante circa la struttura ambivalente di ogni relazione sociale. G. Simmel (1908) focalizza la contraddittorietà dei rapporti che legano lo straniero alla società che lo ospita: egli è insieme vicino e lontano, escluso e incluso, affascinante e temibile. L’atteggiamento nei confronti dello straniero rende palese la compresenza, nella vita di ogni gruppo sociale, di atteggiamenti e comportamenti destinati a chiudere i propri confini culturali e ribadirne l’immutabilità, e atteggiamenti e comportamenti destinati a stabilire la comunicazione con l’esterno e a favorire il cambiamento. Orbene, in queste memorabili pagine scritte ormai un secolo fa, è già presente l’insegnamento fondamentale della riflessione sociologica applicata allo straniero. Ad emergere è infatti un modello di interazione fra straniero e gruppo che, pur assumendo fisionomie storiche diverse, rimane inalterato nella sua forma: il gruppo sociale manifesta contemporaneamente il bisogno di escludere lo straniero affermando la propria identità e immutabilità, e di includerlo al proprio interno, aprendosi all’innovazione e al cambiamento sociale (S. Tabboni 1986).
Collocandoci in tale prospettiva, nel presente capitolo analizzeremo alcuni dei principali concetti impiegati dalla sociologia delle migrazioni. Si tratta, al pari di ogni altro concetto cui si fa ricorso per l’analisi dei fenomeni sociali, di categorie che riflettono il contesto culturale e il tipo di «problemi» che intesero indagare. Tuttavia, nel caso della sociologia delle migrazioni, questa natura «non-neutrale» dei concetti assume un significato più rilevante, giacché alla base della definizione del migrante nelle sue varie accezioni (straniero o cittadino, regolare o irregolare, etnicamente simile o etnicamente diverso, e via dicendo) c’è sempre un’operazione di delimitazione della distanza sociale. Precisamente quel carattere individuato da Simmel: lo straniero è vicino e lontano al tempo stesso. Abbastanza «vicino» per esistere e interpellare la società ospite, ma abbastanza «lontano» da non dissolversi completamente nel gruppo e perdere la sua specificità.
La nostra esposizione comincerà col mettere in evidenza la natura socialmente costruita delle differenze etniche e razziali. Quelle che siamo soliti considerare differenze naturali e autoevidenti, e che tanto condizionano i processi d’inclusione dei migranti nelle nostre società, sono in realtà il frutto di una scelta riguardo i criteri alla base della differenziazione. E ancora, tale natura fa sì che le differenze etniche non siano qualcosa di immutabile, ma l’esito delle interazioni tra gruppi e individui storicamente variabili: caratteristica che le rende inevitabilmente arbitrarie. Esemplificheremo questo punto descrivendo come la figura del migrante è variamente definita nei diversi contesti istituzionali. Ci soffermeremo, infine, sulle diverse tipologie delle migrazioni, rilevando come, anche in questo caso, dietro l’apparente oggettività di una condizione, v’è sempre una scelta dettata dalle aspettative di ruolo che la società nutre nei confronti dei migranti.

1.1.1. Differenze ascritte e differenze acquisite: la costruzione sociale delle differenze etniche

Ogni società umana ci si presenta come un complesso di posizioni differenziate, esito dei processi di allocazione delle risorse e delle opportunità che avvengono nell’ambito del sistema economico e di quello politico: si parla, a tale riguardo, di sistema delle differenze. Entro tale sistema, ogni singolo attore sociale occupa una specifica posizione sociale, e ciascuna posizione garantisce al suo occupante un differente grado di accesso alle ricompense sociali in termini di ricchezza, prestigio e potere.
