Stato di minorità
eBook - ePub

Stato di minorità

  1. 112 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Stato di minorità

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Se c'è oggi un'esperienza condivisa è un senso di impotenza, di mancata presa sugli eventi, di inibizione alla prassi. Non si dubita più se la realtà esista o se sia costruita. La dominante è pratica: la realtà esiste e io ne avverto il peso, solo non riesco a farci nulla, col dubbio se non sia io a non esistere davvero, a non esistere in modo significativo. Che io ci sia o non ci sia è ininfluente. Altri agiscono, altri decidono.In un esperimento descritto da Henri Laborit ci sono tre gabbie e tre topi. Alle povere bestie vengono somministrate scosse elettriche. Il primo topo ha la possibilità di uscire dalla gabbia. Il secondo non può, ma gli è stato affiancato un suo simile su cui sfogare rabbia e frustrazione. Al terzo entrambe le alternative sono precluse. Sottoposti a controlli, i primi due non accusano sintomi. Al terzo vengono invece diagnosticate perdita di pelo, ipertensione arteriosa e ulcera gastrica: l'impossibilità di agire fa ammalare. L'esperimento ci turba perché ci rappresenta. Quali sintomi si manifestano in una società in cui l'azione politica è sentita come impossibile non perché proibita ma perché ineffettuale, senza esito, svuotata di ogni concretezza?Dicono i filosofi che l'umano è davvero tale solo se ha la facoltà di agire politicamente in mezzo agli altri, altrimenti è puro metabolismo, biologia, animalità. Si può discutere se questo sia vero. Non si può discutere su quanto sia diventato difficile verificarlo. Certo è che l'impossibilità di agire ci rende meno umani.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Stato di minorità di Daniele Giglioli in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Social Sciences e Popular Culture. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858120903

