"In democrazia il popolo è sempre sovrano"
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"In democrazia il popolo è sempre sovrano"

Falso!

  1. 144 pagine
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"In democrazia il popolo è sempre sovrano"

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Oggi quasi tutti gli Stati, i partiti, i movimenti politici si dichiarano democratici. Abraham Lincoln definì la democrazia «il governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Nelle democrazie del nostro tempo le cose stanno proprio così? Sembra ormai che il popolo faccia da comparsa in una democrazia recitativa: entra in scena solo al momento del voto. Poi, nella realtà, prevalgono le oligarchie di governo e di partito, la corruzione nella classe politica, la demagogia dei capi, l'apatia dei cittadini, la manipolazione dell'opinione pubblica, la degradazione della cultura politica ad annunci pubblicitari. E se nelle democrazie attuali questi fossero tratti non contingenti ma congeniti?

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858126936
Argomento
Economics

Io ci metto la faccia

Abbiamo parlato di vari paesi nei quali il popolo è stato proclamato sovrano nella Costituzione, ma poi è stato desovranizzato dagli stessi governanti che aveva eletto. Non mi pare che il popolo di ciò si sia mai doluto, visto che ha rinnovato la fiducia al capo o ai capi che gli avevano sottratto la sovranità. Questo comportamento farebbe nascere il dubbio che il popolo non tenga molto alla sua sovranità, né sia risoluto a difenderla per conservare, con la sovranità, la garanzia di una vita libera e degna d’essere vissuta. Ho voluto manifestarti questo dubbio perché ho in riserbo per te una particolare domanda sul popolo sovrano. Ma prima, perché non mi parli del popolo sovrano in Italia? Comincia anzi col raccontarmi quando è avvenuta in Italia la conquista del popolo sovrano.
Certo, non è possibile trascurare l’Italia. Anzi le dedicheremo questa conversazione, perché la mutazione della democrazia rappresentativa in democrazia recitativa ha avuto nella politica italiana dell’ultimo ventennio un precoce e straordinario esperimento, che dura tuttora. Tanto che molti osservatori e studiosi della mutazione in corso nelle democrazie attuali hanno considerato l’esperimento italiano un caso molto istruttivo per capire quel che sta accadendo o potrebbe accadere alle altre democrazie.
Per soddisfare la tua richiesta, comincio dalla conquista della sovranità popolare in Italia.
In Italia, il popolo fece la sua prima grande esperienza di sovranità il 2 e il 3 giugno 1946, quando le italiane e gli italiani adulti votarono per decidere con un referendum se conservare la monarchia o istituire la repubblica, e nello stesso tempo elessero i deputati all’Assemblea costituente, scelti liberamente fra i candidati dei vari partiti d’ogni orientamento ideologico e religioso che avevano contribuito alla lotta contro il regime fascista, alcuni dei quali – come la Democrazia cristiana, il partito socialista e il partito comunista – adunavano nella loro organizzazione centinaia di migliaia di militanti.
La campagna elettorale fu turbolenta, ma le votazioni si svolsero nell’ordine e con entusiasmo, come dimostrò la larghissima e imprevista partecipazione al voto. Gli elettori furono 28.005.409, pari al 67 per cento della popolazione; la percentuale dei votanti fu dell’89,1 per cento. Le elettrici furono 1.216.241 in più degli uomini, anche se le donne elette alla Costituente furono soltanto 21 su 556.
Mai prima di allora il popolo italiano era stato chiamato a decidere sulla fondazione del suo Stato. I plebisciti con i quali la monarchia sabauda aveva proceduto alla unificazione della penisola fra il 1859 e il 1861 avevano infatti coinvolto soltanto una parte esigua della popolazione maschile adulta.
I plebisciti erano comunque un riconoscimento del fatto che lo Stato italiano nasceva con il consenso, sia pure quasi simbolico, del popolo sovrano. La Costituzione del Regno non aveva un preambolo all’americana: “Noi, il popolo”, che sancisse la sovranità popolare?
Dici bene, fu un riconoscimento simbolico, perché l’unificazione fu in realtà il risultato congiunto dell’abilità politica del liberale Cavour, della forza armata del re del Piemonte, dell’abilità militare del democratico generale Garibaldi, e dell’entusiasmo di molti giovani patrioti e patriote, ma non fu conseguenza di una rivoluzione di popolo come avrebbe voluto Giuseppe Mazzini. Sovrano del regno d’Italia fu il re “per grazia di Dio e volontà della nazione”, come recitava lo Statuto del Regno di Sardegna adottato dal nuovo Stato unitario.
