428 dopo Cristo
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428 dopo Cristo

Storia di un anno

  1. 242 pagine
  2. Italian
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428 dopo Cristo

Storia di un anno

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Un anno, il 428 d.C., scelto volutamente perché un anno qualunque. Di quest'anno Traina costruisce un avvincente giro d'orizzonte, accompagnando il suo lettore dalla Siria all'Anatolia, dai Balcani all'Italia, dalla Gallia all'Inghilterra, dalla Spagna al Nordafrica sino all'Egitto, alla Palestina e alla Mesopotamia, attraverso le province formicolanti di popolo e di commerci, di soldati e di funzionari, di vescovi e di monaci. Ne emerge un impero assai più meridionale che nordico, più orientale e greco che occidentale. Un impero che si voleva eterno, ma che stava cambiando.Alessandro Barbero, "Tuttolibri"

«Il nostro sarà un vero e proprio viaggio attraverso il mondo tardoromano. Vivremo insieme alle dramatis personae di questo lungo anno: gli imperatori Teodosio II, Valentiniano III e Vahrâm V; generali romani come Flavio Dionisio; capi barbari come Genserico o signori della guerra come il saraceno al-Mundhir. E poi religiosi come Simeone Stilita, Paolino di Nola e Agostino; donne di potere come Galla Placidia e Pulcheria; intellettuali pagani come Macrobio o Plutarco di Atene; vescovi potenti come il siro Rabbula o il copto Scenute. Lo sfondo è il tramonto dell'impero romano. O, se si preferisce, l'alba del medioevo.»

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858129715
Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