Di parte dalla nascita

Nel senso comune il dividersi è visto come un male. Chi non aspira alla riconciliazione con sé stesso e con gli altri? La divisione è guerra, l’unità è pace. Ma mai come in questo caso si dimostra vero quanto l’ideologia non sia la mistificazione che occulta la realtà sociale, ma piuttosto la fantasia che la tiene insieme. Non ha senso contrapporle una verità più vera, profonda e originaria. Occorre invece mostrare di volta in volta in che modo quella realtà venga tenuta insieme, e a quale prezzo. Il prezzo dell’ideologia della concordia è la paralisi, la cecità di chi non vuol vedere quanto ogni concordia sia solo il predominio di una parte. L’aspirazione a non essere di parte, più che eticamente sbagliata, è logicamente impossibile. L’essere di parte inerisce all’ontologia della natura umana, e ogni unità supposta, rimpianta o vagheggiata, passata o futura, è soltanto una forma di dominazione più perfetta. Prenderne atto, dire sì a questo stato di conflittualità permanente, che attraversa in primo luogo i soggetti, è difficile a misura di quanto si subisce dentro di sé il ricatto del vantaggio che la partecipazione a un ordine dato sa fornire. Può non valere la pena di rompere un assetto: ma che non valga mai a prescindere la pena è un falso manifesto che trasforma la paura in desiderio, l’obbligo in virtù.
Da questa ingiunzione alla quiete, paralizzante benché impossibile, paralizzante perché impossibile, deriva quella demonizzazione del Novecento che costituisce uno dei temi più ossessivi dell’ideologia corrente: il Novecento visto come il secolo delle stragi e non delle conquiste politiche e sociali, della distruzione e non della presa di parola collettiva, quando in realtà è proprio la presa di parola a essergli rimproverata. Mai come nel Novecento le classi dirigenti si sono sentite tanto minacciate nella loro legittimazione a essere tali. Che tentino di esorcizzarlo con ogni mezzo è comprensibile. Non si deve ripetere, non deve succedere mai più. Gli si rimprovera ciò che aveva di meglio: l’imperativo dell’azione, la preferenza anche emotiva per il conflitto. Il Novecento è stato il secolo del Partigiano, secondo la diagnosi tanto lucida quanto angosciata di un teorico del Leviatano come Carl Schmitt1. E Partigiano è colui che porta inscritto fin nel nome il suo essere di parte, orgogliosamente, per scelta e non per costrizione. Prendere parte, prendere partito: il Novecento è stato anche il secolo dei partiti, con tutto il loro bene e il loro male, con tutta la costitutiva ambiguità di un organismo che produceva insieme autoeducazione e disciplinamento delle masse. Screditati i partiti, demitizzati i partigiani (di ogni parte: il vero eroe, si dice, era in realtà chi stava in mezzo e non faceva niente), resta un diffuso desiderio di delega, un’aspirazione a essere governati che non può che mandare al settimo cielo i governanti.
Ciò detto, più della lamentazione importa appunto individuare gli errori. Non è equidistanza salomonica sostenere che anche il Novecento ci abbia messo del suo. Non è stato Francis Fukuyama il primo a credere nella fine della storia; e nemmeno Alexandre Kojève, che commentava Hegel, cui si deve il sintagma. Il ritmo interno delle ideologie novecentesche era scandito da un’escatologia imperfettamente secolarizzata che portava i soggetti a radicalizzare, più ancora che lo scontro, l’idea stessa dello scontro, feticizzato come un a priori nella convinzione che sarebbe stato quello risolutivo. La pretesa rivoluzionaria di scatenare l’inimicizia assoluta contro ciò che divide invece che unire l’essere umano in quanto essere generico, ultima guerra che avrebbe messo fine per sempre ad ogni guerra, è stato un ostacolo epistemologico prima che un errore politico. Guerra totale, soluzione finale, «ordigno fine di mondo», come nel Dottor Stranamore di Kubrick: la tecnologia è una forma dell’anima. Un ultimo sforzo e l’umanità sarà felice, in armonia, senza conflitti. Con lo scotto non secondario, oltre a tutte le catastrofi materiali provocate, della catastrofe simbolica verificatasi nei paesi del socialismo reale, dove il conflitto era dichiarato impossibile perché ormai superato, rimosso nella teoria (c’è il socialismo, dunque non è possibile che non siate felici: e comunque è un ordine) e represso sanguinosamente nella pratica. Come ha mostrato Jameson, il pensiero utopico ha una funzione positiva solo in quanto critica che addita le imperfezioni del presente. L’utopia realizzata diventa un incubo incriticabile2. L’unanimismo dello stucchevole «siamo tutti X» (americani, ebrei, palestinesi, Charlie, poliziotti, Maometto...), con cui la muscolatura liscia del nostro pigro spirito pubblico rea­gisce automaticamente ogni volta che c’è da esprimere solidarietà, è stato in fondo anticipato dalla totalizzante aspirazione a ricapitolarsi nell’Uno che, al di sotto dello spirito di divisione permanente agitato in superficie, faceva da impensato alla politica novecentesca: dobbiamo esserci tutti, che nessuno sfugga al nostro amore... E chi non vuole è lui che si è chiamato addosso l’odio. Se il Novecento ha una colpa, è non essere stato all’altezza della negatività che lo costituiva.
A metafora radicale di quella negatività (non più così, da ora in poi sarà diverso, ricapitolazione del gesto con cui la modernità tutta istituisce sé stessa) è stato scelto infatti il paradigma della guerra. Un’indagine su quanto il lessico bellico sia penetrato e domini tuttora in ambiti a rigore estranei darebbe risultati sorprendenti: basti pensare al logoro cliché della «battaglia politica», impiegato magari a proposito di temi come la scuola, le tasse, la sanità... Si parla perfino di «battaglie pacifiste». Ma Mussolini non aveva già promosso «la battaglia del grano»? E la stessa idea di conflitto difesa in queste pagine non proviene dal medesimo campo metaforico?
