Storia del Partito comunista italiano
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Storia del Partito comunista italiano

1921-1991

  1. 20 pagine
  2. Italian
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Storia del Partito comunista italiano

1921-1991

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Dal congresso di Livorno in cui nasce nel 1921, alla trasformazione in PDS nel 1991, la storia di un partito politico che ha fatto la storia d'Italia.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858100592
Argomento
Storia

Le origini e la fase di formazione

1. Il contesto internazionale e italiano

La data di nascita ufficiale del Partito comunista d’Italia, come dapprima si chiamò*, è il 21 gennaio 1921. Quel giorno una minoranza dei delegati che prendevano parte al XVII Congresso del PSI a Livorno abbandonarono il teatro Goldoni dove si teneva l’assise e si riunirono nei locali di un altro teatro, il San Marco, che durante la guerra appena conclusa era stato usato come deposito per i materiali dell’esercito, e che si presentava perciò in condizioni pietose: senza alcun impianto di illuminazione, senza sedie né panche, con le finestre prive di vetri, l’impiantito sconnesso e il tetto sfondato da cui scrosciava la pioggia. In quell’ambiente un po’ surreale, dopo il saluto dei delegati stranieri e i discorsi d’adesione dei rappresentanti di una serie di categorie operaie, delle donne e dei giovani, il congresso votò le deliberazioni che sancivano il distacco dal Partito socialista ed eleggevano gli organi dirigenti del nuovo partito.
Come per tutti o quasi i partiti socialisti d’Europa, la fondazione del PCI aveva origine dal concorso di due ordini di cause: il precipitare delle divisioni ormai da tempo sedimentate all’interno del Partito socialista, con la separazione della sua «anima» rivoluzionaria da quella riformista, e la decisione del nuovo centro della rivoluzione mondiale, la Terza Internazionale comunista sorta a Mosca nel marzo del 1919 per iniziativa dei bolscevichi, di accelerare la formazione di partiti comunisti in ogni paese, epurandoli dalle correnti riformiste e anche da quelle definite nel linguaggio di allora «opportuniste», cioè non sufficientemente determinate nel dare un taglio netto con gli istituti della democrazia borghese e con quegli esponenti degli stessi partiti socialisti che accettavano almeno provvisoriamente di riconoscervisi. Lo strappo che si produsse fu vissuto dalla socialdemocrazia europea come il frutto della fredda determinazione di una minoranza prigioniera della sua utopia, la quale, provocando la scissione di un movimento operaio fino ad allora unito, ne minava gravemente la forza e ne sacrificava gli interessi ai disegni di uno Stato – quello sovietico – e alle esigenze della sua politica estera, di cui sarebbe presto diventata nulla più che uno strumento. Questo giudizio ha lasciato tracce anche in molte interpretazioni storiografiche, ma è unilaterale e di fatto fuorviante.
Il movimento operaio – e quello italiano non faceva eccezione – era già profondamente diviso prima della guerra: in molti casi le differenze tra socialismo e sindacalismo rivoluzionario erano sfociate anche in una separazione organizzativa; e nella stessa socialdemocrazia le differenze tra «riformisti» e «rivoluzionari» – benché non sempre facili a identificarsi e di natura prevalentemente tattica – si erano sempre più acutizzate, fino ad essere in qualche caso formalizzate da una scissione. La guerra, salvo rare eccezioni, aveva – soprattutto dopo il 1916 – approfondito le divisioni: il caso più significativo fu quello della scissione che lacerò nel marzo del 1917 la socialdemocrazia tedesca, portando alla nascita del Partito socialdemocratico indipendente (USPD), il quale, rifiutando ormai la Bürgerfried (pace civile) e rivendicando il programma originario del partito, sottrasse alla SPD un buon terzo dei suoi iscritti.
La Rivoluzione d’ottobre agì a sua volta come catalizzatore di questo processo ormai per molti versi avviato. Essa forniva al movimento socialista un punto di riferimento fondamentale, una linea di demarcazione rispetto alla quale era inevitabile e necessario per ogni partito socialista definire la propria posizione. All’inizio, solo una minoranza ne prese nettamente le distanze, in nome della democrazia politica che vedeva negata dalla dittatura dei bolscevichi: una parte più ampia delle forze che si richiamavano al marxismo sembrò incline per lo meno ad aprire un credito alla rivoluzione sovietica, e ad accettare di ridefinire i criteri e gli obiettivi dell’organizzazione internazionale del movimento socialista alla luce dei suoi insegnamenti. Paradossalmente, però, proprio la vastità e l’eterogeneità del consenso che li accompagnava furono viste dai bolscevichi come un pericolo. Nell’estate del 