VII.
Prove tecniche di medioevo

Per il momento, l’Italia non temeva la minaccia barbarica. Merito del ravvicinamento tra Ravenna e Costantinopoli, ma anche della sagacia e della competenza dei decisi quanto spietati generali imperiali. Non tutti, però, concedevano loro la debita riconoscenza, a cominciare dai flemmatici e affettati senatori, che provavano sentimenti ambigui. I militari proteggevano le loro vite e i loro beni, ma erano pur sempre dei soldatacci, spesso di origine barbarica. Inoltre, gli aristocratici erano allarmati dalla crescente influenza degli ufficiali a corte. In quegli anni scriveva Macrobio:
Che dire dei generali e dei militari? Non fanno che cercar di tirare in ballo le proprie imprese, e al tempo stesso restano in silenzio, temendo che li si possa accusare di arroganza. Ma se per caso qualcuno li invita a raccontare, allora sì che si ritengono ripagati delle loro fatiche! Infatti, per loro è una ricompensa il solo fatto che qualcuno voglia ascoltarne le gesta. Il problema è che simili narrazioni evocano un’atmosfera di gloria. Di conseguenza, se tra il pubblico sono presenti degli invidiosi o dei rivali, questi si mettono a fare rumorose obiezioni, o prendono a raccontare altre storie, per impedire che l’oratore di turno possa venir lodato per le gesta che racconta (Macrobio, Saturnali, 7, 2, 7-8).
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Le Gallie.
Negli ambienti esclusivi frequentati da Macrobio, i ge­nerali entravano in punta di piedi, cercando di mantenere un basso profilo, per evitare che qualche maldicente potesse ­denunciare a corte un loro eccesso di baldanza. Ma bastava poco – un invito a prendere la parola, o la presenza di un rivale – perché il comandante gettasse la maschera, apparendo al loro dotto pubblico come un miles gloriosus di plautina memoria.
Gli ufficiali più accorti affidavano la propria immagine a letterati di fiducia, che ne tessevano le lodi in poemi e panegirici. Il materiale per ispirarsi non mancava: le battaglie più o meno importanti sui vari fronti, ingaggiate per arginare le continue incursioni dei ‘barbari’, erano all’ordine del giorno. Infatti, negli ultimi trent’anni, i territori imperiali erano stati occupati da numerose popolazioni ‘esterne’, a Oriente come a Occidente. Nei periodi più difficili, l’impero aveva preferito accettarne e formalizzarne la presenza, ma ora la situazione era più favorevole per inviare le legioni alla riscossa. I settori militari più importanti si trovavano nella prefettura gallica, dove le recenti migrazioni di popoli avevano sconvolto l’assetto del territorio. Dal 425, il comandante supremo di questo settore operativo era l’astro nascente dell’esercito romano, il generale Aezio1.
I popoli invasori cercavano di stabilirsi nelle province romane soprattutto per i vantaggi che offriva l’organizzazione imperiale. Il loro insediamento era confermato da un trattato con Roma detto foedus, che assegnava loro un territorio dove potevano insediarsi con le famiglie. Peraltro i barbari foederati non erano completamente integrati, dato che non avevano diritto alla cittadinanza romana. Impiegati come coloni e come soldati, essi costituivano una categoria sociale a parte2. In teoria, quindi, si trattava di comunità distinte, isolate dai romani per le usanze e per lo stile di vita. In effetti, molti di questi gruppi erano riusciti a preservare una certa identità etnica, e questo può forse spiegare un fenomeno osservato da Peter Heather nella documentazione scritta sulle grandi migrazioni: alcune etnie, apparentemente scomparse in una data epoca, ‘riappaiono’ dopo alcuni decenni. Naturalmente, non tutti i gruppi erano dotati di un’identità così forte, e in alcuni casi erano semplicemente assorbiti da altri gruppi più forti3.
Si è ritenuto che queste coalizioni di popoli possedessero già allora un’identità etnica ben definita. Questa errata interpretazione dipende in gran parte dalle derive ideologiche della tradizione moderna, che ha attribuito ai barbari delle precoci identità ‘nazionali’4. In realtà, nel V secolo, l’identificazione etnica di un guerriero o di un clan di guerrieri dipendeva spesso dalle origini del comandante che avevano scelto di servire. La stessa identità di popolo e lingua, che per noi ha assunto un valore assiomatico, presso i popoli migratori era molto più sfumata. Una certa omogeneità si riscontrava solo nel gruppo dominante, che dava il nome all’etnia. Di fatto, i gruppi di ‘barbari’ venivano chiamati con i loro nomi effettivi – goti, unni, svevi, vandali, franchi – ovvero con dei nomi dal sapore più classico, quali ‘sciti’ o ‘massageti’. Ma varie tracce linguistiche mostrano elementi di commistione fra le etnie in contatto, come nel caso dei burgundi e degli unni nella prima fase delle migrazioni5.
