Storia della camorra
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Storia della camorra

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Storia della camorra

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Francesco Barbagallo è stato il primo a raccontare il potere della camorra come potere imprenditoriale quando nessuno osava farlo, ancorandolo a un passato indispensabile per interpretare il presente. Storia della camorra è un libro fondamentale perché frutto degli studi di uno dei più grandi storici italiani, di un intellettuale che declina le dimensioni economica, criminale e imprenditoriale della camorra, attraverso il tratto umano che le è proprio e che la condannerà all'estinzione. Dalle catastrofi – dice Barbagallo – per fortuna si può emergere.
Roberto Saviano

La duttilità mimetica della camorra, cioè la sua capacità di rimodellarsi volta per volta dietro gli impulsi della cronaca, è il motivo ricorrente dell'opera di Barbagallo: un lavoro storico impegnativo, condotto al seguito di eventi intricati, fra centinaia di personaggi a volte enigmatici ma più spesso meramente turpi, benché depositari, in superficie, di una mitologia fantasiosa. Lungi dal soggiacere alla suggestione di questo retaggio, l'autore ne esamina con freddezza le ricadute ai danni del Mezzogiorno.
Nello Ajello, "la Repubblica"

Soffusa di racconti e leggende sulle sue origini, sulle sue forme organizzative e sui riti di accesso, a distanza di quasi due secoli dalla sua nascita nei vicoli di Napoli, la storia della camorra non è mai stata raccontata per intero. Questa è la prima ricostruzione complessiva dall' 'onorata società' dell'Ottocento alla criminalità globalizzata di oggi. Francesco Barbagallo descrive i suoi costumi, le regole, la mentalità, gli affari, gli intrecci con la politica e le altre organizzazioni criminali, necessari per tessere la rete con cui oggi gestisce un patrimonio enorme. Al tempo dei Borboni, quando inizia la sua attività delinquenziale e si dà un'organizzazione, la camorra controlla le estorsioni su quasi tutte le attività produttive, i mercati, le case da gioco, la prostituzione. Si rappresenta come una sorta di aristocrazia della plebe ed entra nel vivo del tessuto sociale, praticando una forma di amministrazione, privata e illegale, della fiscalità, della sicurezza, della giustizia. La storia sembra non scalfirla, nonostante le repressioni postunitarie e l'impegno dei grandi intellettuali che hanno lottato per portare la questione meridionale al centro dell'interesse del nuovo Stato unitario, nonostante ogni tentativo di farle terra bruciata attorno. Nel corso degli anni non cessa di evolversi tra corruzione e clientele, accaparrando nuovi spazi di azione e nuove forme ben più consistenti e di più ampio respiro rispetto ai suoi tratti storici. Oggi la camorra è attiva su scala mondiale, ha circa 6000 affiliati, i suoi utili sono calcolati in 13 miliardi di euro, in un quindicennio il suo fatturato si sarebbe quintuplicato. Manovra le tecnologie più avanzate, sa sfruttare al meglio le garanzie di impunità di mercati sempre meno controllati, è parte integrante della finanza globale. Chi la pensa come il frutto del sottosviluppo, prende un abbaglio.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115732
Argomento
History

