Il mondo dei documenti
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Il mondo dei documenti

Cosa sono, come valutarli e organizzarli

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Il mondo dei documenti

Cosa sono, come valutarli e organizzarli

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È possibile organizzare le informazioni senza tentare di manipolare chi le utilizzerà? Ed è possibile decifrarle senza essere manipolati? Probabilmente no, perché ogni classificazione implica delle scelte, ma questo libro aiuta a ridurre al minimo entrambi i rischi, svelandoci i concetti, i valori, le istituzioni e le professioni che regolano il mondo dell'informazione e della documentazione.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115442

V. Le istituzioni della memoria

Nei precedenti capitoli si è visto che, in linea di principio:
• ogni oggetto, se informativo, può essere considerato un documento (capitolo I);
• a ogni oggetto, in quanto informativo, possono essere associati dei metadati (capitolo II);
• varie forme di indicizzazione possono quindi rivolgersi a qualsiasi oggetto (capitoli III e IV).
In questo capitolo e nel prossimo ci concentreremo su una particolare classe di documenti, ovvero quelli che la maggior parte delle società umane effettivamente tratta principalmente e costantemente come tali, conservandoli, indicizzandoli, studiandoli e dedicando specifiche istituzioni alla loro gestione, tutela, diffusione e valorizzazione. Biblioteche, archivi e musei, con le loro reciproche continuità e discontinuità, sono le più antiche e vitali istituzioni mai create per raccogliere, conservare, organizzare e fruire documenti. In questo capitolo ne verranno sintetizzati natura, compiti, funzioni e tipologie, con particolare riguardo alle competenze dei professionisti che vi operano e alle tipologie di bisogni informativi e di utenti alle quali sono rivolte. Esse fanno parte (insieme a case editrici, librerie, scuole, università e altre organizzazioni) di numerosi circuiti documentari, dall’articolazione varia e mutevole.

