Fascismo e antisemitismo
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Fascismo e antisemitismo

Progetto razziale e ideologia totalitaria

  1. 136 pagine
  2. Italian
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Fascismo e antisemitismo

Progetto razziale e ideologia totalitaria

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«Il vento gelido dell'antisemitismo non lascia immune il sistema ideologico fascista, costringendolo a rivedere paradigmi teorici e definizioni concettuali, in un rapporto, ideologico prima che politico, sempre più stretto con il nazismo». Francesco Germinario indaga, alla luce di nuove ipotesi interpretative – come la 'nazificazione del fascismo' –, la relazione tra ideologia fascista e antisemitismo e si confronta con i maestri della storiografia del Novecento.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115275
Argomento
Storia

1. L’antisemitizzazione del razzismo

Nel campo della ricerca storica è pressoché unanime la convinzione che a concorrere alla legislazione razziale introdotta dal fascismo a muovere dalla fine dell’estate del 1938 furono, per un verso, la politica popolazionista e igienista avviata dal regime negli anni precedenti; per l’altro, la necessità, all’indomani della conquista dell’Etiopia, di regolarizzare i rapporti fra gli italiani stabilitisi nelle colonie e le popolazioni indigene1. Questo quadro in cui la legislazione italiana s’inscriveva, prima che essere ricostruito dalla storiografia, era stato riconosciuto dallo stesso regime fascista.
Nell’enorme pubblicistica sull’argomento è appena il caso di richiamare quanto scrivevano due teorici di secondo piano del razzismo fascista, quali Ugo D’Andrea e Vincenzo Mazzei, e un gerarca di notevole peso politico come Attilio Teruzzi. Per il primo, la questione del razzismo nell’Italia fascista «si pone a un dato momento del processo rivoluzionario come problema politico del risorgente impero», perché era necessario che il fascismo fosse guidato da «una chiara politica razziale verso le popolazioni di colore soggette e bisogna prendere posizione in Europa verso gli ebrei»2. Quanto a Mazzei, un giurista molto vicino al teorico del corporativismo Sergio Panunzio3, nonché agli esponenti della corrente del «nazional-razzismo», «la creazione dell’Impero, per cui gli italiani sono venuti a contatto con gente di altre razze, ha imposto la tutela della razza italiana, come condizione della nostra superiorità colonizzatrice [...] La difesa è venuta appena si è manifestata in proporzioni rilevanti la minaccia all’unità della razza»4. Simile era, infine, la posizione di Teruzzi, quando osservava che «la politica razzista del Regime non è improvvisamente fiorita nel 1938, ma trova più lontane e profonde radici proprio nel sorgere dei problemi che la conquista dell’Impero ha posto»5.
La descrizione del clima politico-culturale in cui maturarono le leggi razziali rischia comunque di diluire la specificità dell’antisemitismo del regime fascista. In altri termini, non solo in sede di dibattito teorico-politico è da tenere ben ferma la distinzione fra il razzismo e l’universo ideologico dell’antisemitismo; ma, in sede di ricostruzione storiografica, il periodo che si apre con la legislazione del 1938 non sempre risponde al quadro complessivo dei problemi politici posti dall’allargamento delle colonie6. Almeno in riferimento al nodo di problemi politici che caratterizza il regime fascista nella seconda metà degli anni Trenta, crediamo che non sia la scelta del razzismo coloniale a spiegare l’antisemitismo, ritagliandosi, quest’ultima strategia politica, una propria autonomia e una logica politica del tutto differente da quella di una legislazione razziale per le popolazioni delle colonie. Anche se si riferiva al razzismo tedesco, era stato Leone Franzì, uno dei portavoce delle posizioni del razzismo nazista in Italia, a rilevare che era «più logico pensare che sia stato l’antisemitismo a facilitare la strada al razzismo, che non questo al primo»7.
