Introduzione alla sociologia delle migrazioni
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Introduzione alla sociologia delle migrazioni

  1. 288 pagine
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Introduzione alla sociologia delle migrazioni

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L'immigrazione sta modificando strutturalmente il nostro continente, la sua composizione demografica, la sua economia, la sua stessa identità, al punto che è impossibile pensare all'Europa senza fare i conti con questo fenomeno. Attraverso un'accurata selezione di teorie e ricerche prodotte dalle scienze sociali, questo manuale aiuta a comprendere il fenomeno della mobilità umana contemporanea, soffermandosi in particolare sulle sfide in atto. Dalla gestione delle migrazioni per ragioni umanitarie alle questioni politiche sollevate dall'insediamento permanente di comunità immigrate e minoranze religiose; dal problema dello svantaggio di cui spesso sono vittime i migranti alle prospettive di valorizzazione della 'diversità' per lo sviluppo dell'Europa.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858126967
Categoria
Sociologia

1.
Migranti, rifugiati, minoranze etniche

Praticamente non passa giorno che un nuovo sbarco, un fatto di cronaca nera, la dichiarazione di un esponente politico non porti i riflettori sul fenomeno della migrazione e sui suoi protagonisti: i migranti, i rifugiati, le minoranze etniche che prendono forma per effetto dei movimenti migratori. Sull’onda delle migrazioni di massa che stanno investendo l’Europa, una delle questioni più dibattute è se chi arriva debba essere definito migrante, piuttosto che profugo, richiedente asilo o, come alcuni sostengono, clandestino. Come vedremo in questo capitolo, le categorie con cui definiamo i migranti non esistono “in natura”, ma riflettono scelte di tipo politico-giuridico, atteggiamenti e vissuti della popolazione, sentimenti custoditi dalla memoria collettiva, percezioni riguardo il grado di distanza sociale tra i diversi gruppi. Esse sono “parole di Stato”, e rinviano sempre a una certa idea di confine che, a sua volta, regola i processi di inclusione/esclusione. L’immigrato, lo straniero, il rifugiato sono abbastanza vicini da interpellare la società e impegnarla in un processo di definizione che ne delimita le possibilità di inclusione; ma anche abbastanza lontani da non dissolversi completamente nel gruppo e perdere la loro specificità (Simmel 1908), ovvero la loro “definizione”.
Il glossario per lo studio della mobilità umana e dei rapporti interetnici ha dunque un’insopprimibile arbitrarietà, alla quale non possiamo che rassegnarci: pur rendendo complessa l’analisi di questi fenomeni, ne costituisce però anche uno dei lati più affascinanti. Le definizioni non sono infatti soltanto uno strumento per analizzare i processi reali, ma anche un aspetto integrante per la loro comprensione: il “discorso” sull’oggetto di studio deve essere anch’esso oggetto di studio. E, come ci avverte A. Sayad (1999), è un discorso che abbraccia tutte le dimensioni dell’esistenza: prima ancora che essere scientifico, è, allo stesso tempo, sociale, politico, economico, culturale e perfino morale.
Le parole, dunque, “contano” (Zanfrini 2015a). Contano nel determinare chi è migrante e chi non lo è; nel classificare i migranti secondo diversi tipi, che generano differenti trattamenti e posizionamenti nella gerarchia sociale; e contano nel definire il livello d’accettabilità sociale dei migranti, che a sua volta influenza le politiche migratorie e i dispositivi d’ammissione; così come nel forgiare il tono della convivenza interetnica, determinare il “posto” dei migranti e condizionare i loro comportamenti; e, ancora, contano nella misura in cui influenzano la percezione collettiva dei processi migratori – delle loro dimensioni, dei loro trend evolutivi –, stabiliscono le categorie entro le quali inquadrare l’analisi dei fenomeni sociali, favoriscono od ostacolano l’emergere di nuovi gruppi sociali, accompagnano il consolidamento delle minoranze etniche e razziali.