Più precisamente, la teoria sociologica distingue due fondamentali tipi di differenze: quelle ascritte e quelle acquisite. Le differenze ascritte sono ereditate per nascita: sono cioè l’insieme dei vantaggi e svantaggi che conseguono dal nascere di genere maschile o femminile, nell’ambito di un determinato sistema sociale, con un certo censo, in una famiglia appartenente a un determinato strato socio-culturale e così via. Le differenze acquisite derivano invece dal comportamento che un individuo mette in atto nel corso dell’intera esistenza, e in primo luogo, nelle società contemporanee, dalle scelte e dalle performance che caratterizzano il suo percorso formativo e professionale. A lungo i sociologi hanno ritenuto che le differenze ascritte fossero destinate a perdere progressivamente la loro rilevanza, via via che i vecchi meccanismi di allocazione delle risorse e di distribuzione dei compiti basati sull’appartenenza a gruppi determinati (genere, famiglia, etnia, casta, ecc.) avessero ceduto il passo ad altri fondati sulle capacità e sui meriti individuali. Ciò è stato in particolare sostenuto dalle teorie della modernizzazione, un’espressione con la quale si è soliti riferirsi ad approcci anche diversi ma comunque riconducibili a una visione ottimistica del divenire sociale, inteso come processo inevitabile che produce una generale convergenza verso un assetto di società «moderna», contrapposta al modello della società «tradizionale». Orbene, nel contesto delle società moderne, il peso delle variabili ascritte doveva diventare addirittura irrilevante, grazie all’applicazione di criteri meritocratici e del principio di pari opportunità che avrebbero garantito a tutti, indipendentemente dalle loro condizioni d’origine, la possibilità di raggiungere le posizioni sociali più elevate nella stratificazione sociale. Le stesse differenze etniche erano destinate a diventare sempre meno importanti, quanto meno nell’ambito della sfera pubblica: le logiche dello sviluppo economico e l’universalismo dei sistemi normativi «moderni» avrebbero infatti progressivamente sostituito le identificazioni ascrittive di tipo primordialistico con le identificazioni funzionali, definite, cioè, dalla funzione ricoperta da ogni individuo con riferimento alla divisione del lavoro sociale. Nella società americana, tale convinzione si è incarnata nel mito del self made man, l’uomo che, partendo da umili origini, grazie al proprio impegno e alla propria perseveranza, avrebbe realizzato il valore dell’achievement, dando testimonianza a quel sogno americano che ha sostenuto i sacrifici di tanti migranti.
La riflessione sociologica più recente ha però ripetutamente mostrato come, perfino nelle società più aperte e democratiche, lo status ascritto mantiene un’indiscutibile rilevanza, misurabile non solo in termini di dotazione iniziale di risorse, ma altresì in termini di opportunità che a un individuo vengono offerte nelle varie fasi della sua vita, a loro volta dipendenti dalle risorse materiali, culturali e relazionali della famiglia di provenienza. Per fare un esempio, il successo della carriera scolastica dipende certamente dalle doti personali di ciascun soggetto (intelligenza, abilità ad apprendere, impegno e costanza nello studio, e così via), ma è pure fortemente condizionato da tutte le forme di sostegno diretto e indiretto che la famiglia è in grado di offrire (assistenza nello svolgimento dei compiti a casa, lezioni private, stimoli culturali, vacanze-studio all’estero, orientamento nelle scelte e così via). Più dunque che del venir meno del ruolo delle variabili ascritte, è opportuno parlare di un forte intreccio tra queste ultime e quelle acquisite, tanto che diventa impossibile scindere con precisione il peso di ciascuna di esse nella determinazione della posizione sociale individuale. In definitiva, è indubbio che le variabili ascritte giochino oggi un ruolo meno vincolante rispetto ad altre epoche ed altre società (l’esempio estremo è quello del sistema indiano delle caste, dove è negata la possibilità di passaggio da uno strato all’altro), grazie in particolare allo sviluppo dei moderni Stati del benessere che hanno enormemente migliorato le opportunità offerte agli individui provenienti dalle classi meno abbienti (si pensi, ad esempio, al ruolo della scuola pubblica gratuita). Ma è altrettanto indubbio come esse siano tutt’altro che irrilevanti. Anzi, sono in molti a ritenere che, nell’attuale società «post-moderna», le variabili ascritte conoscano un rigurgito di importanza. Ciò sembra essere particolarmente vero al riguardo della differenza che qui più ci interessa, quella etnica, impostasi a partire dagli anni ’70 come una fondamentale dimensione esplicativa delle dinamiche e del mutamento sociale e destinata a vedere via via crescere la propria rilevanza grazie anche all’accelerazione del fenomeno delle migrazioni internazionali.
