1. Il bosco alpino. Sentieri e resinose monumentali
Fig. 2. Pigna di pino cembro (Pinus cembra) nel bosco dell’Alevè, Piemonte
Dio s’è interessato di questi alberi, li ha protetti dalla siccità, dalla malattia, dalle valanghe, e da un migliaio di tempeste e inondazioni. Ma non può salvarli dagli stolti.
John Muir
Ho bisogno di torrenti, di rocce, di pini selvatici, di peccete, di montagne, di cammini dirupati ardui da salire e da discendere, incontrare il camoscio, riconoscere le tracce di una volpe, scivolare silenzioso su pelli fra i cristalli di neve silenziosi.
Klaus Carminati
1. Fra gli alberi delle montagne
Le Alpi sono un patrimonio di monumenti naturali: montagne straordinarie, paesaggi mozzafiato, alture, pascoli, alberi monumentali, cascate, laghi e ruscelli e boschi sono distribuiti su un vasto territorio, un grande bacino di terre e di acque, di rocce e di legni.
Ammetto d’aver maturato una certa passione per le conifere, per le grandi resinose: larici, abeti (rossi o bianchi, caucasici o giapponesi, canadesi o siberiani), pini (nero, domestico, silvestro, marittimo, cembro o cirmolo – definito da Rigoni Stern «vedetta arborea della natura», perché raggiunge i 2500 metri d’altitudine, là dove le altre conifere hanno smesso di radicare da un pezzo). La striscia di luce che s’intravede fra due conifere plurisecolari ha qualcosa di arcaico, come se fossero sempre state lì, dalla notte dei tempi, e tu, che sai d’essere di passaggio, ti rincuori, ti fa piacere sapere che qualcosa esiste e resiste al trascorrere del tempo. Non è per tutti, ma c’è chi trova consolante che esistano esseri viventi così longevi, qui alla tua nascita e anche dopo la tua dipartita. Il tempo si riduce fino a scomparire per attribuire valore soltanto allo spazio: «Between every two pines is a doorway to a new world», diceva John Muir, ogni due pini c’è una porta d’uscita al nuovo mondo.
Camminare in montagna fa bene: «La montagna è quiete e nutre lo spirito, l’acqua è movimento e mitiga le passioni», scriveva Bashō in Note dal tempietto dell’animo libero. Un pensiero geometrico, lineare, che sgrassa. Sostare in questi luoghi, seduti su una panchina, a osservare le foglie di faggio che si staccano dai ramoscelli e mareggiano a terra, non fa che avvicinarci a quella visione intima che molti poeti (vernacolari, haiku, crepuscolari, ma anche beat) hanno colto nei loro versi.
Fig. 3. I boschi delle regioni settentrionali
2. Foreste primarie e foreste vetuste
Esistono quelle che sono chiamate foreste primarie: luoghi rimasti incontaminati, dove la presenza dell’uomo non è mai stata stabile e significativa e le condizioni dell’ecosistema sono inalterate dall’origine. Nel mondo rimangono pochi grandi polmoni primari: due pluviali in Sudamerica, l’Amazzonia (dove vive il 50% di tutte le specie animali e arboree conosciute) e la foresta di Cile e Argentina; le Foreste del Paradiso nel Sud-Est asiatico (Indonesia e Papua Nuova Guinea, Sumatra e Giava, Isole Salomone); la foresta pluviale del bacino del fiume Congo (Camerun, Congo, Guinea, Gabon, Repubblica Centrafricana); la taiga siberiana; Nordamerica (Alaska, Canada, California, 6% della foresta originale). Queste ultime propaggini ricoprono una superficie pari all’8% delle terre emerse.
In Europa le foreste primarie sono scomparse nella maggioranza dei paesi, ne restano superfici ridottissime in Scandinavia (Svezia e Finlandia), in Polonia e Bielorussia (Bialowieza) e in Italia (170.000 ettari su oltre 10 milioni complessivi di area boschiva e boscata, 5% della superficie forestale europea).
Bialowieza è parco nazionale dal 1921 e dal 1979 patrimonio dell’umanità Unesco. La parte più significativa si estende su 100.000 chilometri quadrati, ospita ben 3000 specie di funghi, 178 generi di uccelli e 58 di mammiferi, fra i quali 800 bisonti europei, i maggiori animali del continente. Sono inoltre segnalati molti alberi monumentali, fra i quali spicca la quercia Grande Mamamuszi, alta 34 metri e con tronco di poco inferiore ai sette metri di circonferenza apd (cioè a petto d’uomo, ossia a 130 cm da terra).