Questa ricognizione ci consegnerà la consapevolezza di come non esistano le parole “giuste”, poiché ogni definizione è l’esito di un processo di costruzione sociale e istituzionale inevitabilmente arbitrario. Il carattere “fittizio” e contingente dei confini che distinguono i migranti dai non migranti, definiscono le varie categorie di migranti e separano i gruppi etnici e razziali non li rende, però, meno rilevanti. Detto in modo ancor più esplicito, il fatto che le differenze di status giuridico, etniche e razziali non siano date in natura, ma siano l’esito di processi di costruzione sociale e politica, non le rende meno “esistenti”. Esse, infatti, esistono nella misura in cui gli attori sociali le percepiscono come esistenti e le erigono a criteri sui quali basare la distribuzione dei diritti e delle opportunità; così come esistono nella misura in cui i membri dei gruppi minoritari sentono di appartenervi, le impiegano come ancoraggi identitari e strumenti a difesa dei propri interessi.

1.1. Tra inclusione ed esclusione: la costruzione sociale e politica del migrante internazionale

La tradizione sociologica ci consegna un modello di interazione fra il migrante, ovvero lo straniero, e la società in cui esso viene a trovarsi che, pur assumendo fisionomie storiche diverse, rimane inalterato nella sua forma: il gruppo sociale manifesta contemporaneamente il bisogno di escludere lo straniero affermando la propria identità e immutabilità, e di includerlo al proprio interno, aprendosi all’innovazione e al cambiamento sociale (Tabboni 1986); vicinanza e lontananza, inclusione ed esclusione, sono dunque dimensioni contestualmente presenti nella relazione con lo straniero, che vi conferiscono un’irriducibile ambivalenza.
Con l’avvento delle moderne comunità statuali, questa relazione si è via via strutturata attorno ai confini della nazione: «pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione» (Sayad 1996: 9-10, corsivo nell’originale); essa costituisce il limite dello Stato nazionale che, per esistere, si è dato delle frontiere nazionali e si è dotato dei criteri necessari per discriminare tra i nazionali e gli “altri”. Così come non esiste una definizione positiva del termine “straniero”, che è descritto sempre negativamente, come colui che non è nazionale, lo stesso nazionale non esisterebbe se non in presenza – effettiva o solo possibile – del non nazionale, per il semplice gioco della dialettica dell’identità e dell’alterità. Questa intuizione di A. Sayad, uno dei più autorevoli sociologi delle migrazioni, è illuminante nell’introdurci a quella linea di demarcazione fondamentale attraverso la quale le democrazie contemporanee, comunità politiche eredi delle dottrine nazionalistiche, definiscono i migranti.
Questo modo di pensare è tutto contenuto nella linea di demarcazione, invisibile o a malapena percettibile (ma dagli effetti rilevanti) che separa radicalmente “nazionali” e “non nazionali”, cioè da un lato quelli che posseggono naturalmente la nazionalità di un Paese (il loro) (...); e, dall’altro, quelli che non appartengono a tale nazionalità, che dunque non posseggono la nazionalità del Paese in cui sono presenti e hanno la loro residenza (ibid.).
Determinando la presenza in seno alla nazione di “non nazionali”, l’immigrazione ha però l’effetto di perturbare tanto l’ordine nazionale quanto la linea di frontiera tra ciò che è nazionale e ciò che non lo è. Proprio per questa ragione, come vedremo, la definizione della figura del migrante – o per meglio dire dei diversi “tipi” di migranti – è l’esito degli interventi di regolazione della mobilità; così come, proprio per questa ragione, negli Stati contemporanei vi è una stretta relazione tra i regimi migratori e i regimi di cittadinanza. D’altro canto, per come oggi la conosciamo, la figura del migrante è una “invenzione” della società moderna, contestuale all’invenzione delle nazioni, che ha reso perentorio definire chi vi appartiene e chi no. È lo stesso Sayad a segnalare brillantemente questo aspetto, che è poi il motivo per cui trattare di immigrazione ci suscita sempre un certo “imbarazzo”:
Riflettere sull’immigrazione rinvia a interrogare lo Stato, le sue fondamenta, i suoi meccanismi interni di strutturazione e di funzionamento; interrogare in tal modo, mediante l’immigrazione, lo Stato significa in ultima analisi “denaturalizzare” per così dire ciò che si considera “naturale” nel senso in cui si dice che qualcosa “è naturale” o “va da sé”. La riflessione sull’immigrazione conduce a “re-storicizzare” lo Stato e ciò che nello Stato sembra colpito da amnesia storica, cioè a ri-ricordarsi delle condizioni sociali e storiche della sua genesi (...). L’immigrazione disturba perché obbliga a smascherare lo Stato, a smascherare il modo in cui pensa e si pensa, come rivela il suo modo specifico di pensare l’immigrazione (ivi: 11; corsivo nostro).