1. Documenti umani intenzionali

Non sempre la comunicazione fra esseri umani avviene attraverso documenti. Durante l’intera preistoria gli umani hanno comunicato fra loro senza conoscere la scrittura e quindi senza produrre documenti testuali. Se, inoltre, si pensa che le prime pitture rupestri e le prime sculture risalgono solo a poche decine di migliaia di anni fa, se ne può dedurre che l’Homo sapiens, per la maggior parte dei 300.000 anni della sua esistenza, non abbia mai intenzionalmente prodotto oggetti finalizzati principalmente alla trasmissione di informazioni verso se stesso o altri individui della propria specie. Ciò non toglie che utensili in pietra e schegge d’osso lavorate da altre specie di ominidi e risalenti anche a due milioni e mezzo di anni fa siano giunti fino a noi, costituendo senz’altro dei preziosi documenti sui nostri antenati, ma tali oggetti furono costruiti per cacciare e per altre esigenze pratiche, non per inviare messaggi né ai propri contemporanei né, tanto meno, ai posteri.
Neppure oggigiorno creare un documento, registrandovi un contenuto informativo e recapitandolo a un’altra persona o diffondendolo fra molte, è l’unico modo che gli umani utilizzano per comunicare fra loro. E non parrebbe neppure il principale, a giudicare dal numero, dalla frequenza e dalla durata delle conversazioni orali che quotidianamente effettuiamo di persona e al telefono e che costituiscono ancora il principale (ma non l’unico: basti pensare alla lingua dei segni utilizzata dai sordi) metodo per comunicare senza intermediazione documentaria. Esistono, infatti, situazioni in cui non è tecnicamente possibile effettuare una registrazione più o meno duratura di ciò che vogliamo comunicare, altre in cui mancano il tempo o le competenze per farlo e altre ancora in cui si ritiene che non valga la pena produrre della documentazione permanente (che peraltro andrebbe poi gestita) o che sia comunque preferibile, per un motivo o per l’altro (più o meno confessabile e razionale, fra cui il piacere stesso dell’oralità o il desiderio di incalzare l’interlocutore negandogli il tempo di riflettere prima di rispondere), non lasciare tracce.
Inoltre, oggi come un milione di anni fa, tutti noi produciamo o usiamo quotidianamente oggetti (dai coltelli alle matite passando per gli edifici in cui viviamo e lavoriamo) che, pur non avendo la trasmissione di informazioni come proprio obiettivo primario, possono comunque veicolare in modo più o meno esplicito delle informazioni e quindi essere considerati dei documenti, sebbene non intenzionali.
Sono quindi sempre esistite, e continuano a esistere, sia informazioni scambiate fra esseri umani senza depositarsi mai in alcun documento, sia documenti prodotti da esseri umani senza che la comunicazione o la memorizzazione di informazioni sia la loro funzione principale. Escludendo tali tipologie dall’ambito della comunicazione umana ne emerge, per esclusione, la classe di quelli che potremmo definire «documenti umani intenzionali», ovvero di tutti quei manufatti (come libri, certificati, quadri e film) prodotti da umani e destinati a umani, con lo scopo esplicito e primario di memorizzare e veicolare informazioni.
Fig. 3. Comunicazione fra esseri umani
La comunicazione umana può scegliere di utilizzare il canale costituito dalla produzione e diffusione di documenti (ovviamente, in tal caso, intenzionali) per numerosi motivi, fra cui il desiderio o la necessità di garantire alle informazioni trasmesse una o più delle seguenti caratteristiche:
• stabilità;
• conservabilità;
• riproducibilità;
• indicizzabilità;
• possibilità di una strutturazione più articolata;
• possibilità di gestire una maggiore mole di dati;
• possibilità di arricchire i contenuti dal punto di vista grafico e iconografico;
• possibilità di correzione, aggiornamento e incremento, anche da parte di più produttori;
• trasportabilità (nello spazio) e riutilizzabilità (nel tempo), con le conseguenze dell’irrilevanza della compresenza (nello spazio e nel tempo) di mittente e destinatario e dell’uso da parte di un maggior numero di destinatari;
• autonomia dal contesto dello specifico momento in cui avviene la comunicazione (e quindi necessità di corredare le informazioni di tutti i dati essenziali per fornirne un’adeguata contestualizzazione in qualsiasi momento e per qualsiasi pubblico);
• possibilità di scelta, da parte del destinatario, delle modalità di fruizione, riguardo ai tempi, ai percorsi (introducendo così l’ipertestualità) e alla traducibilità in formati e canali comunicativi diversi (fondamentale per l’accessibilità);
• possibilità delle informazioni di essere analizzate e studiate più accuratamente;
• maggiori possibilità, da parte dei produttori stessi o di intermediari, di gestire servizi di assistenza al reperimento, alla selezione e alla fruizione delle informazioni stesse.
Se queste sono alcune fra le principali motivazioni che spingono a creare intenzionalmente documenti, non stupisce che esse ricorrano frequentemente (passando dalla potenzialità alla realizzazione, ovvero – ad esempio – dall’indicizzabilità potenziale all’effettiva indicizzazione) anche fra le caratteristiche dei documenti stessi, tanto da poter essere pragmaticamente adottate come criteri indicativi per distinguere gli oggetti che solo potenzialmente potrebbero essere considerati documenti da quelli che, in una determinata società, vengono effettivamente trattati come tali. Nessuno di tali criteri, da solo, è condizione necessaria e sufficiente per attestare che un determinato oggetto venga considerato, qui e adesso, come un documento, ma la convergenza di più caratteristiche aumenta e rafforza man mano gli indizi, fino all’eventuale comparsa dell’unica vera e propria prova inconfutabile, consistente nell’inclusione nelle raccolte di «istituzioni della memoria» appositamente create per selezionare, raccogliere, conservare, tutelare, organizzare, catalogare, valorizzare e rendere accessibili i documenti: le biblioteche, gli archivi e i musei.

