Un mondo di mode
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Un mondo di mode

Il vestire globalizzato

  1. 168 pagine
  2. Italian
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Un mondo di mode

Il vestire globalizzato

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«Tutte le mode, in un certo senso, nascono come 'emancipazione da Parigi' ma ogni storia di questa emancipazione è diversa, peculiare e ricca di implicazioni che hanno a che fare con il passato, le storie sartoriali, gli scambi commerciali tra i paesi, le specialità manifatturiere, l'emergere di nuove 'capitali della moda'. Le grandi potenze come Cina, India e Brasile sono interessate sia allo sviluppo della creatività locale, sia all'interazione con la moda internazionale in modo sempre più originale. Le nuove ricerche di antropologia della moda vanno dunque fondamentalmente in due direzioni: la comprensione della diffusione globale dei marchi occidentali e lo studio delle diverse mode locali che si affermano in modo più o meno indipendente dall'Occidente».

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115497

II. Vecchi luoghi, nuovi luoghi e luoghi comuni

I luoghi che descrivo in questo capitolo sono geografici, reali, immaginari, talvolta stereotipati. Non avrei potuto, ma neanche avrei voluto presentare un resoconto completo di tutti i luoghi culturalmente densi dal punto di vista della moda. Alcuni sono luoghi mentali che la moda predilige e utilizza, come la «bottega dell’artigiano»; oppure sono una sintesi di tutti i luoghi, come il web, luogo dei luoghi e al tempo stesso astrazione. Parigi e Londra sono come due sorelle in perenne competizione. Gli Stati Uniti hanno cominciato a traino della moda europea, superandola e tuttavia supportandola (White 2000). Ma già il modello rilassato della California non è dovuto passare attraverso l’emancipazione da Parigi, quanto piuttosto sopravvivere ad una guerra interna con New York, per trovare un posto di rilievo nell’ambito destinato a diventare la cifra vestimentaria a partire dalla seconda metà del XX secolo, il casual. L’India è una grande realtà emergente in fatto di moda: il suo passato di alto artigianato è presente più che mai in molti dei suoi designer. Ho scelto di parlarne in modo indiretto, attraverso l’esperienza dei progetti in India di Christina Kim, designer coreana con base a Los Angeles. La sua è una sofisticata moda «etica» che si sviluppa in molti paesi oltre all’India. La moda etica è una delle frontiere del cosiddetto sviluppo sostenibile, indicato da alcuni come il più promettente dei futuri possibili per la moda (Mora 2009). Anch’essa tuttavia non è esente da pensieri stereotipati, come vedremo nel paragrafo dedicato alle sue contraddizioni, spesso attribuibili ancora una volta a una visione eurocentrica delle relazioni di moda. Sembra che la moda (o meglio, l’attenzione agli aspetti simbolici del vestire, cioè la sua valenza antropoietica) sia una delle attività più diffuse e ricercate in ogni angolo del pianeta. Ho cercato di analizzare chi ancora ne è escluso e in che modo, pur essendone escluso, non può esimersi dal farne parte suo malgrado. Della moda giapponese ho sottolineato la complementarietà delle diverse anime che la compongono. Alla moda italiana ho dedicato una riflessione sul rapporto tra produzione materiale e industria culturale alla luce dei più recenti sviluppi, di quella africana ho trovato interessante tracciare un collegamento tra la generazione dei giovani stilisti e un fenomeno storico di grande interesse per l’antropologia della moda, quello dei Sapeur congolesi. Nati all’interno di una relazione coloniale e post-coloniale, oggi i Sapeur hanno parecchio in comune con i designer indie. L’ultima fashion icon, ma la prima davvero globalizzata, è senz’altro Michelle Obama, al cui guardaroba ho dedicato un’approfondita analisi. Marchi recenti possono spesso avere un legame con il passato del luogo in cui sono fondati, quasi ci fosse una cultura che porta a concretizzarsi in quel tipo di prodotto. È il caso di Lululemon, marchio specializzato in yoga e jogging, erede della tradizione naturista e salutista di un quartiere di Vancouver. L’ultimo paragrafo è infine un esempio perfetto di annuncio pubblicitario in chiave post-coloniale. Non me ne voglia l’azienda che l’ha realizzato se non ho potuto fare a meno di includerlo in un capitolo dedicato alle diverse e variegate manifestazioni della moda globalizzata.

