Le regole della fiducia
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Le regole della fiducia

  1. 122 pagine
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Le regole della fiducia

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Dalla comunicazione pubblica al linguaggio della vita quotidiana, la fiducia è tornata ad essere un punto di riferimento: si chiede, si coltiva, si revoca, costruisce e demolisce mondi, si dà e si ha fiducia. Improvvisamente essa riemerge da teorie polverose e diventa la parola chiave di fronte alla crisi economica, alle difficoltà di governi e parlamenti, alla diffidenza di tutti i giorni nei confronti dei mercati. Eligio Resta ripercorre le tracce del concetto di ‘fiducia' nel diritto, nell'economia, nella filosofia. Con qualche inattesa sorpresa.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116043
Argomento
Law
Categoria
Legal History

III. «Giura che non lo dirai a nessuno!»

Le parole – si sa – lasciano tracce, persino della cancellazione delle tracce. Suggeriscono mondi complessi che esse rappresentano con l’infedeltà che soltanto gli interpreti possono attribuire loro. Il gioco scivola dal piano dei segni11 (della signatura rerum) a quello dei significati, con la ricchezza che la semantica storica finisce per indicare intorno a parole e loro usi linguistici: gioco molto più raffinato del puro intrattenimento etimologico – e mai riducibile ad esso –, se non a costo di irreparabili misconoscimenti. E mai come per l’universo linguistico che si accompagna al «campo» della fiducia, dell’affidare, dell’affidarsi, del confidare e del confidarsi, del diffidare, della perfidia; non c’è, appunto, da «fare» affidamento su significati univoci, né da aver fiducia in questo o quel vocabolario che assegni, in via de-finitiva, de-finizioni. L’identità dei significati delle parole non è mai soltanto «premio», è soprattutto prezzo di una separazione, di una provenienza, di un’origine comune che è stata progressivamente omessa e dimenticata. Racconta non delle cose come sono; semmai di come hanno smesso di essere, di come avrebbero potuto essere. L’effettualità dei significati «narra» di esclusioni, di mondi di possibilità escluse ma non eliminate. Che tutto questo poi possa essere interpretato come illuminismo (non arrogante, meno banale di quello celebrato) è altro discorso.
L’esordio di émile Benveniste è apparentemente rassicurante: «l’espressione per eccellenza della nozione di ‘fedeltà’, la più generale e nello stesso tempo la meglio caratterizzata in indoeuropeo occidentale, è quella del latino fides»12 che si proietta in campi di azione e sistemi linguistici diversi, da quello religioso, a quello morale, filosofico e giuridico. Un’unica struttura si diffonde in vari campi e, questo è il motivo d’interesse, da un unico ceppo i significati si articolano nelle diverse sfere piegando l’orizzonte di senso, quasi ad indicare che la variabile indipendente è costituita dalle sfere e dai sistemi di azione. Anche qui il gioco è quello dell’identità e della sua differenza, nel senso che lo stesso è differente: nel linguaggio di Benveniste tutto questo è indicato dal rapporto tra «modalità della nozione» e «relazioni delle forme» che è un modo diverso per indicare il sistema complesso delle variazioni semantiche.
Benveniste lo spiega attraverso la corrispondenza tra la famiglia linguistica della fides e il verbo pèithomai greco che indicava legame, obbedienza, vincolo e da cui derivano, più tardi, peithò (persuasione) e pìstis (fede) che nella forma verbale pistoùn indicava l’impegnare con una promessa, obbligare alla fedeltà e quindi aver fede.
Tracce di questa indifferenziazione tra aver fede e persuadere attraverso promesse potrebbero ancora essere rinvenute, dopo Omero, nell’Orestea di Eschilo. Atena ricorre a Peithò per convincere le Furie a fermare la vendetta nei confronti di Oreste, promettendo, con una «nobile menzogna», che se avessero lasciato che Oreste narrasse le proprie ragioni davanti a dikastài, avrebbero ottenuto nel mondo sotterraneo delle divinità un riconoscimento come «straniere residenti». Persuasione, promessa, patto, nobile menzogna raccontano in Eschilo, e non per caso, dell’origine della giustizia13. Storia di una metamorfosi, questa: dall’ordinamento ctonio alla giustizia di uomini nei confronti di altri uomini. La «teologia» del vincolo pattizio, come è noto, ritornerà a fondare il moderno, con le sue «promesse», con il suo obbligo politico convenzionale, con le sue «nobili menzogne». Il performativo che Michel Serres vede nel moderno ricalca la teologia della promessa ed è proprio questo ad aprire uno squarcio importante sulla dimensione genetica del diritto14. Il convenzionalismo ne fornirà in seguito soltanto il quadro di giustificazione teorica.