1. La camorra al tempo dei Borbone

“Mistero” e misteri di Napoli

Lo straniero e anche l’Italiano che or fa poco tempo sbarcava a Napoli, spesso era meravigliato, mentre toccava terra, vedendo un uomo robusto accostarsi al suo barcaiuolo, e ricevere da lui, segretamente, un soldo o due. Se il viaggiatore prendeva vaghezza di chiedere chi fosse quell’esattore meglio vestito degli altri plebei, spesso coperto di anelli e di gioielli, che si faceva innanzi come padrone, e divideva, senza proferir verbo, il prezzo del passaggio coll’umile barcaiuolo, udiva rispondersi: è il camorrista.
Quello descritto intorno al 1860 dallo scrittore italo-svizzero Marc Monnier (figlio di un albergatore residente nella capitale borbonica) era il primo passo di una peculiare catena di montaggio che definiva immediatamente la Napoli ottocentesca. Dopo il barcaiuolo toccava al facchino, che portava i bagagli alla locanda, pagare un secondo esattore. Quando il viaggiatore saliva su una carrozza compariva un altro individuo, che riceveva il suo soldo dal cocchiere. E così via:
ad ogni passo – proseguiva Monnier – ne’ quartieri poveri, alle stazioni delle strade ferrate, alle porte della città, sui mercati, nelle taverne incontrava il bravo implacabile, che l’occhio fiero, la testa alta, con pantaloni larghi, si intrometteva negli affari e ne’ piaceri dei poveri, in specie ne’ piaceri viziosi e negli affari equivoci, e a vicenda agente di cambio, mezzano, intermediario, ispettore di polizia secondo i casi, faceva presso a poco l’ufficio di quelle grandi potenze, che si mischiano negli affari che non le riguardano.
A suo modo, questo onnipresente personaggio rappresentava un aspetto di quel “mistero di Napoli” che sarebbe poi stato individuato da Antonio Gramsci nell’attiva ma improduttiva “industriosità” dei napoletani.
L’inchiesta di Monnier, condotta durante il processo unitario, è un documento prezioso perché si giovò delle testimonianze dirette dei maggiori esperti, ministri e dirigenti delle forze di polizia, sia del regime borbonico, che del nuovo governo italiano. È quindi una fonte storica ben più attendibile dei fantasiosi racconti e leggende che si tramandano in gran numero sulle origini, le forme organizzative, i riti, i miti di questa peculiare forma di organizzazione criminale, che si sviluppa nel tessuto urbano della Napoli ottocentesca, dentro gli strati sociali plebei.
Riti e miti risultano ad ogni modo fortemente intrecciati, dipanarli non è facile. Da più parti, ad esempio, si riferisce di un rito iniziatico che vedeva riuniti i camorristi intorno a un tavolo su cui erano posti un pugnale, una pistola carica e un bicchiere d’acqua o vino avvelenati. L’aspirante bagnava la mano nel sangue che gli veniva estratto e giurava fedeltà alla setta, mostrando di essere pronto a spararsi e a bere il veleno. Il capo della riunione prendeva atto del giuramento di sangue; scaricava l’arma, gettava a terra il bicchiere e consegnava il pugnale al nuovo camorrista. Questo cerimoniale pareva essere di rigore, ma non era indispensabile seguirlo in ogni circostanza. Altre testimonianze indicavano procedure molto semplificate, specie nelle carceri. In ogni caso l’ingresso nell’associazione camorristica veniva festeggiato con grandi banchetti.
Le stesse spiegazioni etimologiche del termine “camorra” proposte dagli studiosi sono numerosissime e molto divergenti. Le difficoltà sono accresciute dal fatto che la parola “camorra” è entrata nella lingua italiana dal gergo, non scritto, usato tra Settecento e Ottocento dai malviventi napoletani. A cavallo tra questi due secoli, peraltro, il termine “camorristi” viene usato ripetutamente – accanto a “oziosi”, “vagabondi”, “rissosi”, “giocatori di professione” – nei documenti della polizia borbonica e del ministero della Guerra.
Tra le interpretazioni più recenti, comunque, ce ne sono un paio di carattere storico, profondamente differenti. L’una associa “gamorra” alla città biblica di Gomorra, come traslato di vizio e di malaffare. L’altra afferma una sorta di solidarietà lessicale fra i nomi delle tre organizzazioni criminali dell’Italia meridionale – camorra, mafia, ’ndrangheta – e li fa risalire alla terminologia pastorale della cultura appenninica preromana. Secondo questa spiegazione semantica, che sottolinea l’originario fine protettivo e non criminale di queste “fratellanze” segrete, “morra” significherebbe “madre di tutte le greggi”.
Ci sono poi le possibili derivazioni dalla lingua castigliana: i termini “camorra”, “camora”, “gamurra” rinviano sia a una corta giacca di tela, sia alla rissa, alla lite. Ma il significato di “veste” si ritrova anche in antichi testi napoletani: «camorra de seta» nel Novellino di Masuccio Salernitano (XV secolo); «camorre de teletta» nel Cunto de li cunti di Giovan Battista Basile (XVI-XVII secolo).
La connessione tra camorra e gioco d’azzardo, tra camorrista e biscazziere si è fatta risalire, già da Monnier, al termine arabo “kumar”; e si ritrova di frequente nei vocabolari dialettali napoletani dell’Ottocento. Per Basilio Puoti, nel 1841, “gamorra” «È giuoco proibito dalla legge, che si fa da vili persone; ed anche il Luogo stesso dove si giuoca. “Biscazza, biscaccia”». Proprio al gioco d’azzardo si connette l’interpretazione più diffusa nel corso dell’Ottocento, per cui camorra diventa sinonimo di estorsione, di riscossione di una tangente, una mazzetta, un pizzo su qualsiasi tipo di attività. “Fare camorra” identifica l’atto dell’estorsione. Ancora Monnier scriveva: «Far la camorra, nel linguaggio ordinario, significa prelevar un diritto arbitrario o fraudolento».
Poi, anche per l’influenza indiretta delle sette segrete – la massoneria, la carboneria, l’“unità italiana”, i calderari del reazionario principe di Canosa – la camorra diverrà sempre più organizzazione, strutturandosi, specie dopo l’unificazione nazionale, in associazione di delinquenti specializzati anzitutto nelle estorsioni su ampia scala, ma diffuse soprattutto nelle carceri e quindi negli eserciti, dove spesso venivano arruolati i criminali già detenuti.