1920, nel momento in cui, sotto la spinta dell’Armata rossa vittoriosa, la rivoluzione sembrava sul punto di dilagare dalla Polonia alla Germania e di lì in tutta Europa, essi puntavano alla costruzione non di un informe movimento di simpatizzanti, ma di partiti ideologicamente coesi e disciplinati, in grado di organizzare e guidare in ogni paese il moto insurrezionale verso la presa del potere. La sopravvalutazione del potenziale rivoluzionario esistente nei paesi sconfitti, che la pace aveva in parte svuotato dei suoi obiettivi più immediati e elementari, e la sottovalutazione delle possibilità di ripresa del capitalismo e di tenuta delle strutture borghesi nei paesi di più solida tradizione democratica, li indussero a porre condizioni duramente selettive per l’adesione alla Terza Internazionale, senza riguardo delle specifiche realtà di ogni situazione. La formazione del movimento comunista si verificò, così, per lo più nella forma di una scissione di minoranza. Il movimento operaio ne uscì irrimediabilmente diviso in due tronconi, e la maggioranza della stessa sinistra socialista rifluì in breve tempo nella socialdemocrazia, la cui leadership restò in genere alle correnti più moderate.
Su questo sfondo, il Partito comunista d’Italia fu uno degli ultimi a costituirsi in Europa. Il ritardo non fu solo casuale: rifletteva in parte l’anomalia che, nel panorama dei partiti socialisti europei, rappresentava il ceppo da cui esso si distaccò, il Partito socialista italiano. Tale anomalia toccava aspetti diversi: riguardava per esempio la composizione sociale e la geografia territoriale del partito, caratterizzato da una presenza assai più forte nelle campagne, soprattutto padane, che nelle grandi città e nelle fabbriche; si rifletteva nella debolezza e nella frammentazione della sua struttura organizzativa, molto lontana da quella possente e articolata della socialdemocrazia tedesca che rappresentava un po’ il modello dei partiti della Seconda Internazionale; si coglieva anche nella sua scarsa propensione al dibattito sulle questioni di teoria. Ma essa si manifestò soprattutto nell’atteggiamento assunto durante il primo conflitto mondiale, che distinse il PSI dagli altri partiti della Seconda Internazionale, i quali avevano, nella loro grande maggioranza, rinunciato a ogni forma di opposizione alla guerra e pienamente collaborato con le rispettive borghesie.
I socialisti italiani avevano già fatto i conti con quello che Lenin avrebbe definito il «socialpatriottismo» in occasione dell’impresa di Libia: la corrente del partito che l’aveva sostenuta (in cui spiccavano dirigenti di prestigio come Bissolati, Bonomi e Cabrini) ne era stata esclusa al Congresso di Reggio Emilia del 1912. Quando era scoppiata la guerra in Europa nell’agosto del 1914, invece, il Partito socialista italiano si era battuto strenuamente perché l’Italia ne restasse fuori. Il caso di Mussolini, direttore del quotidiano del partito, che in ottobre prese posizione per l’intervento contro l’Austria-Ungheria e la Germania, rimase isolato, tanto che si risolse nella sua quasi immediata espulsione dal partito. E anche quando, nel maggio del 1915, la monarchia e il governo Salandra, prevaricando chiaramente la volontà del Parlamento, decisero di far scendere il paese in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa, allettati dalle promesse di compensi territoriali, il Partito socialista si ritrovò sostanzialmente unito sotto lo slogan «Né aderire né sabotare». Era un’unità in buona parte di facciata, perché alcune sue componenti, a partire dal gruppo parlamentare e dai vertici della Confederazione generale del lavoro, ponevano assai più l’accento sulla seconda parte della frase, offrendosi al governo come argine per contenere la minaccia di rivolte popolari e chiedendone in cambio maggiori garanzie di libertà e di democrazia, mentre altre, come quella che faceva riferimento a Costantino Lazzari e al nuovo direttore dell’«Avanti!» Giacinto Menotti Serrati, insistevano piuttosto sulla prima, cioè sulla necessità di rifiutare ogni appoggio alla guerra, sia pure senza scendere sul terreno dello scontro aperto con il governo. Il PSI assunse, comunque, un ruolo di primo piano nelle iniziative internazionali delle minoranze socialiste contro la guerra, che si concretarono nelle Conferenze di Zimmerwald (1915), Kienthal (1916) e Stoccolma (1917): nella prima di queste esso fu l’unico partito socialista di un paese in guerra che fosse rappresentato ufficialmente, non da una frazione dissidente.