2. Documenti raccolti da biblioteche, archivi e musei

I documenti prodotti intenzionalmente dagli umani per comunicare, conservare e riutilizzare informazioni costituiscono delle vere e proprie estensioni della loro memoria biologica localizzata nel cervello, della quale accrescono sia l’affidabilità che la capienza, rendendola cumulabile e verificabile, con conseguenze enormi sul destino della specie umana. Se, infatti, è soprattutto la padronanza di un sofisticato linguaggio orale a distinguerci dagli altri animali, è soltanto con l’invenzione di tecniche che consentono di fissare tale linguaggio in forma scritta che iniziò, circa 5.000 anni fa, quel periodo di rapido sviluppo tecnologico, artistico, filosofico e sociale in cui siamo tuttora immersi e che va sotto il nome di «storia».
Ma tale storia sarebbe stata ben diversa (e certamente meno rapida) se la produzione, la conservazione e l’accesso ai documenti fossero stati gestiti solo su base personale o familiare. Invece, probabilmente fin dall’inizio o comunque già a partire dalle prime fasi delle civiltà mesopotamiche, tali funzioni vennero in gran parte centralizzate e delegate a istituzioni più affidabili e longeve dei singoli esseri umani. Tali istituzioni cominciarono col conservare tavolette d’argilla contenenti annotazioni contabili e altri documenti a carattere amministrativo, per poi allargarsi a includere anche strumenti funzionali all’attività diplomatica e commerciale (come i dizionari), ai quali vennero successivamente affiancati testi a carattere letterario, didattico e religioso, e infine (ma in genere separatamente) ogni altro tipo di oggetto artistico, artigianale, tecnologico o naturale che venisse man mano considerato di interesse documentario. Prima gli archivi, poi le biblioteche e infine i musei sono così nati e si sono evoluti nell’arco di millenni, assumendo nel corso del tempo nomi e caratteristiche diverse, a tratti fondendosi e a tratti specializzandosi.
Attualmente, in prima approssimazione, potremmo dire che le biblioteche includono nelle proprie «collezioni» (o «raccolte») libri, riviste e altri documenti a carattere prevalentemente (ma sempre meno esclusivamente) testuale, che sono stati «pubblicati», ovvero che sono stati resi pubblici dai rispettivi produttori con le modalità che le tecnologie dell’epoca hanno man mano consentito a chi voleva diffondere il più possibile determinate informazioni. Tali modalità si sono limitate per millenni alla riproduzione artigianale di una singola copia alla volta, prima su tavoletta, poi su papiro, poi su pergamena e infine su carta, a cura di amanuensi che lavoravano in spazi detti scriptoria, spesso attigui o coincidenti con le biblioteche stesse. Una vera e propria rivoluzione è quindi stata l’invenzione (a metà del XV secolo, almeno per quanto riguarda l’Europa, da parte di Johann Gutenberg) della stampa a caratteri mobili e metallici, che ha permesso di produrre contemporaneamente più copie dello stesso libro, in modo più veloce ed economico, moltiplicandone esponenzialmente accessibilità e diffusione. Un’ulteriore rivoluzione, a metà del XX secolo, è avvenuta con l’invenzione dei calcolatori elettronici programmabili, che ha permesso la produzione di documenti digitali, distribuibili attraverso le reti che hanno iniziato pochi decenni più tardi a collegare fra loro i calcolatori stessi, ampliandosi progressivamente fino a diventare l’attuale internet.
Gli archivi (intesi come istituzioni della memoria e non nel senso informatico di insiemi strutturati e interrogabili di dati digitali oppure in quello, più diffuso nel linguaggio corrente, di generiche raccolte di documenti conservati in vista di un’ipotetica e comunque sporadica consultazione futura) conservano anch’essi documenti prevalentemente testuali e quindi materialmente spesso simili a quelli raccolti dalle biblioteche, con le quali vengono spesso confusi dai profani. Tali documenti però non sono stati pubblicati allo scopo di diffondere informazioni al maggior numero possibile di persone, ma prodotti da persone, famiglie, aziende, associazioni, enti pubblici e altre organizzazioni nell’esercizio delle proprie usuali funzioni. Si tratta di una miriade di documenti (appunti, schizzi, lettere, biglietti, fotografie, grafici, bollette, moduli, ricevute, dispense, tesi, certificati, attestati, contratti, bilanci ecc.) destinati a una circolazione estremamente ridotta e spesso riservata a pochi soggetti, spesso disponibili in una sola copia integralmente o parzialmente (ad esempio per quanto riguarda firma e data) manoscritta e che in gran parte vengono persi o gettati non appena abbiano terminato di svolgere la propria funzione pratica (e, purtroppo, talvolta anche prima). Quando, invece, si ritiene che conservarne sul lungo periodo almeno una parte possa risultare utile e conveniente dal punto di vista pratico, amministrativo, giuridico o storico, essi vengono selezionati, ordinati e conservati in varie tipologie di archivi.
Gli archivisti preferiscono non chiamare tali insiemi di documenti né «raccolte» né «collezioni», ma «fondi» oppure (creando una certa confusione fra contenitore e contenuto) ancora «archivi», per sottolineare la necessità del nesso (chiamato «vincolo archivistico») che lega fra loro i documenti stessi e che ne suggerisce un ordinamento che tenti di rispecchiare le modalità in cui si svolgeva l’attività dell’ente che li ha prodotti e, quindi, il modo in cui i documenti stessi venivano originariamente organizzati e conservati. Tale forma «filologica» di estremo rispetto della natura e della struttura dei fondi archivistici, tipica – specialmente in Italia – del modo di concepire l’attività di ordinamento e descrizione degli archivi storici, è chiaramente estranea a ogni forma di intenzionalità e impedisce quella relativa libertà nella scelta dei criteri di accrescimento e di ordinamento delle raccolte che è invece propria delle altre istituzioni della memoria.
I musei, infine, non hanno limiti prestabiliti alle tipologie di documenti che possono raccogliere e includere nelle proprie collezioni, tanto che le loro definizioni ufficiali potrebbero spesso applicarsi anche a biblioteche e archivi. Ad esempio l’International council of museums (ICOM) ha così aggiornato, nel 2007, la sua:
Un museo è un’istituzione permanente, senza fini di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che acquisisce, conserva, studia, comunica ed espone le testimonianze (heritage) tangibili e intangibili dell’umanità e del suo ambiente a fini di studio, educazione e diletto.
Di fatto i musei contemporanei si occupano prevalentemente di opere d’arte, ma anche di ogni altro oggetto artigianale, tecnologico o naturale che la società ritiene degno di conservazione, catalogazione e studio a fini documentari, con l’unica eccezione di quelli già conservati, appunto, da biblioteche e archivi. Essi quindi includono, sempre secondo l’ICOM, non solo pinacoteche e gallerie, ma anche raccolte etnografiche, archeologiche, naturalistiche, scientifiche e tecnologiche, così come planetari, acquari, giardini zoologici, parchi naturali e siti monumentali o comunque di interesse storico.
In biblioteca, dunque, si conservano – in linea di principio – solo documenti umani intenzionali, creati e distribuiti allo scopo di diffondere informazioni. Anche in archivio prevalgono i documenti umani intenzionali, creati però per scopi pratici diversi dalla diffusione dell’informazione in sé. In archivio, tuttavia, possono trovare posto anche documenti umani non intenzionali, se ritenuti utili a documentare l’attività del soggetto cui l’archivio si riferisce, come ad esempio un esemplare per ciascuna delle serie di oggetti (dai giocattoli alle posate) prodotti da una fabbrica. Nei musei, infine, troviamo ogni tipologia di documento, inclusi quelli umani non intenzionali (dalle frecce preistoriche ai cannocchiali contemporanei) e quelli non prodotti dagli umani (dai fossili conservati nei musei di paleontologia agli animali viventi conservati negli zoo).