L’identificazione fra il razzismo e l’antisemitismo pone un problema storiografico ineludibile. Se l’antisemitismo è il razzismo applicato all’ebreo, dove situare allora la linea di demarcazione fra il liberalismo delle potenze europee, che il razzismo lo praticarono nelle colonie – per non dire del razzismo anti-nero e anti-pellerossa degli Stati Uniti dell’Ottocento –, e l’antisemitismo proiettato ai primi posti della loro agenda politica dal nazismo e dal fascismo? Una lettura dell’antisemitismo quale proiezione sul suolo europeo del razzismo praticato in precedenza nelle colonie non comporta il rischio di smarrire proprio la specificità storico-politica dell’antisemitismo medesimo?
È appena il caso di osservare che razzismo e antisemitismo intrattengono diversi rapporti teorico-politici, a cominciare da stereotipi spesso identici, naturalmente declinati contro obiettivi diversi8. Si deve comunque rilevare che l’antisemitismo, sia pure sotto la forma dell’antigiudaismo e della polemica teologica, aveva anticipato di diversi secoli il razzismo, tanto che parecchi stereotipi antisemiti sono rintracciabili nel razzismo, il quale aveva provveduto a rielaborarli, a cominciare dal procedimento di animalizzazione: mentre l’antisemitismo aveva animalizzato l’ebreo, espellendolo dal genere umano, il razzismo aveva provveduto ad animalizzare le popolazioni di colore.
D’altro canto, non sono pochi i casi di autori antisemiti in cui sono presenti posizioni razziste, ovvero un intreccio stretto fra posizioni razziste e un dichiarato antisemitismo. A titolo d’esempio, nel Céline delle Bagatelle per un massacro troviamo l’immagine dell’ebreo che tradisce «nervi africani», essendo il semita «negro in realtà»9.
Il razzismo verso l’esterno, spesso praticato dalle potenze liberali coloniali nel corso dell’Ottocento, non aveva implicato necessariamente l’antisemitismo all’interno, anche se è vero il contrario nel caso del fascismo e del nazismo. Proprio sul tema del rapporto fra il razzismo e l’antisemitismo è spesso passato inosservato che nella tradizione culturale antisemita si erano persino verificati casi di teorici, in genere appartenenti all’area drumontiana vagamente «socialista» e protestataria, indifferenti, se non addirittura ostili al colonialismo, interpretato come un’articolazione del piano ebraico di conquista del mondo10.
Almeno sul piano teorico-politico, un’identificazione fra il razzismo e l’antisemitismo rischia di far calare la notte in cui tutte le vacche sono nere, non cogliendo, quale conseguente paradosso, proprio la specificità dell’antisemitismo, a cominciare dalla sua vocazione totalitaria. Una rilettura comparativa fra il razzismo e l’antisemitismo, volta a presentare quest’ultimo quale traduzione in Occidente di un razzismo in precedenza elaborato nell’Occidente medesimo per motivare l’espansione coloniale nei paesi extraeuropei, comporta l’inevitabile rischio teorico-politico di eludere le specificità del totalitarismo, annullando proprio i rapporti che quest’ultimo intrattiene con l’antisemitismo11. In altri termini, mentre il razzismo ha storicamente intrattenuto rapporti molto stretti col liberalismo, l’antisemitismo si è collocato su un altro versante, ponendosi fin dalle sue origini teoriche, nell’opera di autori come Toussenel e Drumont, come un universo ideologico insofferente ed estraneo alla società liberale. Una stretta identificazione fra razzismo e antisemitismo rischia di far evaporare la specificità totalitaria di quest’ultimo, eliminando il motivo per cui le sue condizioni storiche di realizzazione dipendono dall’ambiente politico totalitario.