L’antibellicismo del PSI contribuì in qualche misura, polarizzando tutte le attività e tutti gli sforzi, a eludere una serie di nodi politici e organizzativi che più tardi sarebbero venuti al pettine: gli conferì l’immagine di un partito rivoluzionario e intransigente, capace di raccogliere sotto la sua bandiera tutto il movimento di rivolta delle classi subalterne contro l’ordine sociale esistente. Questa immagine era del resto confermata sia dall’immediata adesione alla Terza Internazionale, che fu formalizzata da un ordine del giorno del XVI Congresso svoltosi a Bologna nell’ottobre del 1919, sia dai toni accesi della propaganda della corrente «massimalista» che dirigeva il partito, e che aveva nel direttore dell’«Avanti!», Serrati, il suo esponente di maggior prestigio. Orgogliosi della loro fedeltà ai principi internazionalisti mostrati durante la guerra e indiscriminatamente ostili alle forze politiche e ai ceti sociali che ora si gloriavano della vittoria, i massimalisti teorizzavano la rivoluzione a breve scadenza, come frutto fatale della disgregazione dello Stato borghese e dell’ascesa delle masse proletarie, ma non si preoccupavano di organizzarla mettendo a punto una strategia di alleanze politiche e sociali; predicavano a parole l’ineluttabilità della violenza ma, perplessi in molti casi sulla possibilità e l’opportunità di ricorrervi, ne rimandavano continuamente l’uso.
Il gruppo dirigente dell’Internazionale comunista, che pure era consapevole della sfasatura esistente fra il verbalismo rivoluzionario del PSI e la sua sostanziale impreparazione a organizzare e dirigere una rivoluzione, coltivò a lungo la speranza di conquistare facilmente la grande maggioranza del partito italiano, escludendone soltanto ristrette frange di riformisti dichiarati, come Filippo Turati, Claudio Treves e i dirigenti della CGL. Tale aspettativa fu profondamente delusa dai risultati della scissione di Livorno. Le 21 condizioni per l’adesione all’Internazionale comunista sancite dal suo II Congresso (luglio-agosto 1920) furono considerate inaccettabili anche dalla maggioranza della corrente massimalista, soprattutto nelle clausole che esigevano l’espulsione immediata dei riformisti e il cambiamento del nome del partito da «socialista» in «comunista». Soltanto poco più di un quarto dei delegati presenti a Livorno, che rappresentavano 58.783 iscritti su 216.337, si pronunciò in loro favore.
Il Partito comunista che vedeva la luce al teatro San Marco fu così l’ultima delle sezioni della Terza Internazionale a nascere secondo uno schema che corrispondeva all’ipotesi strategica della «rivoluzione alle porte»: cioè da una scissione intesa a separare l’avanguardia del proletariato organizzato dalla palude del riformismo e del «centrismo» per guidarlo all’instaurazione di un regime sovietico. Questa ipotesi si fondava sulla convinzione che la guerra avesse portato a piena maturazione le premesse obiettive della rivoluzione socialista internazionale, così sul terreno delle strutture economiche come su quello delle forze sociali; che la rivoluzione stessa fosse sul punto di estendersi dalla Russia ai paesi capitalistici più sviluppati, e che il solo ostacolo che potesse frenarla fosse rappresentato dal persistere dell’egemonia dei partiti e dei sindacati riformisti in seno alle masse operaie; ma che, poiché la situazione obiettiva creava le condizioni di un rapido processo di radicalizzazione del proletariato europeo, la costruzione di un autentico partito rivoluzionario sarebbe stata sufficiente a consumare la rottura fra i capi riformisti e le masse, con un processo analogo a quello verificatosi in Russia fra il febbraio e l’ottobre del 1917.
Ammesso che avesse avuto un fondamento fino a pochi mesi prima, questo progetto era ormai anacronistico in una situazione come quella italiana dei primi mesi del 1921. All’indomani dell’occupazione delle fabbriche (settembre 1920), conclusasi con una sostanziale sconfitta delle organizzazioni sindacali, il movimento operaio e socialista aveva cominciato la sua parabola discendente. Gli scioperi, sollecitati dall’aggravarsi della crisi economica e dalla minaccia di disoccupazione, benché ancora numerosi, avevano assunto un valore soprattutto difensivo. Gli industriali avevano riacquistato il controllo della situazione, imponendo il licenziamento degli operai politicamente più attivi, riducendo i salari e instaurando nelle fabbriche un più rigido regime di lavoro. Intanto, con l’attivo appoggio economico degli agrari e di non insignificanti settori del mondo industriale, cominciava a scatenarsi nelle campagne della valle padana, poi anche nelle città, la violenza fascista. Le squadre delle camicie nere distruggevano e incendiavano le Camere del Lavoro, le cooperative, le sedi delle amministrazioni locali «rosse» e dei partiti operai.
Il PCI diventava così, suo malgrado, il paradigma esemplare della contraddizione che avrebbe dominato i primi anni di sviluppo e di consolidamento dei partiti comunisti: quella di strumenti concepiti e creati per dirigere una rivoluzione e costretti invece ad operare in una situazione non più rivoluzionaria.