3. Funzione bibliotecaria, archivistica e museale

Accanto al più intuitivo approccio storico-sociologico utilizzato nel precedente paragrafo, che si basa sulle tipologie degli oggetti conservati nelle collezioni e che tende a individuare tre diverse tipologie di istituzioni loro dedicate (la biblioteca, l’archivio, il museo), si può ipotizzare anche un più rigoroso approccio logico-funzionale basato su tre diverse funzioni (bibliotecaria, archivistica, museale) attive in realtà, sebbene in misura diversa, in tutte e tre le istituzioni, nonché talvolta anche trasversalmente ed esternamente rispetto ad esse.
Ciò che fa la differenza, in questo approccio, non sono tanto gli oggetti conservati, e neppure il motivo per cui essi sono stati originariamente creati, quanto quale delle varie funzioni documentarie che essi possono svolgere viene di volta in volta presa in considerazione. Lo stesso libro svolge una funzione:
• di tipo bibliotecario in quanto (e finché) qualcuno si interessa al significato contenuto nel suo testo;
• di tipo archivistico in quanto (e finché) qualcuno lo vede come attestazione di una determinata attività pratica (ad esempio in quanto oggetto di fabbricazione, di acquisto o di vendita);
• di tipo museale in quanto (e finché) qualcuno desidera osservarlo come manufatto particolarmente bello e prezioso (e quindi di interesse artistico) o particolarmente ingegnoso (e quindi di interesse tecnologico) o comunque dotato di caratteristiche relative alla sua fisicità.
Nel primo caso ciò che interessa è un contenuto informativo che potrebbe essere adeguatamente veicolato anche da altri esemplari, edizioni o riproduzioni analogiche o digitali; negli altri due casi invece ciò che interessa può essere talvolta un particolare esemplare (dotato di annotazioni, timbri, difetti o altre peculiarità che lo differenzino dagli altri appartenenti alla medesima edizione), oppure, in altre circostanze, un e...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. Informazioni e documenti
  3. II. Metadati e indici
  4. III. Valori per l’organizzazione dell’informazione
  5. IV. Rilevanza sociale della classificazione
  6. V. Le istituzioni della memoria
  7. VI. Competenze informative
  8. VII. Le discipline dei documenti
  9. Bibliografia