Ciò che s’intende rilevare è che la scelta del 1938, se per molti aspetti è certamente da inquadrare in una razzizzazione di stampo colonialista già in atto da qualche anno, per quanto riguarda l’antisemitismo presenta tuttavia una logica e motivazioni autonome, uno scarto di paradigma non afferibile alle consuete declinazioni del razzismo coloniale perché, come aveva osservato a suo tempo De Felice, «formalmente, la politica della razza rispetto alle popolazioni dell’Impero con il problema degli ebrei non aveva nulla in comune»12. Laddove, in ambiente politico totalitario, prevalga la logica del nemico interno – una logica cui l’antisemita è particolarmente fedele e su cui l’antisemitismo aveva costruito le sue precedenti fortune teoriche – questa, per il radicalismo ideologico esplicitamente totalitario che esprime, è destinata a fagocitare, o comunque a modellare in base ai propri obiettivi politici, quella razzista del nemico esterno. Non è la delimitazione all’esterno il criterio per procedere alla razzizzazione all’interno; ma è la lotta contro il nemico interno, un obiettivo ben congeniale al sistema totalitario, a dettare l’agenda dell’azione politica13. Più che un essere inferiore, l’antisemitismo considerava l’ebreo una figura socialmente «pericolosa»; e la sua pericolosità consisteva nell’assumere un atteggiamento di dominatore dei popoli e delle società con cui entrava in relazione nel corso del suo nomadismo. A fronte dei popoli da colonizzare ritenuti estranei alla civiltà europea, l’ebreo è supposto portatore di un’altra civiltà, quella semitica, i cui valori (mammonismo, materialismo, irrequietezza rivoluzionaria ecc.) erano ritenuti estranei a quelli dei popoli europei e dunque ariani. L’immaginario antisemita ricorreva all’utilizzo di categorie recuperate dal razzismo, procedendo però a una loro significativa inversione: il ruolo svolto dall’ebraismo nei centri della civiltà europea corrispondeva a quello svolto dai bianchi nelle colonie; viceversa, i popoli ariani, ridotti in schiavitù dal mammonismo semita, ricoprivano la medesima funzione subalterna svolta dai popoli di colore. I popoli europei, in particolare i francesi, aveva sentenziato Drumont negli anni immediatamente precedenti lo scoppio dell’Affaire Dreyfus, «sono davanti agli ebrei come i malgasci, i congolesi sono davanti ai nostri residenti e ai nostri amministratori. Gli ebrei stanno ai francesi come i francesi stanno ai negri»14. Piuttosto che da addebitare alle riconosciute capacità di polemista di Drumont, questa posizione la si ritrova in numerosi teorici dell’antisemitismo15.
In questo senso, le vie d’uscita del razzismo e dell’antisemitismo divergevano: mentre la colonizzazione dei popoli europei era vista dal liberalismo quale tattica per realizzare il passaggio di quei popoli dalla fase storica della barbarie a quella della civiltà, con l’ebreo il ricorso a questa tattica diveniva storicamente impossibile, perché il rapporto ariano(europeo)-ebreo diveniva la cifra di uno scontro epocale di civiltà, uno scontro che per definizione non poteva ammettere mediazioni o tregue.
D’altro canto, proprio la prevalenza dell’antisemitismo sul razzismo induce a valutare la profondità di quello scarto di paradigma costituito dalla normativa del 1938 rispetto alla precedente politica razziale del regime fascista. Mentre quest’ultima, tra istanze eugenetiche e spinte nataliste e antimalthusiane, si reggeva su un saldo intreccio fra politica interna e politica estera, in quanto il miglioramento della situazione igienico-sanitaria interna e soprattutto l’incremento della popolazione erano ritenuti la condizione necessaria per una politica estera all’insegna dell’espansionismo16, nel caso della legislazione del 1938 lo spettro applicativo e la logica politica assumevano una prospettiva del tutto interna, definita dalla politica antiebraica. Anzi, proprio in quest’ultimo caso valevano i principi contrari a quelli che avevano da tempo ispirato la politica natalista del fascismo. Con quella legislazione, il regime fascista auspicava, fra l’altro, che la proibizione dei matrimoni misti – per giunta in una situazione, quella dell’ebraismo italiano, caratterizzata dall’elevata propensione a contrarre appunto matrimoni misti –, oltre a tenere ben distinti gli «ariani» dai «semiti», associata alle più generali difficoltà materiali che la legislazione provocava nella condizione di vita degli ebrei italiani, avrebbe comportato quanto meno un rapido decremento demografico di questi ultimi.