2. Le radici, le componenti, l’impianto

Costituito tardivamente, il PCI aveva però alle spalle un processo di genesi e di maturazione non meno lungo e complesso di quello della maggior parte dei partiti comunisti. Anche in Italia la Rivoluzione russa d’ottobre ebbe il significato di una rottura traumatica, i cui effetti si sommarono a quelli della sconfitta di Caporetto, che indusse una parte minoritaria ma autorevole dei socialisti italiani a considerare con occhio diverso e più benevolo la «difesa della patria in pericolo». Contro questa posizione, già sul finire del 1917, cominciò ad aggregarsi nel partito una sinistra «intransigente», che almeno a parole non arretrava di fronte alla prospettiva di trasformare, secondo le indicazioni lanciate l’anno prima da Lenin, la guerra «imperialistica» in «guerra civile rivoluzionaria» e che tuttavia non prendeva ancora seriamente in considerazione l’ipotesi della scissione del Partito socialista. Ma fu solo dopo la fine del conflitto che si delineò una situazione completamente nuova. La guerra aveva modificato radicalmente la struttura e il tessuto della società italiana: era emersa una classe operaia nuova, formata nelle fabbriche militarizzate, più giovane e più impaziente di quella che aveva fatto le grandi lotte sindacali del periodo giolittiano. Nelle campagne, poi, la guerra aveva scalfito profondamente rapporti sociali consolidati. Le zone mezzadrili dell’Italia centrale, le aree bracciantili della pianura padana, e persino alcune regioni del Mezzogiorno, dove si sviluppò impetuosamente il movimento di occupazione delle terre, furono teatro di grandi scioperi e agitazioni. Il Partito socialista fu insieme protagonista e beneficiario di queste esperienze di mobilitazione collettiva: nel senso che spesso i suoi militanti e i suoi dirigenti locali, sia pure in modo non coordinato, le promossero e le organizzarono, facendo così confluire nelle sue file o in quelle del sindacato di classe migliaia di lavoratori che erano rimasti prima estranei ad ogni forma di socializzazione politica. Nel 1920 i suoi iscritti si erano quasi quadruplicati rispetto a quelli del 1914, superando la cifra di 200.000, che ne faceva per la prima volta nella storia italiana un partito veramente di massa. Questo portò a una modificazione della stessa fisionomia geografica e sociale del partito e rivelò l’inadeguatezza delle sue strutture organizzative. Il PSI continuava infatti ad essere soprattutto un’organizzazione di propaganda, senza un legame diretto con le masse, alle quali giungeva soltanto attraverso le federazioni di mestiere e le Camere del Lavoro: le sue sezioni erano essenzialmente circoli locali di cultura e di propaganda, non collegati fra loro da una direzione politica comune a livello provinciale e regionale.
Su questo sfondo presero forma, attraverso un processo di aggregazione differenziato, le diverse componenti che sarebbero confluite nel PCI. La prima di queste a muoversi con decisione sulla strada della scissione fu quella «astensionista» capeggiata da Amadeo Bordiga, un ingegnere napoletano nato nel 1889, rappresentante da tempo della critica più intransigente al riformismo, il quale già al Congresso di Bologna si era presentato come il capo di una corrente organizzata che si era qualificata con la presentazione di una mozione contraria alla partecipazione dei socialisti