L’indicazione di Benveniste ci conduce verso una possibile lettura delle trasformazioni del fenomeno della fiducia e della sua incorporazione nel diritto. Innanzitutto, si avverte, non è corretto con-fondere immediatamente fides e fiducia: facendolo, si misconoscono espressioni come fides est mihi, o fidem habere, che invertono il senso dell’investimento fiduciario. Così fides est mihi apud aliquem significa, ricorda Benveniste, che qualcuno ha, ripone, fiducia in me; tale espressione inverte il senso della nozione di fiducia che noi adoperiamo: non sono io ad aver fiducia, ma è l’altro che nutre in me fiducia. Tutto si articola sul dativo mihi che si ribadisce essere indicativo di un possesso/potere: investire nella fiducia verso di me significa che io «dispongo» di un potere fiduciario che l’altro mi concede a piene mani. L’apud aliquem (presso qualcuno) indica luogo, origine, collocazione dell’investimento fiduciario a me rivolto. «Il possessore della fides detiene dunque un titolo che è depositato ‘da, presso’ qualcuno: il che dimostra che fides è in senso proprio il ‘credito’ di cui si gode presso il partner. Tutti gli esempi antichi lo dimostrano»15.
Il passo merita qualche riflessione: il carattere relazionale della fiducia (apud aliquem, alicui, da uno verso l’altro, da uno nell’altro) riproduce, come è facile vedere, uno schema giuridico. Il linguaggio si presenta come tipicamente contrattuale, e questo può avvenire per due precise ragioni. La prima può essere quella di un inconsapevole giuri-centrismo in cui si può facilmente cadere parlando di scambio sociale di natura etico-religiosa, perché il linguaggio giuridico è «influente» e dotato di alta formalizzazione. Non sarebbe la prima volta in cui si assiste ad una «colonizzazione» del linguaggio delle pratiche sociali da parte del diritto; ciò può derivare da una singolare Drittwirkung che il diritto riesce a garantire o da fattori «etnometodologici» connessi alla storia dei ceti, agli strumenti di trasmissione del sapere e cose di questo genere.
La seconda ragione ci porta al cuore del nostro tema; quando la giuridificazione della fiducia incorpora nel diritto il contenuto dell’investimento fiduciario, non fa altro che riproporre uno schema indifferenziato di pratiche e di relazioni sociali che il diritto piega e traduce nei suoi codici: così la fiducia continuerà ad essere fiducia, smettendo di essere fiducia. La giuridificazione indica sempre una dimensione semantica di questo genere, e mai come nel caso del gioco fiduciario: nelle pieghe delle parole emerge quella piccola spia contenuta nella parola «credito» richiamata da Benveniste. Le parole sedimentano storie complicate e «credito» è al crocevia di un passaggio che continua ad oscillare tra la fede, appunto, le «credenze» e il meccanismo dell’obbligazione giuridica. Che credito si chiami credito non è per puro caso e il discorso di Benveniste ci porta direttamente al cuore del problema che già Marcel Mauss aveva ricostruito a proposito della fiducia nel valore della moneta.
La fides, dunque, consiste nel credito goduto presso il partner: legame che vincola su base volontaria e fideistica. Non è la prima volta che assistiamo alla nascita di «obbligatorietà paradossali» che nascono da vincoli gratuiti e legittimati fideisticamente. Sembrerebbe quasi che non si riesca a giustificare la razionalità, la strategia, la freddezza degli scambi e l’impersonalità delle relazioni anonime di per se stesse. E, peraltro, queste dimensioni sono ancora tutte «nostre», contemporanee e malate di relativismo eccessivo. E, va aggiunto, siamo del tutto fuori dalle relazioni giuridiche, in una dimensione che Louis Gernet avrebbe chiamato non-droit e che di recente Jean Perin, sulla scorta di Jean Carbonnier, ha definito a-droit: espressioni utili, queste, se usate per designare comunicazioni tra sistemi e sfere di azione; insopportabili se, anche inconsapevolmente, nascondono giuri-centrismo. Basterebbe per questo citare, ancora una volta, le pratiche del dono che producono il massimo della obbligatorietà attraverso la gratuità e, su altro versante, le tecniche del sacri-ficio che ogni società ha sperimentato per evitare la mimesi della vendetta. Un sistema che non sopporta che la violenza si produca e si regoli all’interno di se stessa, dovrà ricorrere al sacro per autoosservarsi e autoregolarsi (sacrum facere indica, appunto, una «produzione» di sacertà)16.
