Le relazioni pubbliche e il lobbying in Italia
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Le relazioni pubbliche e il lobbying in Italia

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Le relazioni pubbliche e il lobbying in Italia

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Il professionista delle relazioni pubbliche e delle attività di lobbying è un 'semplificatore' della realtà, colui che apporta in un'organizzazione le competenze comunicative necessarie per orientarsi in una società sempre più complessa. È colui che agevola l'azione di chi lo ha ingaggiato sia quando questa è rivolta verso un giornalista sia quando è indirizzata verso un politico.

Marco Mazzoni spiega tecniche, abilità e saperi di un mestiere ancora poco sviluppato in Italia, dove solo negli ultimi anni questo tipo di comunicazione ha suscitato interesse e analisi.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115343

1. Le origini delle relazioni pubbliche

Molti parlano di pubbliche relazioni, in realtà si chiamano relazioni pubbliche (rp). Il termine relazioni pubbliche in Italia è diventato soprattutto una sigla per definire una professione che presso numerosi pubblici ha ancora molti aspetti oscuri. Si parla di rp quando ci si riferisce a chi porta clienti nelle discoteche alla moda, oppure quando si vuole definire qualcuno che si occupa a tempo pieno, o anche solo per divertimento, di organizzare qualcosa che coinvolga un vasto numero di persone. Dalla vecchia sigla (pr) che i giornalisti ironicamente traducevano in «pranzi e ricevimenti», si è passati negli anni a continuare a confondere il professionista di rp come una persona che si diverte, che incontra e conosce tantissima gente, che passa il tempo da un ristorante a un albergo (Cutlip, Center, 1997). Questo, però, non è un volume per coloro che sono impegnati a portare clienti in discoteche alla moda. All’opposto, è incentrato su quei professionisti che intervengono nel processo di costruzione delle notizie e nel processo decisionale. Il lettore è di fronte a un volume che sostiene un punto di vista originale per la letteratura italiana esistente sull’argomento, un po’ meno per quella internazionale: le relazioni pubbliche rappresentano una questione importante nella vita di una democrazia. È bene che siano in molti a rendersene conto.
Le relazioni pubbliche sono usate, sin dalla loro origine, per definire lo sforzo programmato da un professionista per influenzare l’opinione pubblica e i decisori pubblici. Per l’esattezza, le relazioni pubbliche sono particolarmente importanti in quanto sono in grado di sviluppare la notorietà dell’organizzazione, cioè di aumentare la conoscenza che l’opinione pubblica ha dell’organizzazione e delle attività che essa svolge. Stanley Kelley jr. sottolinea proprio questo aspetto.
Il professionista delle rp, più diligentemente di altri, ha studiato come usare le risorse che un complesso e moderno sistema di comunicazione offre per organizzare e guidare l’opinione pubblica. Il suo obiettivo è costruire un atteggiamento pubblico favorevole al cliente per cui lavora. Se le aziende erano precedentemente la sua principale fonte di reddito, ora il public relations man è diventato anche un membro permanente dello staff impiegato da molte organizzazioni pubbliche e da commissioni nazionali. I suoi servizi e consigli sono sempre più ricercati dai candidati a un public office. [...] Con questi sviluppi, le attività del public relations man sono diventate influenti nei processi decisionali di un democratic government. Alcuni sistemi di governo, autocratici o democratici, devono la propria vita al sostegno dell’opinione pubblica. [...] È in questa fondamentale relazione tra politici ed elettori, tra quelli che ricercano power e quelli che concedono authority, che il public relations man si inserisce cercando di guidare l’azione del politico verso la gente e l’azione della gente verso il politico (Kelley jr., 1956, p. 2).