Ammesso che la legislazione razziale trovi la sua spiegazione nei problemi sorti con l’allargamento dei possedimenti coloniali, a muovere dalla legislazione del 1938 è l’antisemitismo a spiegare e incorporare il razzismo, ed era sul tema della lotta all’ebraismo, prima che contro le popolazioni di colore, che aveva insistito con più vigore la propaganda del regime fascista. Sotto l’aspetto teorico-politico si poteva anche ammettere il caso che il regime perseguisse una rigorosa politica razziale, impostata sulla discriminazione delle popolazioni coloniali e mirata a evitare «contaminazioni» fra italiani e popolazioni di colore, senza porre capo a una legislazione chiaramente antisemita. Il passaggio dall’una all’altra legislazione non era automatico, né necessario, essendo demandato a una decisione e a una strategia eminentemente politiche che miravano a colpire l’ebreo prima che l’indigeno.
La razzizzazione nelle colonie, e dunque all’esterno, non è da confondere – né in verità ci sembra del tutto adatta a spiegarlo – con il processo interno di razzizzazione della nazione. Come avrebbe osservato un autore politicamente al di sopra di ogni sospetto, Telesio Interlandi, il «problema dei problemi»17 era il nono punto del Manifesto della razza, quello che riguardava l’affermazione dell’estraneità degli ebrei alla «razza italiana»: un problema, continuava sempre Interlandi, che «il meticciato riparava con una nuvola di chiacchiere e con la falsificazione della storia, della scienza e dei fatti attuali»18. Era un modo, neanche troppo velato, per esprimere la convinzione che tutta la logica politica del Manifesto ruotasse attorno al punto nono, vero e proprio nucleo centrale di tutto il testo, perché il nemico da cui garantirsi e difendersi, prima che l’etiope, le altre popolazioni di colore dell’impero coloniale fascista e lo sviluppo del meticciato («una dolorosa piaga, una sorgente di infelici e di spostati» l’aveva definita Teruzzi)19, era appunto l’ebreo italiano.
Le pur modeste capacità teorico-politiche di Interlandi sollevavano un problema, quello del rapporto fra razzismo e antisemitismo, nient’affatto assodato per lo sviluppo di una politica che fosse al tempo stesso contro le popolazioni di colore e contro gli ebrei.
Almeno per limitarci al modo con cui razzismo e antisemitismo si integrano nel regime totalitario fascista, è passata quasi del tutto inosservata la questione delle modifiche subìte dal razzismo in ambiente totalitario; per dire meglio: riconosciuto che il razzismo è nient’affatto estraneo ai sistemi politici liberali, quali nuove declinazioni esso subisce nel momento in cui si associa all’antisemitismo, in una situazione storico-politica caratterizzata dal precedente avvento del sistema totalitario? Quale differenza si può riscontrare fra il razzismo in età liberale e quello che, associato all’antisemitismo, si pratica in ambiente totalitario?
Il razzismo degli Stati liberali muoveva dalla convinzione dell’esistenza di razze esterne alla civiltà, le quali potevano esse...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Ringraziamenti
  3. 1. L’antisemitizzazione del razzismo
  4. 2. Origini dell’antisemitismo fascista
  5. 3. Paolo Orano, Giovanni Preziosi e Telesio Interlandi
  6. 4. La critica fascista alla tradizione razzialista italiana
  7. 5. Razzizzazione della nazione e nazificazione del fascismo
  8. 6. Tra «razzismo biologico» e «razzismo spirituale»
  9. 7. Il «razzismo spirituale» e la domanda di un totalitarismo perfetto