La struttura relazionale dello scambio – e non potrebbe essere diversamente – si accompagna ad un gioco di controprestazioni. Così «dal fatto che fides designa la fiducia che colui che parla ispira all’interlocutore, e della quale gode presso di lui, risulta che per lui si tratta di una ‘garanzia’ cui può far ricorso. La fides che i mortali hanno presso gli dèi assicura loro in cambio una garanzia: è questa garanzia che si invoca nel momento del bisogno»17. I rituali della preghiera lo ricordano nel mondo antico (pro dioum fidem, obsecrare fidem), esattamente come nel nostro; tutto il discorso dell’etica religiosa costruito sull’oblatività e sull’impoderabilità della «grazia» teso a contenere il meccanismo dello scambio con la divinità ne è una diretta conferma.
La chiave di volta è, dunque, l’idea della garanzia (dal rischio?); la ritroveremo sotto altri nomi e piegata ad altre logiche nel giuramento e in tanti altri istituti che nella secolarizzazione moderna continueranno a parlare di questo gioco del sacro con altri nomi. Non si tratta di una nuova casa dove accogliere la vecchia teologia, come Carl Schmitt, citando Alberico Gentili, racconta a proposito del moderno (Silete theologi in munere alieno!).
Così, espressioni quali godere della mia fiducia, porre la propria fiducia, accordare fiducia indicano la creazione di quote di potere nelle mani di qualcuno da cui discende automaticamente garanzia. Quasi ogni pratica della fiducia conserva – e pre-serva – una struttura di potere conferito gratuitamente dalla quale si dipende: quando si confida un segreto a qualcuno si stabilisce una totale dipendenza dal soggetto cui la fiducia è stata conferita. La dissimmetria tra chi confida e colui al quale è confidato il segreto è bilanciata esclusivamente dal dare fiducia, perché la si ha. E dare ed avere fiducia si replicano continuamente. La dif-fidenza moderna è appena corretta dall’autoinganno del giuramento che chiediamo all’amico, cui confidiamo il segreto, di «non dirlo a nessuno!». La diffidenza è nel mondo moderno esattamente equivalente, simmetrica e contraria, al gioco della fiducia che troviamo all’origine di questo percorso semantico. Essa ha attraversato «esperienze» e ha ridefinito progressivamente aspettative: potremmo citare l’uso della «delazione» (la nefanda pernicies) o la pratica della confessione dei segreti nelle Signorie rinascimentali (i Visconti) per legare all’obbedienza futura; più tardi, quegli esercizi manieristi della scrittura between lines utili per ingannare la censura. Si potrebbe persino riattraversare quelle pratiche da «cura del sé» che le confessioni religiose hanno coltivato e cui hanno fatto seguire la garanzia della non divulgabilità. E l’esperienza della diffidenza ha visto affinare progressivamente tecniche di vera e propria immunizzazione dai rischi, che potremmo definire «dissonanze cognitive»: il giuramento nella confessione del segreto funziona come rafforzamento della garanzia e come giustificazione anticipata della fiducia mal riposta.
Persino nei Parlamenti moderni (e quello italiano ci mette del suo), quando ricorre alla fiducia su provvedimenti o sulla legittimità stessa del governo, sembra ricordare la sottrazione al dibattito razionale e il conseguente tentativo di aggirare ogni «argomentazione»: è una specie di sacertà per decreto che viene messa in moto. Oscilla fra il rito che si nutre di se stesso – e che «rinvia» definitivamente il suo contenuto – e la «prova di forza» della contabilità di una maggioranza parlamentare. Quando blinda il contenuto della singola decisione, la «fiducia» sposta l’obbligo del confronto dialogante sulle argomentazioni, che legittimano le deliberazioni, sul confronto «muscolare» dei numeri. È soltanto paradossale che regole costituzionali, come le nostre, richiedano per ogni fiducia richiesta una motivazione. Sospende e preclude, la fiducia: sposta, disloca dal merito da decidere, alla riaffermazione identitaria della presenza di un soggetto. Conferisce legittimità quando un governo si presenta davanti alle Camere, anche se non sapremo mai se sia la fiducia a generare legittimità o la legittimità a generare fiducia. Congela il tempo per un periodo che i regolamenti parlamentari stabiliscono e neutralizza il «rischio» della discussione. Nel bene e nel male chiede strategicamente strani «atti di fede», non sempre rivolti alle relative opposizioni, ma addirittura agli stessi rappresentati della maggioranza. Si vota...

Indice dei contenuti

  1. Una premessa
  2. I. Cieca fiducia
  3. II. Talismani di cornalina
  4. III. «Giura che non lo dirai a nessuno!»
  5. IV. Il secondo sguardo
  6. V. Ingrati, infedeli e filosofi
  7. VI. Buon viso a cattivo gioco
  8. VII. Differenze/diffidenze
  9. VIII. Ricompense
  10. IX. Staremo a vedere!
  11. X. La fiducia del «pollo»