Si va così chiarendo anche quale sia il ruolo svolto dall’addetto alle rp: pur rappresentando interessi, il valore delle attività svolte deriva dalla sua conoscenza specializzata di, ed esperienza con, metodi e strumenti dei mezzi di comunicazione di massa e dei processi che producono decisioni a carattere pubblico. Le relazioni pubbliche diventano in questo modo strategiche per organizzare la comunicazione di tutti quegli individui, gruppi (di natura politica, economica e sociale) e istituzioni che si muovono in un’arena pubblica (perlopiù mediatizzata). Il raggiungimento degli obiettivi di tali soggetti è strettamente connesso al ricorso alle relazioni pubbliche: per chiunque abbia interesse a interagire con i mass media, voglia intervenire nel processo decisionale e desideri migliorare il suo rapporto con l’ambiente dove quotidianamente si muove, l’attività di relazioni pubbliche – fatta di dialogo, comunicazione, ascolto – è essenziale.
L’interesse verso le relazioni pubbliche non può che muovere da diversi campi di studio; non a caso, già a metà degli anni Sessanta, studiosi di varie discipline si avvicinano alle relazioni pubbliche: sociologi (Erving Goffman, Morris Janowitz), psicologi (Daniel Katz, Robert F. Bales), massmediologi (Joseph T. Klapper), politologi (Lester W. Milbrath) e giuristi (Edward S. Mason) con le loro ricerche sottolineano la multidisciplinarità degli sguardi rivolti alle relazioni pubbliche (Lerbinger, Sullivan, 1965). Una precisazione: un interesse a così largo spettro sulle relazioni pubbliche ancora oggi in Italia non è maturato. Tuttavia, la diffusione e la risonanza di una letteratura in gran parte anglosassone hanno aiutato a inquadrare la centralità nei processi comunicativi del professionista delle rp anche nel nostro paese: si è iniziato a considerarlo come un esperto capace di indirizzare in uno spazio pubblico l’azione dell’attore che lo ha ingaggiato.
L’oggetto del volume che state leggendo è (anche) quello di definire le abilità dell’addetto alle rp alla luce degli importanti cambiamenti intervenuti nella società in cui viviamo. Nel presente capitolo si tenterà di ricostruire i momenti salienti dello sviluppo delle relazioni pubbliche, mostrando come sia stato sempre importante per il public relations man interagire con il decisore pubblico (attività di lobbying) e condizionare l’attività dei mezzi di comunicazione di massa per creare un clima di opinione favorevole (media relations). Ciò rende necessaria, per una migliore comprensione del seguito, una precisazione. Nel libro vengono sovrapposte la figura del relatore pubblico e quella del lobbista. È noto che nella realtà, il più delle volte, ci sono professionisti che si occupano esclusivamente di interagire con i giornalisti e altri che indirizzano la loro azione essenzialmente sul decisore pubblico.
Inevitabilmente sorge spontanea una domanda: perché sovrapporli? Una risposta (scontata) è che le due professioni si assomigliano molto. L’attività del lobbista è imperniata sulla negoziazione, così pure quella dell’addetto alle rp. Il lobbismo, come verrà illustrato nei prossimi capitoli, è comunicazione e pure la media relation è comunicazione. Una seconda risposta (meno scontata) desidera invece sottolineare che una simile sovrapposizione è dettata dal modo in cui un’azione di rp raggiunge l’obiettivo stabilito. Di fatto, le relazioni pubbliche vanno suddivise tra quelle che operano all’interno delle «stanze del potere» con varie tecniche di convincimento e quelle che operano all’esterno con l’intento di influenzare l’opinione pubblica, o una parte di essa, spingendola verso una scelta sperata. Gli steccati sono molto labili, perché agire sull’opinione pubblica senza che qualcuno (il lobbista) recapiti un documento, una proposta, un’idea a chi è poi il decisore, significa fare un lavoro incompleto. D’altra parte, un lobbista che non ha dietro di sé la forza dell’opinione pubblica è un lobbista «scarico». Dunque, le relazioni pubbliche necessitano sia di media relations, sia di attività di lobbying per raggiungere i risultati prefissati, rendendo così meno rilevante il fatto che a volte le due azioni siano svolte da professionisti ben distinti e altre volte da un unico professionista.