Non si cambiano le cose cambiando le parole, ma è sempre bene sapere attraverso quale filtro linguistico si guarda il mondo. Nulla di più ipocrita della «condanna della violenza» che l’ideologia dominante chiede come lasciapassare a tutte le soggettività che si sollevano. Richiesta di disarmo preventivo del più debole, firma in bianco a un contratto in cui si è costretti ad accettare una clausola che suona: «qualunque cosa mi farai, mi toglierai, mi negherai, io non reagirò oltre un certo limite, non andrò fino in fondo, l’ultima parola sarà sempre la tua, dunque al tuo buon cuore». Come se il fulcro dinamico della modernità politica, compresa quella delle istituzioni che oggi ci sembrano pacifiche, non fosse stato proprio il violento sollevarsi di chi era stato debole. Il ripudio della violenza predicato da chi ha la bomba atomica è una barzelletta che non fa nean­che sorridere. Senza dire che, come si è visto, alla capitale di Saramago una qualche forma di autodifesa avrebbe forse giovato. Bandire la violenza dalla Storia è un sogno edenico, un sussulto prenatale. Politica è anche scontrarsi con la brutale evidenza che gli altri non sono sempre ansiosi di cooperare con noi, e rappresentano in molti casi un ostacolo, una cieca e irredenta mole di desideri e progetti incompatibili con i nostri. Non c’è pensiero se non quello che si sforza di rendere produttivo il negativo.
Altra cosa è però pensare il negativo, l’alterità, la separazione, unicamente sotto la specie dello scontro violento. Qui si mostra e si sconta tutta la miseria simbolica di quello che Pierre Bourdieu ha chiamato «il dominio maschile»3. Ha fatto molto discutere la furba fantapolitica messa a punto da Michel Houellebecq in Sottomissione, dove si parla di una Francia, rappresentante dell’Occidente esausto e nichilista, che si arrende per via elettorale all’islamismo «moderato», spregiudicato e tollerante, in fondo comodo e vantaggioso per tutti, a parte per le donne4. Non è chiaro quanto Houellebecq si renda conto di come la sua rappresentazione del femminile sia repulsiva anche per quanto riguarda l’era preislamica: prostitute, studentesse da rimorchiare, donne mature ovvero indesiderabili, una statua della Vergine Maria che illuminava il medioevo ma ahimè non dice ormai più nulla al protagonista. Ma intenzioni a parte, la posta in gioco nel suo libro è tutta e solo in una contesa tra maschi squallidi per il possesso del corpo delle donne5. In quanto a rimozione della femminilità, il lessico politico moderno non ha molto da imparare dall’islamismo più intransigente. La polis antica escludeva le donne dall’assemblea, la Lisistrata o le Tesmoforiazuse di Aristofane erano solo farse per far ridere gli ateniesi.
Dal femminile ci sarebbero invece almeno tre cose da mutuare (per quel che vale l’excusatio, ciò sia detto con tutto il comprensibile imbarazzo da parte di chi scrive, che proprio in quanto maschio diffida della carità pelosa con cui molti suoi congeneri esaltano a parole l’altro sesso). La prima è, se non il buon uso tout court, quanto meno un altro uso della negatività, del proprio essere parte, del proprio essere di parte. È sempre in potere di una donna dire: io non sono un uomo, e non ho bisogno di desiderarlo per aver diritto agli stessi diritti. Una donna che afferma «io non sono un uomo, non sono cioè il modello dominante», fa immediata esperienza del fatto che questo non equivale di per sé a dire «io non sono nulla». La seconda è l’idea che «non si finisce mai»: non c’è vittoria definitiva, non ci sono conquiste irrevocabili, la più professionalmente realizzata delle donne sa che quando torna a casa la battaglia è ben lungi dall’essere finita. Una temporalità non tutta incentrata sul fine non squalifica il mezzo come «mezzo». Il punto è a cosa si dà inizio. La terza è infatti la prerogativa – non l’obbligo, ovviamente – di generare da sé la nuova vita, quel «nascere» che giustamente Hannah Arendt pone a paradigma della condizione umana: capacità di essere cominciamento, iniziativa (iniziativa è un’ottima traduzione di agency). Non perché la vita sia un valore in sé, né perché occupare una posizione nel gioco dello scambio dei gameti sia meglio che occupare l’altra, ma perché con ciò si mostra quanto l’essere sia produttivo e quanto il potere (il dominio maschile, il dominio in quanto categoria maschile) sia in ultima istanza, contrariamente a quello che pensava Foucault, una natura seconda, parassitaria, appropriativa; reazione, non azione, risentimento, non sentimento. Anche in Marx, d’altra parte, era il lavoro a generare il capitale, non viceversa.
Che il governo di Saramago tenti di riconquistare la città assassinando una donna è significativo. A scongiurarlo non bastano le buone intenzioni del commissario convertito: muoiono entrambi e sarà per un’altra volta. Ma altrettanto significative sono le motivazioni che lo portano a tradire l’incarico del governo. Il commissario e la moglie del medico parlano a lungo, ma cosa si dicano non viene riportato. Quando lei gli domanda perché ha deciso di aiutarla, sulla risposta cala la stessa reticenza che Saramago ha steso su tutto ciò che pensa e desidera la popolazione. Non lo sa bene neanche lui. Quello che sa è che gli è tornata in mente una frase letta tanto tempo prima in un libro di cui non ricorda né titolo né autore:
Nasciamo, e da quel momento è come se firmassimo un patto per tutta la vita, ma può arrivare il momento in cui ci domandiamo Chi l’ha firmato per me6.
Il desiderio di una nuova nascita lo coglie a pochi giorni dalla fine, una fine di cui non può non essere consapevole: sa che il governo ha già ucciso e non si farà scrupolo di uccidere di nuovo. Eppure la sua non è una scelta malinconica. Per lui si tratta davvero di un inizio: non è più un poliziotto, adesso, è qualcos’altro, ha smesso di obbedire, cammina eretto, agisce senza mandanti e senza garanzie. Scegliendo di non mostrare le motivazioni della sua decisione, interrompendo il regresso all’infinito della deliberazione (lo faccio perché..., e questo perché a sua volta..., e questo va fatto risalire a...), Saramago ha messo in luce la natura non fondata ma fondante...

Indice dei contenuti

  1. In trappola
  2. Emergency room
  3. Effetti scaduti
  4. Non ti muovere
  5. Terrorista sarà lei
  6. Traumi per tutti
  7. Chi è davvero la vittima?
  8. Della miseria simbolica
  9. L’eccezione è la regola
  10. Malinconia e conflitto
  11. Fronteggiare il negativo
  12. Di parte dalla nascita