Origini e prime forme organizzative

La camorra, come attività e organizzazione distinta dalla criminalità comune, si diffuse nella città di Napoli, e in particolare nelle carceri e nell’esercito, dove spesso erano arruolati i criminali detenuti, presumibilmente nel secondo quarto dell’Ottocento. Presumibilmente, perché non esiste più, o almeno non si è finora ritrovata, alcuna traccia archivistica degli atti della polizia borbonica, né si sono rinvenuti altri documenti di rilievo storico. Le prime notizie ufficiali le ritroviamo nella documentazione approntata dalla neonata amministrazione italiana, quando iniziò a fare i difficili conti riguardanti l’imprevista unione del Sud al Nord nella nuova Italia. Abbiamo anche testimonianze storiche e letterarie di notevole spessore, apparse dopo l’unificazione, tra cui eccelle la documentata inchiesta di Monnier.
Altra cosa sono i tentativi, antichi e recenti, di cercare antecedenti di questo specifico fenomeno criminale nella storia moderna di Napoli, tra Cinquecento e Settecento, tra viceregno spagnolo e primo periodo borbonico. La ricerca delle origini si sfilaccia, in tali casi, lungo improbabili fili criminali che si immaginano dipanarsi nei secoli tra la Spagna, Napoli e la Sicilia. L’elemento unificante di queste discutibili comparazioni è la macroscopica realtà della plebe napoletana.
Questa si addensò in centinaia di migliaia di persone nella città-capitale, tra Cinquecento e primo Ottocento, richiamata dalle elargizioni sovrane e aristocratiche, dall’esenzione fiscale e dal clima mite, che consentiva di sopravvivere in grotte e caverne a queste masse di diseredati. Ma qui siamo ben dentro la generale storia di Napoli, che è cosa più ampia e complessa della storia della camorra.
Già per i primi decenni dell’Ottocento non è facile tracciare un profilo di questa realtà criminale, per assoluta carenza di fonti attendibili: appare quindi poco fondato, sul piano storiografico, il tentativo di cercare nei secoli precedenti connessioni tra la plebe napoletana e varie forme di associazione delinquenziale, avendo a disposizione soltanto qualche racconto e molte leggende.
Con le fonti storiche attualmente disponibili possiamo dire che la camorra, come associazione di delinquenti, si sviluppa tra Napoli, Caserta e altre aree della regione Campania lungo tutto l’Ottocento, fino ai primi decenni del Novecento. Poi si determinerà una rottura nella continuità del fenomeno criminale, che assumerà caratteri innovativi ed espansivi, e manterrà il vecchio nome solo in ordine alla collocazione territoriale.
Negli anni della restaurazione borbonica, dopo il congresso di Vienna, la camorra si dà dunque un’organizzazione, che prevede tre livelli da percorrere: picciotto d’onore, picciotto di sgarro, camorrista. Prima di iniziare questa specie di carriera, il giovane aspirante è chiamato tamurro. Viene eletto un capo per ognuno dei dodici quartieri di Napoli, che sono a loro volta suddivisi in paranze. Lo stesso avviene per alcuni capoluoghi provinciali, oltre che nei luoghi di detenzione e nei corpi militari.
Questi caposocietà eleggono un capintesta generale della camorra napoletana, che per un lungo periodo corrisponde al caposocietà della Vicaria: per molto tempo il comando dell’organizzazione resta nelle mani della famiglia Cappuccio. Nel quartiere della Vicaria, a oriente della città, tra le carceri e i tribunali, si stende l’area poi occlusa da un muro della Imbrecciata, popolata di prostitute e di bordelli. I capi della camorra avevano il titolo di Masto, che significava maestro, ma anche padrone.