Invero, nell’esperienza delle comunità statuali contemporanee, a definire il migrante – al di là di tutte le distinzioni che avremo poi modo d’introdurre – o, per essere più precisi, il migrante internazionale, è esattamente la sua non appartenenza alla comunità dei cittadini, dei nazionali. Comprendiamo, in questa luce, perché l’immigrazione sia emersa come un problema politico da gestire – oltre che come uno specifico oggetto d’analisi per le scienze sociali – soltanto nel momento in cui gli apparati statali hanno cominciato a rilasciare agli individui un passaporto riconoscendo la loro membership alla comunità nazionale, a esercitare un’azione di policing delle frontiere nazionali e a disporre della capacità amministrativa di distinguere tra immigrati “desiderabili” e “non desiderabili” (Wimmer 2009).
La distinzione tra il nazionale e il non-nazionale appartiene però, totalmente, all’ordine dell’arbitrario: essendo testimonianza del modo specifico di “pensare” l’immigrazione, le categorie attraverso le quali definiamo i migranti sono infatti, a dispetto della loro pretesa “oggettività”, il precipitato delle ideologie nazionali di cui ciascuno Stato si è dotato per portare a compimento il proprio progetto di nation-building. Queste ultime, inoltre, hanno forgiato non solo i modi attraverso i quali le migrazioni sono state percepite e gestite, ma anche lo stesso discorso sulle migrazioni sviluppato dalle scienze sociali, intriso di nazionalismo metodologico (Wimmer, Glick Schiller 2003). Discorso che, a sua volta, è servito a legittimare un governo dell’immigrazione funzionale al progetto di nation-building così come si è realizzato nei vari contesti e nei diversi frangenti storici.
Non per caso, la prima analisi sistematica delle migrazioni (Ravenstein 1989) non contemplava alcuna distinzione analitica tra i movimenti interni e quelli internazionali, rispecchiando un contesto nel quale le migrazioni erano sostanzialmente libere o addirittura incoraggiate. Ben presto, però, lo Stato-nazione si conformerà all’idea di una comunità di discendenza politicamente unitaria ed etnicamente e culturalmente omogenea, in cui la nazionalità si sovrappone alla cittadinanza. Attraverso assimilazioni forzate, snazionalizzazioni, trasferimenti volontari o coatti di popolazioni, stermini di massa, pulizie etniche, lungo l’itinerario di formazione degli Stati-nazionali – che sacrificarono masse inermi di popolazioni sull’altare della purezza nazionale o etnica (Corni, 2009) –, questi ultimi arrivarono sempre più ad aderire a un principio di isomorfismo tra la popolazione di un Paese – ovvero il “popolo” –, il territorio di esercizio della sovranità, a sua volta delimitato dai confini statuali, e l’appartenenza definita dalla cittadinanza. Si spiega così perché le migrazioni internazionali, costituendo un’antinomia a tale principio, fossero destinate a divenire l’oggetto di un’attenzione “speciale” (Wimmer, Glick Schiller 2003). Nel XIX secolo, gli Stati cominciarono a dar vita a istituzioni per regolare la mobilità internazionale delle persone e la possibilità di soggiorno temporaneo o permanente sul proprio territorio. L’introduzione dei passaporti e dei documenti d’identità, all’inizio del XX secolo, formalizzerà a sua volta lo status del cittadino e, di conseguenza, quello dello straniero. Infine, con lo scoppio della prima guerra mondiale – che coincise col definitivo compimento del regime migratorio liberale – l’affiliazione nazionale divenne un aspetto ancor più cogente: l’idea di una comunità nazionale di destino acquisì una plausibilità senza precedenti, e con essa la distinzione tra amici e nemici, fondata appunto sul background nazionale. Il processo già avviato di costruzione di un sistema di controllo dei flussi