Nello Stato italiano la partecipazione elettorale, unicamente maschile, rimase esigua: solo nel 1912 il voto fu esteso e gli elettori maschi aumentarono da 3.329.47 a 8.672.249. Nel 1919, dopo la Grande Guerra, alle prime elezioni con suffragio universale maschile e sistema proporzionale furono chiamate alle urne 11.115.441 persone, ma votarono solo 5.793.507, pari al 56,6 per cento degli aventi diritto. Nelle successive elezioni del 1921, già funestate dalla guerriglia civile dello squadrismo fascista, i votanti furono 6.701.496, pari al 58,4 per cento. Infine, nelle elezioni del 1924, dopo una riforma elettorale che attribuiva al partito vincente un premio di maggioranza dei due terzi dei seggi (riforma voluta da Mussolini dopo l’ascesa al potere nell’ottobre 1922), i votanti furono 7.614.451, pari al 63,1 degli elettori.
La libera partecipazione del popolo alla scelta dei governanti fu poi abolita. Le elezioni per la Camera dei Deputati nel 1929 e nel 1934 furono votazioni plebiscitarie per dire sì o no alla lista dei candidati fascisti proposta dal Gran Consiglio del fascismo, il supremo organo costituzionale del regime totalitario. Il fascismo proclamò la negazione della democrazia, definita da Mussolini un regime che “dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete”. Per il fascismo, il popolo si esprime “nella coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno”. Alla libera partecipazione, il regime sostituì la mobilitazione coatta di tutta la popolazione – uomini, donne, vecchi e bambini – nelle organizzazioni del partito unico.
Considerando le precedenti esperienze di elezioni plebiscitarie monarchiche o totalitarie, le elezioni del giugno 1946 hanno uno straordinario significato storico, perché per la prima volta le italiane e gli italiani votarono con la coscienza e la dignità di cittadini liberi ed eguali, ed elessero i rappresentanti ai quali affidarono il compito di elaborare i principi, i valori, le istituzioni e le regole del loro Stato democratico. Così facendo, compirono una rivoluzione pacifica per creare una repubblica di cittadini liberi ed eguali di fronte alla legge. Fu “un miracolo della ragione”, come lo definì Piero Calamandrei, uno degli artefici della Costituzione italiana.
La libera e cosciente partecipazione delle italiane e degli italiani fu l’atto di nascita della repubblica democratica “fondata sul lavoro”. Nell’articolo 1 la Costituzione affermava: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”. E il popolo era definito nell’articolo 3 come una collettività di liberi ed eguali: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Ho sentito dire che la stesura finale del testo costituzionale fu rivista da dotti italianisti, che resero più facilmente comprensibile il linguaggio della Costituzione, così che tutti i cittadini potessero apprendere direttamente i loro diritti e i loro doveri nel nuovo Stato, dove essi erano il popolo sovrano.
È vero, i costituenti furono molto attenti allo stile del testo costituzionale. Il popolo reale, che aveva partecipato direttamente alla elezione dei costituenti, aveva il diritto di leggere e comprendere il contenuto della Costituzione senza essere costretto a recarsi in biblioteca per consultare dizionari ed enciclopedie né chiedere spiegazioni a persone di cultura. Anche se non so quante italiane e italiani abbiano letto la Costituzione, i costituenti vollero che tutti fossero in grado di leggere e comprendere quel che c’era scritto.
Questo accadde settant’anni fa, quando un’Assemblea costituente di uomini e donne che militavano in partiti antagonisti, con grande senso di responsabilità di cittadini e competenza di giuristi, posero le fondamenta di una repubblica democratica alla quale affidarono il compito di consentire al popolo italiano “il pieno sviluppo della persona umana”. E lo fecero pensando, ragionando, discutendo molto animosamente.
Nessuno dei nuovi governanti, mentre elaboravano e approvavano la Costituzione della Repubblica italiana, disse: “Io ci metto la faccia”.
Cosa intendi dire? Non mi sembra che questa sia un’espressione da usare in riferimento a un atto così importante, qualcuno direbbe addirittura sacro, come la stesura della Costituzione, e non capisco però come ti sia venuto in mente di usarla a questo proposito.
L’ho citata perché è divenuta espressione frequente, anzi rituale, nel linguaggio attuale dei politici e soprattutto dei governanti, quando mirano a convincere il popolo italiano che essi sono pronti a impegnarsi interamente, mente e corpo, per il bene comune.
“Io ci metto la faccia” è l’immagine fisica di un impegno che vuole essere non solo mentale, ma anche morale. Mancare all’impegno significa “perdere la faccia”. E, in genere, il politico e il governante che dicono “io ci metto la faccia” accusano gli avversari di “parlare alla pancia della gente”, cioè di eccitare emozioni e passioni per sfruttarli a proprio vantaggio. Anche la diffusione di questa espressione nel politichese attuale sembra essere un sintomo stilistico della genesi di una democrazia recitativa all’italiana.
Ma vedo che stai sorridendo, caro il mio Genio del libro. Cosa ti fa sorridere: i politici e i governanti che si impegnano di fronte al popolo sovrano dicendo “Io ci metto la faccia”, oppure l’espressione in sé?