Oltre che nella capitale, la camorra si era affermata già in epoca borbonica nella Terra di Lavoro, in particolare nell’area ristretta fra Caserta, Marcianise e Santa Maria Capua Vetere, dove pare ci fossero circa 2000 affiliati. La struttura eminentemente napoletana della camorra prevedeva che ci fosse un solo capintesta e che fosse di Napoli. I comuni, anche capoluoghi di provincia, erano equiparati ai quartieri di Napoli e potevano avere solo un caposocietà.
Negli anni dell’unificazione nazionale capintesta della camorra era Salvatore De Crescenzo, Tore ’e Criscienzo. Capo dell’organizzazione criminale della Terra di Lavoro era Francesco Zampella, cui De Crescenzo, per antica amicizia, riconosceva solo formalmente il titolo di capintesta del Casertano, senza però alcun riconoscimento di autonomia. Poi il comando passò nelle mani della camorra di Aversa e aumentarono le istanze di autonomia rispetto ai capintesta napoletani. Bisognerà attendere la fine dell’Ottocento perché l’organizzazione criminale della Terra di Lavoro proclami la sua autonomia eleggendo capintesta l’aversano Vincenzo Serra, senza più reazioni dalla casa madre dell’ex capitale.
A Napoli, intanto, le estorsioni si estendevano dappertutto. Terreno privilegiato erano le carceri. Nel primo Ottocento, le prigioni sono collocate nel normanno Castel Capuano, sede anche dei tribunali del regno, nel quartiere della Vicaria. Il dominio degli affiliati alla Consorteria dei camorristi era qui totale, e ciascun detenuto era tartassato dall’ingresso alla eventuale uscita. La prima richiesta riguardava una quota di denaro necessaria – si affermava – ad assicurare l’olio per la lampada della Madonna del Carmine. Poi erano estorsioni e vessazioni continue, che toccavano qualsiasi attività svolta dal detenuto, e si riassumevano nella trattenuta di una decima sul denaro e su tutto quanto veniva nella sua disponibilità.
Così molti detenuti – osserverà Monnier – vendevano a vil prezzo ad un camorrista non solo le vesti che ricevevano due volte all’anno, ma anche metà della minestra e del pane quotidiano. Il camorrista rivendeva quelle vesti e quel vitto ai fornitori delle prigioni, che vi trovavano il loro tornaconto, e che rinviavano e gli uni e gli altri ai detenuti, senza il menomo scrupolo, circolo vizioso dove due sorta di speculatori si arricchivano a spese di alcuni sventurati, poco vestiti, peggio nutriti, strappati, affreddoliti, affamati...
Lo sfruttamento dei detenuti da parte degli onnipresenti camorristi toccava l’apice nelle colonie penitenziarie che il governo borbonico aveva organizzato nelle isole, a partire dalle Tremiti, di fronte al Gargano.
Ogni relegato riceveva dieci soldi al giorno. Il camorrista ne prendeva anzi tutto uno, il decimo, per suo conto: due soldi per la cassa comune, religiosamente conservata. Restavano sette soldi che il relegato spendeva a suo piacere. [...] non avea che una distrazione possibile, il giuoco. Giuocava i sette soldi che gli restavano, ma sotto la vigilanza del compagno, il quale trovavasi sempre presente, e sorvegliava tutte le ricreazioni, e prendeva un decimo sulle scommesse, per ricompensa alle proprie fatiche. [...] Alla fine della giornata, decimo per decimo, i sette soldi de’ relegati erano passati nelle tasche del camorrista.
Il depredato a questo punto doveva essere anche grato alla previdenza dell’organizzazione camorristica, perché se riusciva ancora, in qualche modo, a mangiare e a vestirsi lo doveva solo all’uso dei due soldi accantonati per la cassa comune. L’associazione delinquenziale plebea iniziava così la sua costitutiva attività estorsiva esercitando una forma di totale sfruttamento delle categorie sociali più diseredate. «La setta – concludeva Monnier – si arricchiva soprattutto co’ poveri, perché li teneva nelle sue mani, prima co’ vizi, poi co’ loro bisogni. Facimmo caccià l’oro dai piducchi, mi diceva cinicamente un camorrista».
