II. Vivere al confino
1. I confinati
Non senza motivo l’esperienza confinaria è stata più volte ricordata come la palestra politica in cui si formarono i futuri quadri della Resistenza. La realtà dell’Italia clandestina si specchiava in quella più ristretta del confino di polizia dove erano presenti tutti i partiti di opposizione caratterizzati dalle stesse divisioni interne e dallo stesso peso politico; in numero minore erano presenti anche alcuni ex fascisti. A Lipari, per esempio, nel 1930 su trecentocinquanta confinati più della metà erano genericamente definiti «comunisti», meno del 15% «anarchici», meno del 10% «socialisti». Il resto – «antifascisti», rei di aver recato «offesa al capo del governo», «sovversivi», «antinazionali», «federalisti», «repubblicani» – costituivano meno del 3%, mentre gli «ex fascisti», gli «slavofili», i «sospetti di spionaggio» e gli «apolitici» con accusa di espatrio clandestino rappresentavano una percentuale vicina allo zero1. Tali divisioni si riscontravano non solo a Lipari ma anche in altre realtà confinarie2. Negli anni Quaranta si aggiunsero, poi, gruppi di albanesi, che furono confinati per essere rimasti fedeli a re Zog I dopo l’occupazione italiana dell’Albania.
Quanto all’origine sociale, la maggioranza dei confinati proveniva da classi umili: a Ponza e a Lipari nel 1930 più del 70% dei confinati erano operai e lavoratori manuali, appena il 10% erano impiegati e ancora meno quelli con alta formazione (poco più del 7%)3. Anche secondo la maggior parte delle testimonianze gli appartenenti alle classi lavoratrici costituivano la netta maggioranza, contro una minoranza di intellettuali, membri della media borghesia, studenti, impiegati, liberi professionisti tra cui spiccavano gli avvocati4. Se Giorgio Amendola individuava addirittura una distinzione tra i contadini – i braccianti emiliani, benestanti, ritiravano pacchi dalle proprie famiglie, mentre i pugliesi non solo non ricevevano niente ma dovevano risparmiare sul sussidio governativo per mandare qualcosa alle famiglie5 – tale classificazione sfuggiva, invece, a un confinato d’eccezione come Riccardo Gualino6. L’industriale visse l’esperienza confinaria in modo particolare perché, provenendo da una classe che al confino non era rappresentata, poté permettersi di prendere in affitto un’abitazione privata senza convivere nei cameroni e avere addirittura un cameriere, il confinato anarchico Francesco Amodeo7.
Sempre a Lipari nel 1930 quasi la metà veniva dal Nord, poco meno del 40% dal Centro, poco più del 10% dal Sud. Dei confinati provenienti dalle regioni centrali, un quarto era di Roma8. Forte era la presenza di antifascisti provenienti dalle storiche regioni rosse, quali Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Marche9. Il tipico campanilismo italiano riuscì a riemergere prepotentemente anche nelle isole di confino: si vennero formando gruppi di confinati su criteri regionali e regionalistici, talvolta più forti di quelli improntati sulla politica. Per motivi strettamente opportunistici (era più facile ottenere aiuto da un compaesano) e per motivi umani (cercare qualcuno che si conosceva direttamente o indirettamente, e sentirsi più a casa parlando lo stesso dialetto10), si costituirono veri e propri gruppi di romani, toscani, trentini, emiliani, pugliesi e via dicendo. Queste forme di aggregazione furono molto esclusive: un osservatore come Mino Maccari, inviato de «La Stampa» a Ponza e a Lipari nel 1929 per descrivere la situazione del confino di cui poco o nulla si sapeva dai giornali, notò come proprio le differenze sociali e regionali acuissero, anziché attutire, ogni divisione e distanza sociale11.
L’età dei confinati era mediamente bassa: i ventenni e i trentacinquenni costituivano la maggioranza12. Giovanni Ferro fu uno dei più giovani: arrivò a Lipari a soli diciannove anni e, probabilmente, visse l’esperienza confinaria diversamente dagli altri tanto è vero che la sua voce è discordante nel coro di testimonianze, quasi unisono, sulla difficoltà dei rapporti fra confinati di diverso colore politico. L’impressione di Ferro fu invece quella di una grande famiglia: protetto da Ermanno Bartellini, socialista di Trieste che sarebbe poi morto in un campo di concentramento nazista, questi, quasi come un padre gli offrì «la sua amicizia e mi fu prodigo di informazioni utili e di consigli intesi a farmi trovare la linea di condotta adatta in una così difficile comunità»13.