alla lotta elettorale. La corrente, che aveva reclutato originariamente la sua base a Napoli fra gli operai dei cantieri, i ferrovieri e i postelegrafonici, poteva contare su una rete di adesioni relativamente diffusa in tutto il territorio nazionale e su un giornale, «Il Soviet», che dava voce alle sue posizioni. Essa derivava la sua forza d’attrazione da un’interpretazione del marxismo coerente ma semplificata, imperniata sull’obiettivo dell’abbattimento dello Stato borghese e sulla valorizzazione assoluta del partito come strumento e guida della rivoluzione proletaria. A suo modo punta estrema del massimalismo italiano di cui denunciava l’impotenza, la frazione astensionista ne riproduceva in parte alcune caratteristiche sociali e territoriali, facendo registrare un peso organizzativo maggiore nei centri della provincia rispetto alle grandi città.
Carattere assai meno strutturato ebbe un’altra componente fondamentale del futuro PCI, quella che si raccolse intorno alla rivista «L’Ordine Nuovo» fondata nel maggio del 1919 da Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini nella città più industriale d’Italia, Torino, percorsa nel dopoguerra dal grande movimento dei consigli di fabbrica. Dopo una prima fase in cui la rivista si impegnò soprattutto in un lavoro di rifondazione delle premesse culturali del movimento socialista, in aperta polemica con il determinismo e l’economicismo del marxismo italiano, Gramsci e Togliatti volsero la loro attenzione ai consigli operai, cioè alle nuove forme organizzative che le avanguardie operaie, anche in polemica con la direzione della CGL, si stavano dando nelle fabbriche. Entrambi erano profondamente convinti della necessità di superare e riplasmare, attraverso strumenti di autogoverno operaio che si ispiravano a una visione per la verità idealizzata dei soviet russi, le strutture tradizionali del sindacato e del partito, e tentarono di fare della rivista il centro organizzativo e il motore di questo progetto. Dapprima questa prospettiva non fu considerata incompatibile con la permanenza nel vecchio PSI e con l’impegno a rinnovarlo dall’interno: ma dopo la sconfitta politica dell’occupazione delle fabbriche, in cui era emersa in piena luce l’indecisione della direzione massimalista, l’approdo della scissione apparve anche agli ordinovisti inevitabile. Essi vi giunsero forti di un’influenza sicuramente considerevole sul piano culturale, soprattutto fra i quadri operai, ma capace di superare i limiti regionali del Piemonte solo attraverso la rete dei rapporti fra la rivista e i suoi abbonati.
Per quanto minoritaria sia stata la scissione, se il nuovo partito si fosse limitato al seguito di quelli che retrospettivamente appaiono nei primi anni della sua vita i suoi due leader storici, Bordiga e Gramsci, la sua consistenza sarebbe stata ben modesta. Il grosso dei 59.000 militanti i cui delegati a Livorno votarono per la mo...

Indice dei contenuti

  1. Le origini e la fase di formazione
  2. In clandestinità e in esilio
  3. La Resistenza e la stagione dell’unità nazionale
  4. Gli anni della guerra fredda e dell’arroccamento
  5. Il disgelo interno e internazionale: il «centro-sinistra»
  6. L’ascesa politica e elettorale: dal «compromesso storico» alla «solidarietà nazionale»
  7. I comunisti italiani tra declino e mutazione
  8. Bibliografia
  9. Cronologia essenziale