1. Da dove provengono le relazioni pubbliche

L’inizio delle relazioni pubbliche come attività professionale ha luogo negli Stati Uniti nei primi anni del secolo scorso. Origini che si collocano nel mondo del big business, più precisamente nell’universo corporate. Il punto di partenza è il 1900, data della costituzione di ciò che si può ragionevolmente considerare la prima agenzia di rp, il Publicity Bureau di Boston, che esordisce sul mercato gestendo i rapporti con la stampa per conto di un cliente assai prestigioso: l’Università di Harvard (Cutlip et al., 2000; Marchand, 1998; Fasce, 2000). Tycoon come Theodore N. Vail di American Telephone and Telegraph Company, Charles M. Schwab di Bethlehem Steel, Judge Elbert Gary di United States Steel e Daniel Willard di Baltimore and Ohio Railroad diventano i leader di un nuovo modo di pensare che spinge Vail a dichiarare: «in tutti i periodi, in tutti i luoghi, l’opinione pubblica ha avuto il controllo dell’ultima parola. [...] Essa non è solo il right ma l’obligation riconosciuto a tutti gli individui o aggregazioni di individui (che costituiscono il pubblico) di controllare che tutti siano correttamente informati» (Kelley jr., 1956, p. 11).
Ricostruire la genesi e lo sviluppo delle relazioni pubbliche come professione, richiede di definire quei cambiamenti che, nella prima parte del Novecento negli Stati Uniti, hanno reso possibile la realizzazione di una «democrazia degli affari»1, intesa come l’insieme degli interventi che le corporations hanno operato, anche sul piano simbolico, per creare un’opinione pubblica, un sentire favorevole al mondo imprenditoriale. I quattro cambiamenti più importanti sono stati: l’affermarsi della grande impresa, il consolidarsi del processo di urbanizzazione, l’ampliarsi dei segmenti di popolazione interessati a quelle logiche del consumo che stanno colonizzando il tempo libero e la definizione di un quadro politico-istituzionale di stampo decisamente presidenzialista, se non plebiscitario (Fasce, 2000).
È tra l’inizio del secolo e gli anni Trenta che negli Usa si realizza una mutazione nelle relazioni tra sfera pubblica e sfera privata; è, dunque, necessario ripensare al modo in cui la riflessione politica e sociale è cambiata tra questi due periodi.
Nel primo, non senza dichiarate incertezze, beninteso, il termine [opinione pubblica] designa comunque un aggregato di individui al cui interno è riconoscibile uno strato di soggetti informati, capaci di produrre deliberazioni razionali che raccolgono il consenso dell’intera comunità intorno a una batteria limitata ed essenziale di questioni politiche. Nel secondo, non c’è più una definizione unitaria di opinione pubblica, i pubblici sono diventati molti e specifici, si individuano a partire da interessi frammentati, non necessariamente producono deliberazioni razionali, li si può interrogare mediante i sondaggi che ci restituiscono aggregati statici di opinioni individuali sollecitate e ottenute sui temi più diversi, l’idea stessa di ciò che deve considerarsi di interesse pubblico si è fatta più vaga e sfuggente (Fasce, 2000, pp. 187-88).
Nell’intervallo compreso fra l’una e l’altra definizione, la scena pubblica si è popolata, per quanto con modalità di accesso fortemente gerarchizzate e selettive, di nuovi soggetti (donne, lavoratori organizzati, gruppi etnorazziali); alle relazioni primarie si sono affiancate e sovrapposte in notevole misura quelle mediatiche, si sono costituiti inediti universi professionali che si occupano su base specialistica di informazione e comunicazione. All’interno di quest’ultima dimensione un ruolo importante hanno avuto i professionisti delle relazioni pubbliche che si sono concentrati sull’area specifica delle comunicazioni esterne delle imprese portando, anche grazie all’utilizzo innovativo e spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa, all’affermarsi dell’ideologia della free enterprise, permeata da una visione antipolitica e favorevole a una liberazione dei controlli pubblici propugnati dal New Deal.
Come incide lo sviluppo delle rp sulla sfera pubblica americana nella prima metà del secolo scorso? La risposta può essere articolata su più piani. Dal punto di vista della percezione che gli attori aziendali hanno della società, c’è un desiderio di ridurre e semplificare la complessità dei rapporti sociali esterni a misura di quelli gerarchici interni, grazie al ruolo di mediazione svolto dai consulenti di immagine e comunicazione.
Si vuole semplicemente sottolineare la convergenza che venne a crearsi fra imprenditori e consulenti di immagine, intorno alla semplificazione, alla manipolazione e alla scelta di vie indirette e oblique (che nascondevano o comunque mimetizzavano l’emittente o la natura del messaggio dalla vista dei destinatari) come la soluzione più economica e culturalmente accettabile per colmare il divario fra imprese e audience (Fasce, 2000, p. 194).
Dal punto di vista delle modalità e degli obiettivi specifici di questo processo di semplificazione, emergono, invece, i tentativi effettuati dalle organizzazioni economiche di ridefinire e superare i confini tra ciò che era sponsorizzato e ciò che non lo era, fra interessi privati e pubblici in funzione dell’obiettivo di restringere e privatizzare l’area del discorso pubblico.