Al confino, oltre agli oppositori al governo, era presente, se pur in numero minore, anche un’altra categoria costituita dagli ex fascisti e fascisti che, per motivi vari, furono vittime del sistema repressivo creato dal regime che loro stessi avevano sostenuto. Se gli antifascisti erano stati assegnati al confino per una vera, o presunta, «pericolosità», per questo secondo gruppo le ragioni furono spesso dettate da motivi personali, da «beghe» di partito e da equilibri di potere. Sebbene il confino per i fascisti fosse un’esperienza di completo isolamento in mezzo a tanti oppositori, tuttavia, essi godettero di condizioni migliori, come confermano documenti ufficiali e testimonianze. Giovanni Ciniselli, che aveva fatto parte del gruppo dei quindici fascisti espulsi dal partito a seguito dell’inchiesta di Milano condotta da Starace alla fine del 192814 e che era stato segretario politico del Fascio di Legnano, fu assegnato al confino per cinque anni: in suo favore intervenne nientemeno che Cesare Forni, il «ras» di Pavia. Questi, in una lettera al sottosegretario al ministero dell’Interno Leandro Arpinati15, chiese, con tono colloquiale e intimo di aiutare il Ciniselli «a uscire da tale situazione». Anche se la prefettura di Milano e l’Arma dei carabinieri avevano dichiarato che «la vita pubblica del Ciniselli [era] caratterizzata da atti illeciti contrastanti con le direttive del Partito; la vita privata [era] un compendio di immoralità», Forni si espresse con parole di encomio:
Ed io, che conosco bene tanto lui quanto la sua famiglia (ottimi industriali di Mortara), e che lo ricordo pronto e valoroso squadrista negli anni della vigilia poi centurione della Milizia dopo la Marcia su Roma ho pensato di rivolgermi a te, vecchio capo di camicie nere, ed oggi collaboratore del Duce nell’Amministrazione della Politica Interna16.
Con un chiaro «sì» scritto a matita rossa apposto dallo stesso Mussolini, il fascista fu liberato. Più famoso del caso Ciniselli fu quello di Amerigo Dumini17. Nel luglio del 1928 era stato fermato in Somalia e condannato a cinque anni di confino perché sospettato di voler espatriare clandestinamente. Il comandante generale della Mvsn, Enrico Bazan, ordinò espressamente al comandante della Legione «Tavoliere» di stanza in Puglia di far passare sotto silenzio l’assegnazione di Dumini al confino alle Tremiti e di provvedere al suo isolamento dal resto dei confinati per ragioni politiche. Un caposquadra e nove militi – che dovevano essere «di sicura fede e superiori a qualunque possibile sospetto» – furono adibiti alla sua sorveglianza giorno e notte18.
Non di rado tra i fascisti che erano stati confinati e i militi dei Reparti autonomi addetti alla sorveglianza si instaurarono rapporti amichevoli e confidenziali. A Ponza militi e confinati fascisti passeggiavano in gruppo o a coppie e consumavano insieme bevande (contravvenendo a una delle regole del confino che vietava la frequentazione di locali pubblici); addirittura uno dei confinati, autorizzato a prendere in affitto una casa privata, riceveva nella propria abitazione, oltre a abitanti del luogo, alcuni militi fino alle undici di sera oppure trascorreva del tempo in compagnia a bere e suonare in casa del reverendo locale19.
Molti confinati fascisti per chiedere il rilascio anticipato utilizzarono la scusante dell’errore, dello sbaglio, dello scambio di persona, contrapponendo i propri meriti fascisti. Il confinato Pietro Meloni, maestro elementare in pensione, assegnato al confino per sospetto spionaggio, si dichiarava vittima di un equivoco definendosi un «vero italiano e fascista» e dichiarando di
sentirsi sempre tale non ostante i dolori morali sofferti in questi due anni di confino. [...] Il pensiero di essere stato considerato un traditore, il pensiero di aver gettato un’ombra sulla sua [del Meloni] vita [...] e di credere di aver disonorato con la sua condotta suo genero maggiore della R. Finanza, gli ha prodotto una nevrastenia acuta e cardiopalma20.