In Sardegna c’è la lecceta primaria (Quercetum ilicis) più estesa d’Europa: la Foresta demaniale di Montes, sopra Orgosolo, parte del Parco nazionale del Golfo di Orosei e del Gennargentu. L’ho visitata ed è descritta nel capitolo 8.
La definizione di foresta primaria non è accettata univocamente. Per lungo tempo s’è negata l’esistenza nel nostro paese di boschi dove l’azione umana non fosse stata presente o significativa, quella che biologi e ambientalisti chiamano «continuità ecologica», idea surrogata anche dall’impatto devastante che gli avvenimenti delle due guerre mondiali del XX secolo avevano avuto sugli ecosistemi di boschi e foreste. Una definizione di «foresta vetusta» è stata messa a punto recentemente, e proprio lavorando su questa definizione il ministero dell’Ambiente ha attivato la creazione di una Rete di foreste vetuste, coinvolgendo i parchi italiani, molti ricercatori, la Società botanica italiana e il Corpo forestale dello Stato. Sono state condotte analisi vegetazionali nei boschi più remoti, che hanno portato a risultati insperati. Vi sono aspetti tecnici che andrebbero approfonditi, ma non credo che questa sia la sede opportuna. Chi è interessato, però, potrà leggerne in due documenti fondamentali: Foreste Vetuste in Italia, pubblicato a Roma nel 2010; I boschi vetusti in Italia, pubblicato su «Gazzetta Ambiente», n. 3 del 2012, entrambi disponibili gratuitamente in internet.
Nella Rete sono state segnalate 68 foreste vetuste, così collocate: 8 nel Cilento e Vallo di Diana, 7 nel Gargano, 6 in Abruzzo, Molise e Lazio, 5 sul Pollino, altrettante in Aspromonte, Stelvio, Dolomiti bellunesi e Gran Paradiso, 4 sulla Majella, 4 su Gran Sasso e Monti della Laga, 4 ancora su Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, 3 in Sila, 2 sul Gennargentu e Golfo di Orosei, 2 sui Monti Sibillini, 2 in Valgrande e una nel Circeo. Sedici invece le fisionomie forestali, ovvero la prevalenza di una specie sulle altre, con netta prevalenza del faggio. Fra le altre specie il larice, il pino cembro, il cerro, l’abete rosso, l’abete bianco, il leccio, il carpino bianco, il pino silvestre, il pino nero laricio, la rovere, il ginepro fenicio o cedro licio e l’ulivo, l’ontano nero o comune (Alnus glutinosa) e l’ontano napoletano (Alnus cordata).
Fra le foreste vetuste d’Italia ce ne sono diverse che ho visitato e altre che sono segnalate nell’ultimo capitolo del libro – dedicato a una settantina di boschi “imperdibili”. Mi pare doveroso iniziare da alcuni dei più spettacolari e meglio conservati boschi di conifera d’Italia, dislocati sull’arco alpino, luoghi che meritano d’essere attraversati in qualsiasi stagione, anche in pieno inverno, faticando per farsi strada nella neve soffice o lungo i sentieri ghiacciati. Ecco i primi boschi che voglio ricordare:
Alpi Cozie
› Selva o Bandita di Chambons (Larix decidua), Val Chisone;
› Gran bosco del Salbertrand (Larix decidua, Abies alba), Val di Susa;
› Bosco dell’Alevè (Pinus cembra), Val Varaita.
Alpi Graie
› Lariceto con esemplare millenario a Morgex (Larix decidua), Valdigne.
Alpi Pennine
› Abetina dell’Alpe Cusogna (Abies alba), Val Sessera.
Parco nazionale del Gran Paradiso
› Bosco di protezione di Artalle (Larix decidua), Val di Rhémes;
› Flotta di Bien (Larix decidua), Valsavarenche.
Sul versante orientale ci sono diversi luoghi imperdibili:
Alpi Retiche
› Parco naturale Adamello-Brenta (Larix decidua, Picea abies, Pinus cembra);
› Parco nazionale dello Stelvio (Larix decidua, Abies alba, Picea abies);
› Larici di Santa Geltrude (Larix decidua), Val d’Ultimo.
Dolomiti
› Foresta di o del Latemàr (Picea abies), lago di Carezza;
› Foresta dei violini (Picea abies), Paneveggio.
Boschi di conifere si trovano anche nelle montagne bergamasche.