L’obiettivo [...] era spettacolarizzare, semplificare e soprattutto restringere e privatizzare l’area del discorso pubblico: restringerla dal punto di vista dei soggetti che potevano accedervi, degli oggetti che andavano tematizzati, dei modi di tematizzarli. Un obiettivo, questo della restrizione e privatizzazione, che sembra essere ciò che più separa, almeno sulla carta, l’armamentario propagandistico del business da quello del New Deal (Fasce, 2000, p. 195).
Si riconosce che le informazioni, in tutti i loro aspetti, sono diventate un dinamico, forte, determinante aspetto del public behavior. Prende corpo un nuovo regime di visibilità: è necessario diventare pubblici, di pubblico dominio, esporsi al giudizio comune. L’obiettivo è rivolgersi a una complessa rete di attori esterni, che per la prima volta le imprese individuano all’interno della nebulosa indifferenziata del pubblico: il problema principale è una questione di comprensione e trasparenza reciproca tra le parti. È il concetto di publicity che viene definitivamente inaugurato e che rivendica la propria autonomia formale da ogni tipo di pubblicità a pagamento. Lavorare di publicity significa fornire notizie e tentare di fare in modo che finiscano sui giornali per migliorare l’opinione diffusa intorno all’impresa. Le corporations escono allo scoperto, aspirano a farsi vedere. L’obiettivo è conquistare la fiducia del pubblico, chiedendogli cosa desidera e fornendogli adeguate spiegazioni su qualsiasi questione lo riguardi. Ivy Ledbetter Lee, da molti riconosciuto come uno dei padri fondatori delle relazioni pubbliche e strenuo assertore del tribunale dell’opinione pubblica (formula ovviamente non sua ma che Lee riprende volentieri), nel 1925 sostiene:
Publicity comprende qualsiasi cosa si utilizzi per esprimere un’idea: la radio, il cinema, le riviste, i libri, le conferenze, i cortei, le adunate, ecc. Publicity è tutto ciò che permette di rendere visibile e accessibile agli altri un qualcosa che si vuole esternare (Lee, 1925, pp. 7-8).
Da questo momento diventa fashion per le grandi corporations americane assumere un publicity man. All’origine del bisogno di dare un’anima alle imprese, e della nascita di un’attività sistematica di relazioni pubbliche, ci sarebbe anche un problema di dimensione o, più precisamente, di differenza di dimensioni. La parabola della corporate imagery (l’immaginario aziendale) tra il 1890 e la fine della seconda guerra mondiale è segnata dal modo in cui si è evoluto il rapporto fra grande e piccolo. Dapprima le imprese si fanno ritrarre come giganti provvidenti, dai tratti quasi divini, garanti del benessere di chi le circonda (i piccoli centri urbani della provincia americana). Successivamente, negli anni Venti la retorica aziendale, influenzata dall’esperienza della prima guerra mondiale, che dà occasione a parecchi manager e imprenditori di scoprire l’orgoglio del servizio pubblico, evoca nozioni forti, per quanto vaghe, di responsabilità sociale. Le grandi corporations vogliono affermare il primato del servizio sul profitto a tal punto che un manager ferroviario arriva a sostenere: «d’ora innanzi la pubblicizzazione, non la segretezza, vinceranno. Le corporations devono venir fuori allo scoperto, devono vedere e farsi vedere. Devono conquistare la fiducia del public e chiedere a quest’ultimo cosa desidera e nient’altro e poi essere pronte a fornirgli adeguate spiegazioni sui vantaggi che deriveranno al public se le ferrovie vedono esaurite le loro richieste» (Fasce, 2000, p. 49).
Imprenditori e dirigenti preferiscono descriversi come statisti, più che come contabili, e rivendicano per le imprese il titolo di istituzioni, non solo in quanto presenze ormai consolidate nel panorama americano, ma in quanto enti al servizio della collettività e delle comunità locali in particolare. Grazie ai treni della Pennsylvania Railroad ogni giorno arrivano «vita, notizie e interessi» negli angoli più sperduti della provincia; grazie alle auto della General Motors, i preti di campagna raggiungono i fedeli e i dottori giungono in tempo nelle fattorie; grazie ai giganti della tecnologia, insomma, l’America rurale e i suoi valori possono sopravvivere.
Pur tra chiaroscuri e opacità difficilmente trascurabili, sembra dunque davvero cominciata anche per il big business più tradizionale l’età della trasparenza, del going public, di nuovi modi di discutere il destino della comunità nazionale. La necessità delle grandi imprese di assoldare professionisti della comunicazione è una spinta importante alla nascita dei primi corsi in relazioni pubbliche. Due momenti vanno ricordati nella storia della public relations education negli Stati Uniti. Nel 1920, presso l’Università dell’Illinois, John F. Wright, da poco nominato publicity director dell’università, tiene il primo corso in Publicity techniques. Tre anni più tardi, Edward L. Bernays, presso il Dipartimento di giorn...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Le origini delle relazioni pubbliche
  3. 2. Un approccio sociologico allo studio delle relazioni pubbliche
  4. 3. Relazioni pubbliche,«newsmanagement» e clima di opinione
  5. 4. Il lobbying in Italia
  6. 5. Il lobbying europeo
  7. Conclusioni
  8. Riferimenti bibliografici