2.1. Geografie di moda

2.1.1. Parigi e Londra: la «parisienne» e il «gentleman»

Nel Settecento la moda femminile era dominata dalla Francia e quella maschile dall’Inghilterra. Come sostiene Vivienne Westwood, la stilista britannica che nel suo lavoro ha più di ogni altro designer studiato e rivisitato la storia dell’abbigliamento e del costume europeo, tutta la moda moderna può essere interpretata come il frutto della rivalità tra le due città più importanti del XIX secolo, Parigi e Londra. La loro storia sartoriale e lo scambio di esperienze «ha contribuito a produrre una frizione culturale che ha sprigionato nuove idee, e che rende lo studio di questo secolo urbano e intelligente sia interessante che piacevole» (Ribeiro 2010: 232; trad. mia).
La haute couture nasce a Parigi a metà del XIX secolo ad opera di un inglese, Charles F. Worth (1825-1895). L’organizzazione della «moda dei cent’anni», per dirla con Lipovetsky (1989), apre un dialogo tra le due nazioni, Francia e Inghilterra, che perdura tuttora. Infatti, seppure Parigi sia indubbiamente la città della moda per definizione, spostando la focalizzazione dalla donna all’uomo, Londra non ha concorrenti. La capitale britannica vanta una produzione di beni di lusso e una sartoria che si consolida già all’inizio del Settecento ed è rivolta principalmente a un pubblico maschile. Trasmette il sistema inglese delle classi e produce un’idea dello stile che ancora riconosciamo: l’abito di Savile Row, le camicie di Jermyn Street, le scarpe (brogue) fatte a mano di John Lobb, la bombetta (bowler hat) di St. James Street (Breward 2004). Entrambe, Londra e Parigi, tra la metà dell’Ottocento e il Novecento sono metropoli cosmopolite le cui élites possono sentirsi al centro del mondo. L’Europa è il riferimento sia da un punto di vista economico, sia da un punto di vista culturale. Agli occhi dei couturier europei, l’America non è che una grande provincia priva di gusto. Nei primi decenni del Novecento Paul Poiret (1879-1944)25 tiene diverse conferenze a New York, Philadelphia, San Diego e Los Angeles, in un viaggio di presentazione delle sue creazioni. In questo viaggio Poiret scopre che gli americani pensano solo a fare soldi e non hanno tempo per occuparsi delle belle arti. Nella sua autobiografia King of Fashion (2009)26 Paul Poiret così si esprime a proposito degli americani:
Le restrizioni che gli americani hanno imposto a se stessi potrebbero avere buoni risultati nello sport e nel lavoro, ma non saranno certamente in grado di aumentare il numero dei poeti, dei musicisti o dei pittori (2009: 143; trad. mia).
Poiret si riferisce al proibizionismo americano (1919-1933) e al conseguente rapporto con il vino e con l’alcol in genere, che, scrive, oltre a essere di pessima qualità, era vietato e consumato di nascosto nei deprimenti contesti di appositi locali, all’epoca chiamati speak easy. Vino e alcol che sono invece necessari e fondamentali allo sviluppo della creatività come lo stile di vita che accompagna il loro consumo, secondo il couturier, che non a caso cita Baudelaire: «È ora di ubriacarsi! Ebbri! Per non esser gli schiavi seviziati del Tempo: ubriachi! Senza tregua! Di vino, di poesia o di virtù – a piacer vostro»27. A Poiret l’America appare dunque un paese privo di senso estetico, mal vestito e incapace di comprendere le sottigliezze europee in fatto di arte e di moda. Per gli americani, dice, la moda è solo «label», etichetta, che attaccano ai prodotti copiati dall’Europa per renderli interessanti28. «Non vedo come la massa di lavoratori americani che rifiutano di ammettere il diritto della proprietà artistica possano essere educati» (2009: 140; trad. mia).
