1958. Don Milani nella Firenze di La Pira
di Alberto Melloni
Parlare di don Milani è una cosa che va sempre fatta sottovoce: la brevità, la complessità, l’intensità della sua vita rendono la sua una figura assolutamente incandescente, al tempo stesso profanabile da parte di chiunque voglia dire la sua e pericolosissima, come un fucile carico che può imbracciare chiunque per sparare su qualcun altro – e Dio sa se don Milani è stato usato con questo esito, se non con questo fine.
Un uomo incandescente che esprime e vive, talora senza rendersene conto, la grande stagione della Chiesa fiorentina degli anni Quaranta-Sessanta del Novecento: e che per questo affascina, spinge a riflettere, a scrivere, a parlarne, e insieme irrita, respinge, scosta. È stato così, don Milani, per tutti quelli che l’hanno avvicinato anche solo con la penna. Liliana Fiorani ha raccolto in un volume l’ultimo dei cataloghi della rassegna stampa su don Milani e ha prodotto un inventario che da solo supera le mille pagine unicamente per listare date, testate e articoli. Chi abbia la pazienza di sfogliarlo, anche semplicemente di leggerlo a caso, troverà di tutto, in termini di firme e di tesi e potrà rendersi conto che perfino le persone che la morte di don Milani ha sottratto agli strali, che lui certo non avrebbe risparmiato, si possono permettere di parlarne. Discettando come se don Milani fosse un pedagogista o un pubblicista o un pastoralista qualsiasi.
Proprio la assolutezza di una parola che parla alla parola spiega anche perché quella parola senza mediazione sia stata a disposizione di ogni banalizzazione, facendo di don Milani una sorta di icona pop.
Per averne prova si può anche sfogliare L’apocalisse di don Milani che Mario Gennari ha pubblicato nel 2008 per i tipi di Scheiwiller: una serie di articoli dagli anni Cinquanta a fine Novecento nei quali, ad esempio, si trova una dotta presa di distanza di un autorevolissimo ecclesiastico, il quale rimarca come ci sia qualcosa che manca a don Milani (in particolare ci si riferisce a Esperienze pastorali) e cioè la «la strana assenza, in Esperienze pastorali, del problema della donna, del suo posto nella Chiesa, nella società, nella cultura». Osservazione ineccepibile, sul piano formale, estrinseco, che però suona di faciloneria rispetto a un testo che non aveva come scopo quello di soddisfare le sistematiche del futuro d’una Chiesa che, proprio su questo punto, avrebbe ben altri da rimproverare in materia di ruolo della donna. Oppure, nello stesso volume, si trova riprodotto il giudizio di un altro ecclesiastico di rango inferiore, passato da molti partiti e da qualche disavventura canonica nel seguire le sue passioni politiche, che leggendo don Milani trova «un vuoto a un tempo di teologia e di mistica», tale per cui «ci si può domandare in che senso i suoi scritti siano un documento cristiano. Nel cattolicesimo fiorentino Milani non è stato il solo a diminuire il conflitto con la gerarchia, abbandonando di fatto il linguaggio teologico e quello mistico, e per questo il dissenso cattolico lo ha assunto come punto di riferimento, perché esso non pratica concretamente l’analisi politica». Giudizio, questa volta, falso anche formaliter, ma che mi premeva citare insieme all’altro per suggerire quell’atteggiamento di prudente riverenza che si deve avere verso una vita, sia che essa sia oggetto di un lavoro storico accurato, ma non di meno se, a partire da quella base, essa viene presentata al pubblico come in forma di lezione.
Non è una biografia di don Milani: questa meriterebbe molto tempo e molto lavoro per andare definitivamente oltre le semplificazioni e, se possibile, anche oltre quella cristallizzazione letterariamente seducente di Neera Fallaci che ha esaltato come meglio non si poteva la figura di questo prete dalla parte dell’ultimo, ma l’ha anche imprigionato in una forma narrativa eroica. Noi, invece, ci occuperemo di un frammento piccolo e particolare: quello che riguarda ciò che accade, specialmente a Firenze, quando nel 1958 esce un libro – che la Libreria Editrice Fiorentina continua a ripubblicare giustamente in una anastatica fedele nei caratteri e nei colori fin dalla copertina – che scuote la Chiesa di Firenze, la società italiana, la Chiesa universale in un momento topico della sua storia.
Prima, però, è necessario porre una premessa: il centro di don Milani – per la sua vita e per la sua storia – è l’uso della lingua e della scrittura, anzi della parola. Quella di don Milani è una parola rigorosamente austera, misuratissima, calcolata nell’uso degli aggettivi, anche e soprattutto in Esperienze pastorali che è l’unico libro intenzionalmente tale nella produzione milaniana: tale da spiegare nello stesso momento la furibonda reazione di sdegno che lo accoglie e l’impossibilità di condannarlo come tale, che lo accompagnerà. Giorgio Pecorini ha pu...