Altro importantissimo fronte delle attività camorristiche era costituito dai mercati, dalle farine e cereali alla frutta, al pesce, alla carne. C’erano inoltre le tangenti sulle case da gioco e sulla prostituzione, sul “gioco piccolo” diffuso nelle bettole e per le strade.
Il luogo ove gli affiliati entravano di diritto – notava sempre Monnier – erano le bische più o meno autorizzate dalla Polizia. Eranvi a Napoli ne’ quartieri popolari, e ne’ dintorni della città, certe taverne mal famate, ove riunivansi i giuocatori appartenenti alle classi inculte. Incapaci a distinguere una lettera da un’altra, i lazzaroni conoscevano benissimo i numeri, scienza necessaria per il lotto, e le quattro specie di carte (coppa, spada, bastone e denaro). Ora ho detto che la camorra sfruttava specialmente i plebei; dunque in tutte le bische ove de’ fanatici cenciosi, assisi in terra o a cavallo di panche di legno passavano giornate e nottate intiere a giuocare ostinatamente, era certo che vi si trovava di fronte ad essi, ritto, immobile, cogli occhi fissi sulle carte, che non abbandonava di un solo sguardo, l’inevitabile esattore, che ad ogni partita pretendea parte della vincita: il camorrista.
I camorristi, poi, esercitavano in proprio il lotto clandestino, che procedeva parallelamente a quello legale. E ancora estorsioni sul nolo delle carrozze e dei carri da trasporto, sullo scarico delle barche, sull’attività di facchinaggio.
Più in generale, poi, la camorra esercitava il contrabbando alle barriere daziarie. Percepiva cioè l’esazione fiscale dei dazi per le merci che giungevano nella capitale sia dalla terra che dal mare. La fondamentale attività dell’imposizione fiscale era quindi svolta dai camorristi in aggiunta ai funzionari, ma anche, spesso, in loro sostituzione, con notevole danno per l’erario pubblico.
Essendo per lo innanzi la polizia assai mal fatta, – osservava Monnier – la camorra spesso ne faceva le veci alla dogana e altrove, sorvegliando gl’imbarchi e gli sbarchi, l’ingresso, l’egresso e il trasporto della mercanzia. [...] La camorra si stabilì a tutti gli ingressi di Napoli, a tutti gli uffizi del dazio, alla dogana, alla stazione della ferrovia, tassò i facchini e i cocchieri, le vetture e le carrette che dovevano trasportare le mercanzie e i viaggiatori. La tassa era rigorosamente chiesta e percepita; sempre il decimo.
Addetto agli affari economici e finanziari era il contarulo, nominato da ciascun caposocietà per la gestione del barattolo, dove erano versati gli introiti delle estorsioni compiute dall’organizzazione camorristica, che si dava il...

Indice dei contenuti

  1. 1. La camorra al tempo dei Borbone
  2. 2. Alle luci della ribalta, tra Garibaldi e l’Italia
  3. 3. “Questione di Napoli”, “questione meridionale”, bassa camorra e clientele borghesi
  4. 4. La città ammodernata, la “camorra” amministrativa, l’inchiesta Saredo
  5. 5. Successo e disfatta della camorra nella “belle époque”
  6. 6. Dai camorristi ai guappi, tra il fascismo e la repubblica
  7. 7. La nuova criminalità organizzata in Campania
  8. 8. Le guerre tra le nuove camorre
  9. 9. Le imprese economiche dei clan e la politica degli anni ’80
  10. 10. Camorra, società e politica nei primi anni ’90
  11. 11. La criminalità campana verso il terzo millennio
  12. 12. L’espansione globale di un sistema criminale moderno
  13. 13. Gli ultimi anni: il potere della camorra, lo sfacelo dei rifiuti
  14. Conclusioni
  15. Bibliografia
  16. Cartine