Prima di procedere è però opportuna una precisazione. Le differenze etniche sono comunemente annoverate tra le differenze ascritte: anzi, insieme a quelle di genere, rappresentano l’esempio per eccellenza di differenza ascritta. Nell’accezione tradizionale la differenza etnica è qualcosa d’innato, di biologico ed ereditario, o comunque di riferito al passato e alla memoria collettiva. Secondo una delle definizioni più accreditate, quella proposta da A.D. Smith (1986), l’etnia indica un insieme di individui che condividono un nome, dei miti di discendenza, una storia, una cultura, il riferimento a un territorio specifico (anche diverso da quello in cui si vive) e un senso di solidarietà. Accanto a tale accezione dell’etnicità, che ne enfatizza la connotazione primordiale e innata, se n’è però fatta strada una diversa, che intende l’etnicità come qualcosa di situazionale e contingente, ossia l’esito di processi di invenzione funzionali a soddisfare un bisogno di appartenenza, o a rendere disponibile una risorsa simbolica da impiegare in difesa dei propri interessi. Si parla, a tale riguardo, di revival etnico (A.D. Smith 1984), per indicare quel fenomeno di riscoperta di una solidarietà etnica perduta o trascurata, di rivendicazione dell’appartenenza a una storia e una memoria collettiva, o addirittura di «invenzione» dell’etnicità (W. Sollors 1989). Negli ultimi anni, studiosi di varie discipline hanno alimentato un dibattito tutt’altro che concluso su questi temi, che ha dato vita a una copiosa letteratura alla quale rinviamo1.
Ai nostri fini occorre invece sottolineare che, indipendentemente dalla definizione privilegiata, è ormai acquisito e condiviso tra i sociologi il fatto che le differenze etniche sono l’esito di complessi processi di costruzione sociale2. In altri termini, le differenze etniche sono ‘apprese’ (A. Giddens 1991), nonostante sia diffusa la tendenza a conferirvi caratteristiche di naturalità. A ciò consegue che i confini tra i vari gruppi etnici mutano nel tempo, così come possono mutare i c.d. marcatori etnici, vale a dire i criteri attraverso i quali tali confini sono stabiliti. I marcatori etnici hanno una loro oggettività – consistano essi nel colore della pelle o in altre caratteristiche fenotipiche, oppure nella comunanza di lingua, religione, cultura, modi di vita – ma la loro scelta per definire i confini tra i diversi gruppi etnici è sempre arbitraria. Proprio per tale carattere, che ora tenteremo di chiarire, il ricorso al termine etnia è certamente preferibile a quello di razza. Quest’ultimo è abitualmente usato per indicare un raggruppamento di persone con comuni caratteri fisici ereditari che possono costituire motivo di profonda differenziazione nella sfera sociale: in sostanza, col termine razza ci si riferisce, di norma, al fondamento biologico delle differenze, laddove il termine etnia rimanda piuttosto all’identità culturale di una persona e alla sua appartenenza a una determinata comunità. Orbene, in base a una convinzione ancora piuttosto radicata, esisterebbero diverse razze umane ciascuna delle quali contrassegnata da uno specifico patrimonio genetico a sua volta responsabile, oltre che di differenti tratti somatici, anche di differenti modelli di comportamento e quindi dell’idoneità a ricoprire determinate posizioni sociali. In realtà, la biologia ha ormai definitivamente appurato come le differenze fisiche tra quelle che chiamiamo razze si riducono sostanzialmente a differenze di aspetto esteriore, risultato di una lunga storia di contatti e incroci tra popolazioni diverse. La variabilità genetica riscontrabile tra individui appartenenti alla stessa «razza» è altrettanto estesa di quella che si osserva confrontando persone di diversi gruppi razziali. La razza è dunque, al pari dell’etnia, un concetto socialmente costruito, ossia l’esito di interazioni sociali storicamente verificatesi tra popolazioni di diversa provenienza geografica che hanno portato ad attribuire maggiore rilevanza a determinati tratti somatici – segnatamente al tipo di pigmentazione della pelle – piuttosto che ad altri – per esempio l’altezza o il colore degli occhi e dei capelli3.