Mostrarsi come convinti sostenitori del fascismo era una strategia che usavano molti dopo avere tentato di ottenere la liberazione con altre strade. Andrea Rocchi – fascista della prima ora, confinato a Ponza insieme al figlio e alla moglie, ex interventista e volontario nella prima guerra mondiale – inoltrò due appelli a Mussolini perché fosse rivista la decisione nei suoi confronti della Commissione provinciale di Bologna, assicurando che l’esperienza di completo isolamento e le disagiate condizioni economiche non avevano intaccato la sua fede al regime21. Su alcuni fascisti assegnati al confino si tentò di ottenere una sorta di effetto di recupero:
Lipari era diventata una palestra di rieducazione di fascisti traviati (in genere amici e tirapiedi di esponenti provinciali, tipo Giampaoli22), caduti in disgrazia e di agenti provocatori che, dopo aver superato gli [...] esami di riparazione al confino con nuove delazioni e spiate venivano promossi di grado e reintegrati in sede della penisola23.
2. L’arresto, il trasferimento, l’arrivo
Il primo atto di prevaricazione nei confronti del perseguitato politico era costituito dall’arresto. L’avvocato Luigi Salvatori, comunista toscano e direttore del giornale «Versilia»24, fu arrestato senza alcuna spiegazione e portato in una caserma di carabinieri dove incontrò altri compagni prelevati, come lui, in tutta fretta.
[Gorini] preso dal letto della madre moribonda, mentre alla di lei bocca arida offriva il getto d’ossigeno. Santocchi tremava dal freddo: dalla fretta che gli avevano fatta [...] si era alzato dal letto, imbucando i calzoni senza mutande e le scarpe senza calze e non aveva preso il cappotto. Martini aveva dovuto attraversare la pineta, fra le erbe e gli arbusti, si era inzaccherato tutto e ammollato come un pulcino25.
L’effetto-sorpresa, a cui si aggiungeva un senso di paura, era accompagnato, non di rado, da episodi di violenza fisica. Altiero Spinelli, arrestato il 3 giugno 1927, ne fu testimone e vittima. Egli subì brutali percosse insieme al segretario del Partito comunista lombardo Vignocchi e a quello della sezione milanese Parodi quando i poliziotti trovarono nelle loro tasche delle circolari del Soccorso rosso.
Un energumeno stava balzando dall’uno all’altro dei due compagni, e come mi vide, incluse subito anche me nella girandola vorticosa di cazzotti furiosi e inefficaci, accompagnati dall’urlo: «Sono bolscevichi! Sono bolscevichi!»26.
L’arrestato restava per un tempo imprecisato negli istituti carcerari di polizia in attesa del trasferimento nel luogo dove scontare il periodo di confino assegnatogli dalla Commissione provinciale. Spinelli, dopo l’arresto, fu rinchiuso per un paio di giorni in una cella di sicurezza della questura, in completo isolamento, senza essere messo al corrente di niente e, come gli altri due, di tanto in tanto interrogato con metodi brutali, pugni e schiaffi27.
Le forme di arbitrio continuavano durante il viaggio. Sia le modalità di trasporto sia la mancata comunicazione circa la destinazione rendevano la traduzione un’esperienza molto difficile dal punto di vista fisico e psichico. Gramsci scoprì di essere stato assegnato al confino mentre era in carcere a Regina Coeli, ma non gli fu detto in quale colonia sarebbe stato mandato. Poiché il viaggio poteva durare mesi e i luoghi di transito erano molti, il tragitto diventava un vero e proprio calvario. È fortemente evocativa la descrizione del suo viaggio in una lettera alla moglie Giulia (Julca Schucht) e alla cognata Tatiana:
Immaginate che da Palermo a Milano si snodi un immenso verme, che si compone e si decompone continuamente, lasciando in ogni carcere una parte dei suoi anelli, ricostituendone dei nuovi, vibrando a destra e a sinistra delle formazioni e incorporandosi le estrazioni di ritorno. Questo verme ha dei covili, in ogni carcere, che si chiamano transiti, dove si rimane dai 2 agli 8 giorni, e che accumulano, raggrumandole, la sozzurra e la miseria delle generazioni. Si arriva, stanchi, sporchi, coi polsi addolorati per le lunghe ore di ferri, con la barba lunga, i capelli in disordine, con gli occhi infossati e luccicanti per l’esaltazione della volontà e per l’insonnia; ci si butta per terra su pagliericci che hanno chissà quale vetustà, vestiti, per non avere contatti col sudiciume, avvolgendosi la faccia e le mani nei propri asciugamani, coprendosi con coperte insufficienti tanto per non gelare. Si riparte ancor più sporchi e stanchi, fino al nuovo transito, coi polsi ancor più lividi per il freddo dei ferri e il peso delle catene e per la fatica d...