3. La Selva o Bandita di Chambons
Le pendici montane sulle quali si erge, dal XV secolo, la Selva o Serva o Bandita di Chambons sono prospicienti Fenestrelle, il forte che se ne sta sdraiato come un San Bernardo pietroso in cima alla sua cuccia. Montagne irte, visitate da Edmondo De Amicis e descritte in un libro del 1892, Alle porte d’Italia; un capitolo s’intitola Il Forte di Fenestrelle, e De Amicis descrive lo sviluppo della vallata e cita episodi storici e militari: «Da Perosa in su, i monti si serrano di tratto in tratto, in maniera che la valle par chiusa, e c’è da credere in vari punti di dover voltare indietro i cavalli. La strada serpeggia, si stringe al torrente, guizza sotto le rocce, passa in mezzo a casupole schiacciate e mute, attraversa dei recessi oscuri, di aspetto sinistro, che fan pensare a viaggiatori spogliati e sgozzati»; un paesaggio da film horror. E più avanti: «I castagni spariscono, le piccole conifere s’affollano, i sassi e i petroni si ammucchiano, il Chisone rimpicciolito saltella fra i grandi macigni, accavalciato da ponticelli rustici, che ricordano i modelli scolastici del paesaggio montano, il fondo della valle si colora d’un verde più unito e più vivo; e ci bisogna torcere il collo sempre di più, per arrivare con lo sguardo alle cime altissime, sparse di casette appena visibili [...] e vediamo di là dal torrente la Selva di Chambons, la più bella delle Alpi Cozie, vasta, fittissima e bruna, come una moltitudine innumerata di giganti, affollati sui colli e pei fianchi delle montagne, che aspettino un comando misterioso per scendere, e inondare la valle e irrompere nel Piemonte». Che gran passo di scrittura... non ricorda Tolkien?
Attraversare la Selva è una cosa seria, una missione da veri cercatori d’alberi; si inerpica per cinquecento metri, dai mille di partenza ai millecinquecento. Superato un ponte sul Chisone, si parcheggia davanti al campetto sportivo, a Chambons. Ci si avvia lungo la salita che arranca sul monte, passando per i resti in pietra di un paravalanghe; ci si inoltra in una foresta di querce per arrivare ad una fonte, la fontana di Chezalet, che scorre dentro una vasca ricavata nel tronco d’un larice, dove ci si ristora. E come si può descrivere la soddisfazione e la freschezza che quest’acqua pura e gelata provoca sgorgando dalla terra e terminando nello stomaco?
Lentamente il bosco misto si trasforma in un’abetina, le pigne sembrano sigari tostati e dimenticati da un Hemingway o da un Fidel Castro di passaggio. Superata la zona, ecco altre salite impervie, mulattiere sterrate o ghiaiose che si annodano come la coda d’un serpente lungo le pendici del monte. Fino a poche stagioni fa non era raro, la mattina, incontrare mandrie di mucche piemontesi che una giovane madre portava a pascolare con la figlia; ti guardavano con curiosità ma in silenzio, è gente di montagna, avara di parole, non ha tempo per le chiacchiere di noi che veniamo dalla città col nostro carico misto di presunzione, commenti pronti ad ogni evenienza, fulminanti intuizioni politiche e culturali. Erano mucche imponenti. Alcune mostravano un carattere indipendente e avventuroso, salivano le terre alte, allontanandosi dal resto della mandria, dove trovavano erba, frasche e germogli freschi e teneri. Il mio piccolo sgomento, incontrandone una, era pari al loro: si immobilizzavano, pietrificate dal dubbio, nel mezzo del sentiero, a occhi spalancati, cercando di capire se fossi un bipede di buone o pessime intenzioni. Mi spostavo, le sorpassavo lontano dal sentiero. Scampanellando ricominciavano a discendere nel ritmo cetaceo, lanciando ogni dieci passi un gran “colpo di tamburo”. Spesso la paura che non vorremmo avere la rintracciamo in altri e non sempre ci piace.
L’ultimo strappo della salita è impegnativo, ma finalmente un’indicazione accompagna in un sentiero stretto: larice secolare. Pochi passi ed ecco gli esemplari che cercavo, enormi e mostruosi, contorti, saettanti larici che resistono da diverse centinaia di anni. La leggenda recita che siano qui dal Quattrocento, direttamente dal Basso Medioevo, ai tempi della (ri)scoperta dell’America da parte di Colombo. Ne vedo uno, una decina di metri sotto il livello del sent...