Comunque, nonostante la relativa integrazione di elementi barbarici fin nel cuore dell’impero, queste comunità erano accolte con terrore. Ancor oggi, l’espressione «invasioni barbariche» è fortemente radicata nell’immaginario dei popoli latini6. Molti autori dell’epoca esprimono l’angoscia e la paura della violenza che gli invasori avevano portato fin nel cuore dell’impero, saccheggiando Roma nel 410. In Gallia, la popolazione locale aveva un terribile ricordo dei barbari. La memoria delle invasioni si stemperava nell’immaginario. I supplizi di molti martiri cristiani delle Gallie furono imputati a un capo barbaro di nome Chrocus, ma le fonti discordano sia sulla datazione che sulla sua origine7. La descrizione più suggestiva dell’arrivo dei barbari si deve a Orienzio, un chierico della Gallia che fu probabilmente vescovo in Guascogna e che, intorno al 430, rievocò il loro arrivo in un poemetto scritto per esortare gli uomini alla vita cristiana:
Guarda come la morte ha travolto il mondo intero,
quanti popoli ha colpito la furia della guerra.
Non bastano i fitti boschi, né i monti elevati e impervi,
non basta la furia dei fiumi dai gorghi travolgenti,
le fortezze ben situate, le città protette da mura,
i luoghi sbarrati dal mare, lo squallore dei nascondigli,
il buio delle grotte e degli antri nelle rocce,
nulla è servito a evitare i branchi dei barbari. […]
Nei villaggi e nelle ville, nei campi e nei crocicchi,
In tutti i borghi, sulle strade e da ogni parte,
morte, dolore, massacri, incendi, lutti:
tutta la Gallia fumò in un solo rogo
(Orienzio, Commonitorium, 2, 165 sgg.).
Con simili immagini, gli autori come Orienzio contribuirono a creare il mito delle masse barbariche, delle orde innumerevoli di invasori. Certo, l’epoca delle Grandi Migrazioni determinò la mobilitazione di una popolazione abbastanza numerosa, che non comprendeva solo aristocratici e religiosi, ma uomini, donne e bambini di ogni ceto8. È però difficile generalizzare questi dati, anche perché l’incontro tra popolazioni non fu sempre conflittuale, e il fine ultimo dei ‘barbari’ non era necessariamente la distruzione (anche se la scarsità di fonti può dare l’impressione che alcuni centri si fossero trasformati in città fantasma)9.
D’altra parte, i cittadini romani che risiedevano nelle province assediate dai barbari, ovvero nelle campagne tartassate dalla pressione fiscale e dalle requisizioni dell’esercito, avevano molte ragioni per trascurare gli ideali patriottici della propaganda imperiale. In molte regioni occidentali, la crisi aveva incrementato il fenomeno del banditismo sociale. Nelle Gallie (ma anche nella penisola iberica), le bande di contadini/briganti erano note con il nome celtico di Bacaudae o Bagaudae, già attestato verso la fine del III secolo10. L’ultima rivolta, scoppiata nelle campagne tra Senna e Loira, era stata sedata intorno al 417. La repressione permise di tenere la situazione sotto controllo per una ventina d’anni, senza però eliminare il fenomeno: i Bacaudae avrebbero ripreso le armi, ancor più violentemente, verso il 43511. Intorno al 428, la presenza dell’esercito di Aezio dovette scoraggiare eventuali propositi di rivolta.
Il problema più evidente era la coabitazione tra barbari e romani, vista con apprensione dai cittadini imperiali delle Gallie: una delle loro angosce ricorrenti era quella di trasformarsi in ‘semibarbari’12. Ansia ben giustificata, visto che le Gallie, con l’assenso imperiale, erano state parzialmente occupate dagli invasori. Nel 413, l’imperatore Onorio aveva concesso ai burgundi un’area tra Borgogna e Renania, dove sarebbero rimasti fino al 43713. Quanto ai visigoti, avevano già ottenuto da Ravenna il riconoscimento della loro sovranità: nel 419 si erano stabiliti in Aquitania, fissando a Tolosa14 la sede del regno.
I contatti con l’impero romano, e l’incontro fra tribù diverse come visigoti e ostrogoti, modificavano le caratteristiche di queste etnie. Ad esempio, il linguaggio del potere dei re di Tolosa si ispirava alle istituzioni romane15. Ciò contribuisce a spiegare perché i visigoti abbiano lasciato scarse tracce della loro presenza materiale in Aquitania, diversamente da quanto poi fecero in Spagna alcuni decenni dopo16. All’epoca delle grandi migrazioni, alcuni capi più risoluti e politicamente intelligenti contribuirono a formare delle coalizioni multietniche, dove il carisma del re e delle aristocrazie guerriere contava molto più dell’identità tribale e familiare. Inoltre, i successi di una nazione barbarica potevano determinare presso gli altri popoli l’adozione di ‘mode’ e analoghe forme di emulazione17.
Del resto, non tutta l’aristocrazia del regno di Tolosa era di origine visigotica. Alcuni erano guerrieri di altre etnie, che avevano approfittato del temporaneo ritiro degli unni dopo le operazioni di Felice in Pannonia nel 427. I mercenari dell’est cercavano di farsi arruolare d...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Ringraziamenti
  3. I. Il viaggio di Flavio Dionisio e la fine dell’Armenia
  4. II. Il mondo di Nestorio: vescovi, monaci, saraceni
  5. III. Sulla Via dei Pellegrini
  6. IV. La nuova Roma e il suo principe
  7. V. Anatomia di un impero
  8. VI. Da Ravenna a Nola: l’Italia della transizione
  9. VII. Prove tecniche di medioevo
  10. VIII. Aspettando i vandali
  11. IX. Pagani e cristiani sul Nilo
  12. X. Pasqua a Gerusalemme
  13. XI. Il Gran Re e le sette principesse
  14. Epilogo
  15. Immagini