Sin dall’apertura della sua autobiografia Paul Poiret ribadisce la sua posizione: «Sono parigino di Parigi. Sono nato nel cuore della città, in Rue des Deux-Ecus, nel primo Arrondissement» (Poiret 2009: 1; trad. mia), celebrando a un tempo l’unicità di Parigi e la correlazione tra lo stile di vita della metropoli francese e la creatività artistica che vi abbonda. Se è vero, come anche i romanzi di Edith Warthon ci mostrano, che la buona società di New York di fine Ottocento era ancora dipendente dal gusto di Parigi, e che una classica meta del viaggio di nozze era l’atelier di Charles Worth, è anche vero che le considerazioni di Poiret formulate qualche decennio più avanti ci sembrano eccessive e parziali. All’epoca dei viaggi di Poiret, Chicago e New York erano molto innovative in fatto di distribuzione (retail) e produzione, ed era già evidente il potenziale per un’interpretazione più democratica della moda quale impresa commerciale e dell’America come sinonimo di moda giovane e metropolitana (Breward 2011). Si può dire che la visione di Poiret rifletta il suo marcato francocentrismo, nell’assoluta convinzione che solo a Parigi si possa davvero creare la moda; di fatto Poiret, incapace di adattarsi ai tempi nuovi in arrivo, dopo tanti fasti e successi finì la sua vita quasi dimenticato29.
Certamente Poiret considerava Parigi il centro del mondo, ma i francesi avevano in stima anche l’eleganza inglese, con cui sin dal Settecento gli aristocratici e il bel mondo si confrontavano. Se nella prima metà del secolo anche il gentleman inglese, e non solo la sua lady, amava recarsi a Parigi per farsi confezionare gli abiti, già dal 1780 la sartorialità inglese e i tessuti ruvidi tipici della campagna erano famosi in tutta Europa e apprezzati anche in Francia. Il gentleman inglese è dunque altrettanto simbolicamente fondativo di un’identità sartoriale europea quanto la parisienne. Le due figure, la parisienne e il gentleman, rappresentano gli uomini e le donne che aspirano a modi aristocratici ma praticano le classificazioni tipiche della borghesia cui appartengono. La prima e fondamentale opposizione è quella tra uomini e donne. Simbolicamente si crea una connessione destinata a perdurare fino alla seconda metà del Novecento, tra frivolezza, moda e donna. È di questa separazione, che le due città simboleggiano, e dei diversi strati sociali che lottano per il predominio, che ci parlano anche i primi grandi studiosi di moda: Veblen, Spencer e soprattutto Simmel. Una società borghese che utilizza la moda come espressione della sua nuova forza e come strumento per gareggiare con un’aristocrazia sempre ammirata.
Una figura che mette ulteriormente in relazione Londra e Parigi, Francia e Inghilterra è il dandy. Il dandy nasce in Inghilterra nella seconda metà del Settecento con George Bryan Brummel (detto «Beau», 1778-1840); Oscar Wilde introdurrà poi i concetti fondamentali del dandy letterario nel suo romanzo Il ritratto di Dorian Gray. Ma il dandy britannico, che fa della sua vita un’opera d’arte e dell’eleganza una vocazione, ha molti seguaci anche in Francia, da Baudelaire al conte poeta Robert de Montesquiou, al quale si ispirò Marcel Proust per il personaggio del barone di Charlus nella Recherche. In Francia il dandismo diventa una filosofia di vita e un’estetica della modernità, come appare chiaro nel Trattato sulla vita elegante di Balzac (1799-1850), pubblicato per la prima volta sulla rivista «La Mode» nel 1830. Anche per Charles Baudelaire (1821-1867) il dandy è un’espressione di modernità, una delle conseguenze di un mutato ordinamento sociale nella sua epoca. Il dandismo nasce quando la democrazia non è ancora completamente affermata, mentre l’aristocrazia sta cominciando il suo declino (cit. in Monneyron 2008). Per questo Baudelaire ritiene che in Francia la figura del dandy sia in via di estinzione, mentre in Inghilterra continuerà ancora per un po’ di tempo ad avere spazio.