Sorrido perché mi sono ricordato che tu ami molto l’attore Totò, e vedo che negli scaffali della tua biblioteca hai molti libri di lui e su di lui. E mentre parlavi e ripetevi quell’espressione a proposito della faccia mi è tornata in mente una sua battuta, quando nel film Che fine ha fatto Totò Baby? dice: “Volete sapere che faccia faccio? Una facciaccia!”.
Sì, amo molto Totò, perché i suoi film mi hanno fatto compagnia fin dall’infanzia, e fin dall’infanzia l’ho sentito come un amico; ma non mi pare sia questo il caso di celiare su un’espressione del linguaggio politico, che rivela secondo me – al pari dell’espressione “parlare alla pancia della gente”, per citare solo la più frequente tra le più becere – la profonda mutazione avvenuta nella politica italiana, nella sua cultura innanzi tutto, e poi nella mentalità, nell’atteggiamento, nel comportamento e persino nel modo di intendere la democrazia, il popolo sovrano e il ruolo del governante. L’espressione “Io ci metto la faccia” può essere assunta a emblema della democrazia recitativa italiana, visto che in una recita la faccia è sempre fondamentale.
A me pare che tu stia ora un po’ esagerando nell’attribuire tanta importanza al significato di un’espressione che sarà sfuggita a qualche politico o a qualche governante in un momento di leggerezza discorsiva, magari in una cena fra amici o in qualche comizio davanti a gente comune, con linguaggio popolaresco, come fanno i venditori al mercato quando vogliono rassicurare il cliente che non imbrogliano se dicono che la camicia o il pantalone o la frutta o il pesce o l’utensile che stanno proponendo è il migliore del mercato.
Non so se te ne rendi conto, ma hai fatto un’osservazione molto appropriata, con la tua citazione del venditore al mercato. Con un esempio quasi banale hai in realtà sintetizzato bene quello che molti studiosi delle democrazie malate considerano una delle principali manifestazioni della malattia stessa, e nello stesso tempo una delle sue cause. Cioè la trasformazione della comunicazione politica fra i governanti e il popolo sovrano in una sorta di vendita pubblicitaria. Quanto alla tua obiezione che si tratti di un’espressione sfuggita dalla bocca di qualche politico o governante in vena di eloquio popolaresco, hai torto e te lo dimostro con alcuni esempi. Sono esempi di politici investiti delle più alte cariche dello Stato italiano. Citandoli, dovrò dire qualcosa sulle vicende politiche di cui sono stati protagonisti, così da far comprendere al nostro lettore che cito i governanti che hanno avuto e hanno un ruolo decisivo nella mutazione in corso della democrazia italiana.
Il primo esempio riguarda Silvio Berlusconi, il protagonista principale della politica italiana dell’ultimo ventennio.
Il 17 maggio 2011, alla vigilia delle elezioni amministrative di Milano, il presidente del Consiglio Berlusconi, capo indiscusso del Popolo della libertà, che era il maggior partito del centrodestra, disse: “A Milano, ci metto la faccia solo se serve”. Il suo partito aveva come principale antagonista il candidato delle sinistre, che alla fine risultò vincitore. Probabilmente o il presidente del Consiglio pensò di non metterci la faccia perché era sicuro di perdere, e pertanto non voleva perderci la faccia, oppure non si rese conto che serviva che lui ci mettesse la faccia per vincere. Sei mesi dopo, il governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni perché il paese era sull’orlo della bancarotta.
Si concluse così la vicenda governativa quasi ventennale dell’uomo politico più potente e più influente nella vita italiana fra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio, sia come proprietario di un vasto impero privato pubblicitario, televisivo ed editoriale, sia come fondatore e capo del più forte partito del centrodestra, che vantava il primato della guida di due dei governi più longevi dell’Italia repubblicana. Nessun altro uomo politico e governante della Repubblica italiana ha dato un impulso così forte alla personalizzazione della politica, come ha fatto Berlusconi, non esitando a presentare la propria persona fisica come la corporizzazione del popolo sovrano.
Che abbia usato poco o spesso l’espressione “io ci metto la faccia”, quella di Berlusconi è stata probabilmente la faccia politica più diffusa in Italia dai tempi di Mussolini: esposta pubblicamente in enormi manifesti, nei settimanali illustrati e nei programmi televisivi della sua azienda privata, oltre che nei programmi della televisione di Stato, sia quando era all’opposizione, sia soprattutto quando era al governo.
Inoltre, negli anni in cui fu presidente del Consiglio,...

Indice dei contenuti

  1. Perché questo libro
  2. Noi, i popoli
  3. Democrazia trionfante
  4. Democrazie malate
  5. Il popolo desovranizzato nella democrazia recitativa
  6. Noi, i governanti
  7. Io ci metto la faccia
  8. È un idolo il popolo sovrano?
  9. Può estinguersi il governo del popolo sovrano?
  10. Un amico della democrazia
  11. Per saperne di più