fu ora inscritto in forme inedite di policing dei confini. Per entrare e risiedere in un determinato Paese divenne necessario ottenere un permesso, una sorta di metafora della distinzione tra nazionali e stranieri (coloro che, appunto, necessitavano di una specifica autorizzazione). Il concetto di confine assunse così il suo significato contemporaneo, delimitando non solo il territorio d’esercizio dell’autorità statuale, ma fungendo anche da filtro per selezionare coloro che, pur non essendo cittadini di un determinato Stato-nazione, aspirano a risiedere e lavorare in esso. Nell’intervallo tra le due guerre, fu istituzionalizzato un complesso apparato per la limitazione e il controllo dei flussi migratori, laddove gli immigrati erano spesso visti come i nemici naturali della nazione. Ed è proprio in questo periodo che le scienze sociali cominciarono a giocare un ruolo importante nella concettualizzazione dell’immigrazione. La Scuola di Chicago, in particolare, finì con l’accreditare l’idea di una differenza razziale tra la nazione “bianca” americana da un lato e, dall’altro, gli immigrati d’origine europea, gli ebrei, senza parlare degli afro-americani, ritratti alla stregua di outsiders della nazione. Nel dopoguerra, l’istituzionalizzazione delle Nazioni Unite e la concessione dell’indipendenza alle ex colonie contribuirono a rendere egemone una visione del mondo come diviso in un gran numero di Stati-nazione, di pari dignità e tutti ugualmente sovrani, mentre la retorica patriottica entrava a fare parte integrante dei programmi di educazione civica. «Le persone erano immaginate come ciascuna avente soltanto uno Stato-nazione, e per appartenere all’umanità si presumeva fosse necessaria un’identità nazionale» (Wimmer, Glick Schiller 2003: 592-593). Ed è in questo contesto che, accanto alla nazione, alla cittadinanza e alla sovranità, s’impose l’idea di un gruppo di solidarietà: col consolidamento delle diverse varianti nazionali di Welfare State, il progetto nazionalistico raggiunse il suo culmine e il suo compimento. Da qui in poi i confini nazionali marcheranno il limite d’accesso ai privilegi garantiti dall’appartenenza a questo gruppo di solidarietà, limiteranno l’afflusso di immigrati e costituiranno dei vessilli al cui interno contenere e coltivare le culture nazionali. E la figura dell’immigrato arriverà a condensare tutte le caratteristiche che la rendono un fattore di disturbo per l’ordine degli Stati-nazione. Gli immigrati, infatti, sono stranieri, e in quanto tali estranei alla comunità fondata sulla lealtà verso lo Stato e i diritti di cittadinanza garantiti dallo Stato; sono non-nazionali, e in quanto tali sfidano l’idea di omogeneità della nazione; poiché vengono da fuori rispetto ai gruppi di solidarietà sviluppati dalla comunità nazionale, sono percepiti come illegittimi beneficiari dei sistemi di welfare; avendo attraversato i confini delle nazioni, rappresentano un’eccezione alla regola della residenza sul territorio dello Stato-nazione al quale “si appartiene”; da ultimo, sono spesso rappresentati come potenziali nemici, così che il governo delle migrazioni è sempre più collegato ai temi della sicurezza, tanto da erigere la “difesa delle frontiere” a baluardo della sovranità e dell’identità statuale.
Quanto abbiamo sin qui illustrato chiarisce come tanto la distinzione tra cittadini e stranieri, quanto la categoria del migrante internazionale – e, ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. Migranti, rifugiati, minoranze etniche
  3. 2. L’Age of Migration: cosa genera le migrazioni contemporanee
  4. 3. L’integrazione nella sfera economica
  5. 4. La convivenza interetnica
  6. 5. Generi, famiglie e generazioni nei processi migratori
  7. Postfazione
  8. Riferimenti bibliografici