Per alcuni aspetti il dandy può essere considerato un’esasperazione del gentleman, un’iperbole in molti sensi, ma non una figura completamente diversa dalla mascolinità che l’Inghilterra ha espresso in parallelo e in contrasto alla seduttività della parisienne sin dal Settecento. Il dandy creato da Brummel rifiuta ogni affettazione femminile, che invece era stata caratteristica dei macaroni settecenteschi. Brummel voleva raggiungere con il suo modo di vestire una sorta di concetto universale adatto a tutte le classi e a tutte le occupazioni (Vainshtein 2010), riconoscibile nella sua perfezione solo da parte dei suoi pari, dunque portatore di un’eleganza fatta di dettagli discreti, sottili, interpretabili alla luce della conoscenza profonda di un certo milieu sociale. Autocontrollo e dignità personale appartengono tanto al dandy quanto al gentleman britannico. Come scrive ancora Olga Vainshtein, «Il dandismo del periodo della Reggenza fondò i modelli di un’eleganza autoprodotta che diventarono stereotipi dell’atteggiamento maschile nella società durante il diciannovesimo secolo» (2010: 331; trad. mia). L’eleganza del dandy, privata delle sue punte estreme, resta appannaggio, stereotipicamente, dello stile maschile inglese. Allo stesso tempo, con l’attenzione spasmodica al vestire che il dandy attua verso la fine dell’Ottocento, introduce il femminile nel maschile attraverso il vestito. «L’esteta fin de siècle», sostiene Foucault, «incarna nelle rappresentazioni collettive questa ‘sorta di androginia interiore, di ermafroditismo dell’anima’ che definisce oramai l’omosessuale alla fine del XIX secolo» (cit. in Monneyron 2008: 84).
Flaubert descrive Parigi come il «paradiso della donna», la «quintessenza della femminilità» (Rocamora 2006: 48). In ogni classe sociale, scrive il letterato e bibliofilo Octave Uzanne (1851-1931), «una donna è più donna a Parigi che in ogni altra parte del mondo» (cit. in Steele 1999: 75). È il dovere sociale della seduzione che caratterizza la haute couture parigina30. La parisienne nasce in opposizione alla donna di provincia, come ben sostiene Balzac, secondo il quale, per diventare parigini, era necessaria prima una complessa attività di «sprovincializzazione», tanto per gli uomini quanto per le donne. Per «s’emparisennier» bisognava conoscere i grandi sarti, leggere i giornali, frequentare i luoghi dove si radunava il bel mondo, sposarne i riti collettivi come la passeggiata a cavallo al Bois de Boulogne.
La parisienne e il gentleman non segnano soltanto la visione maschile e femminile dell’Europa che emerge dalla Rivoluzione industriale. Parigi e Londra, Francia e Inghilterra rappresentano anche sistemi sartoriali simbolicamente opposti: formale e informale, lusso e understatement. Fin da prima del 1750, scrive Valerie Steele (1999: 27), esisteva una dicotomia tra l’abito formale francese e quello informale inglese, notata da molti viaggiatori dell’epoca, imputabile alla diversa organizzazione politica e sociale dei due paesi. Lo splendore dell’abito di corte (grand habit), adottato in tutta Europa, domina fino alla Rivoluzione (Ribeiro 2010: 218), ma l’aristocrazia inglese, che pur avendo dimore a Londra privilegiava le residenze di campagna, faceva scuola per il modo di vestire informale, adatto alle attività all’aria aperta, caratterizzato da tessuti e stili più egualitari, con ispirazioni anche dal mondo del lavoro. Il British tweed ne costituisce forse l’esempio più noto, ma tutte le lane inglesi sono l’anima sartoriale del gentleman che, come dice Breward, è dyed in the wool, tinto nella lana. Per questo, come sottolinea Valerie Steele (1999), la divisa dell’uomo ottocentesco non è solo frutto dell’ascesa de...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. La moda globalizzata
  3. II. Vecchi luoghi, nuovi luoghi e luoghi comuni
  4. III. La moda cinese
  5. IV. Moda modesta. Islam chic
  6. Riferimenti bibliografici
  7. Immagini