Invero, la distinzione del genere umano in razze, apparsa nel XVIII secolo, conferì dignità scientifica a rappresentazioni già diffuse in Occidente, che servivano anche a giustificare le relazioni fortemente asimmetriche con le popolazioni di pelle scura vittime dello schiavismo4 e, più tardi, l’esclusione dei non-bianchi dai diritti politici. Com’è noto, la colonizzazione del Nuovo Mondo, da parte degli europei, determinò la sottomissione cruenta dei popoli indigeni [§ 2.1.1]. Gli europei si consideravano impegnati nella civilizzazione del resto del mondo, e fin dalle sue fasi iniziali il colonialismo coincise con l’affermazione del razzismo: in particolare, le concezioni razziste che separavano i «bianchi» dai «neri» ebbero grande peso nell’orientare gli atteggiamenti degli europei e il futuro delle relazioni etniche sia nel Nuovo Mondo sia nella «vecchia» Europa. L’opposizione tra bianco e nero, profondamente radicata nella cultura europea (dove il bianco è simbolo della purezza, e il nero rimanda alla morte, al maligno, alla sporcizia), divenne, nel momento del primo incontro con popolazioni di pelle «nera», motivo di legittimazione delle pratiche di soggezione e sfruttamento dei popoli non bianchi. Orbene, sulla simbologia nero/bianco si sono riversati fiumi d’inchiostro, senza peraltro riuscire a debellarla del tutto dal nostro modo di pensare. Qui ci basti rilevare come essa non abbia nulla di «naturale», tanto è vero che in altre culture si sostiene esattamente il contrario, che sia cioè il nero a rappresentare il bene, e il bianco il male.
Alla luce di questa premessa, diventa chiaro l’interesse, per il sociologo, dello studio delle differenze etniche e razziali. In effetti, le differenze razziali – che come abbiamo precisato si fondano su tratti fisici visibili scelti come significativi – tendono, da un lato, a essere indebitamente associate a peculiari caratteristiche di personalità e di comportamento e, dall’altro, ad accompagnarsi a forme di diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, del prestigio e del potere. In sostanza, rappresentano un carattere rilevante per la collocazione degli individui entro la stratificazione sociale. Il termine etnia è, come accennato, preferibile, perché dà più immediatamente conto dell’origine sociale delle differenze di cui qui ci occupiamo: determinate differenze di aspetto fisico, di cultura, di lingua o di origine sono cioè definite etnicamente rilevanti, risultando funzionali tanto ai processi di differenziazione su base etnica, quanto a quelli di autoriconoscimento dell’appartenenza etnica. Data la natura interattiva del processo di costruzione sociale delle differenze etniche, accanto all’eterodefinizione occorre, infatti, porre l’accento sull’autodefinizione, ossia sul processo attraverso il...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’Autrice
  2. Introduzione. Cosa studia la sociologia delle migrazioni?
  3. 1. Un «glossario» per lo studio delle migrazioni
  4. 2. L’evoluzione storica del fenomeno migratorio
  5. 3. Le cause delle migrazioni
  6. 4. Le politiche migratorie
  7. 5. L’incorporazione dei migranti nel sistema economico
  8. 6. Migrazioni e sviluppo dei paesi d’origine: nuove frontiere di ricerca
  9. Riferimenti bibliografici