Capitolo VIII. L’epoca di Reagan
Il miraggio degli anni Ottanta
Fino al 1980, negli Stati Uniti i circoli governativi, economici e anche accademici potevano occuparsi dell’economia con scarsa attenzione per i suoi legami internazionali. Essi potevano sottovalutare gli effetti della loro economia nel mondo poiché import ed export incidevano meno del 10% sul Pil, la bilancia dei pagamenti seppure in deficit non era lontana dal pareggio, e il flusso di capitali in entrata finanziava una quota davvero piccola dell’investimento netto negli Stati Uniti.
Questo scenario mutò nel corso del decennio innanzitutto per l’apprezzamento del dollaro (+75% nel 1980-1985), che provocò un massiccio deficit commerciale e un altrettanto intenso flusso di capitali in entrata. Entro il 1986 le imprese esportatrici si trovarono a confrontarsi con difficoltà impreviste. La crisi del debito, che cominciò nell’autunno 1982, mise poi in evidenza i legami fra le banche americane e i paesi esteri debitori. A quel punto non fu più possibile ignorare lo scenario internazionale entro il quale operava l’economia statunitense.
L’inversione da una politica monetaria altamente permissiva a una restrittiva, nell’ultimo anno dell’amministrazione Carter, fu il preludio dell’abbandono, sotto Reagan, dell’ideologia del New Deal e del keynesismo. Massicci investimenti nei programmi militari per armamenti strategici e la riduzione della tassazione sui redditi più elevati, nonché la compressione dei salari, compensarono la stretta monetarista sul credito. Ciò permise all’economia di continuare a girare. La svolta neoliberale produsse un massiccio riorientamento dell’economia americana a trarre vantaggio dalla continua espansione finanziaria di capitali, a casa e all’estero. La portata di questo cambiamento può essere misurata dall’andamento del saldo delle partite correnti americane. Nel 1965-1969 gli Usa avevano un surplus pari al 46% del surplus totale dei G7. Nel 1970-1974 il surplus si era contratto al 21% di quello totale dei G7, e nel 1975-1979 si era trasformato in un deficit che si impennò a 146,5 miliardi di dollari nel 1980-1984 e a 660,6 miliardi nel 1985-1989.
Questo imponente flusso di capitali in entrata negli Stati Uniti ebbe effetti devastanti sul Terzo e sul Secondo Mondo, che negli anni Settanta si erano indebitati con eccessiva facilità. Quando gli Stati Uniti cambiarono la loro politica monetaria e cominciarono a competere aggressivamente sul mercato finanziario mondiale, l’abbondanza su scala globale di capitali in cerca di investimenti sicuri e proficui degli anni Settanta si trasformò nella «siccità» degli anni Ottanta. Il successo degli Usa nell’attrarre capitali trasformò l’outflow di 46,8 miliardi di dollari dai G7, degli anni Settanta, nell’inflow di 347,4 miliardi di dollari verso i G7 del 1980-1989.
I summit dei paesi leader
I summit annuali dei maggiori paesi industrializzati erano cominciati nel 1975, quando Valéry Giscard d’Estaing aveva convocato i «grandi della terra» a Rambouillet, nelle vicinanze di Parigi. Il nostro paese, in un primo tempo escluso, era stato poi ammesso grazie all’intervento americano. Era intenzione del presidente francese, d’intesa con il cancelliere tedesco Helmut Schmidt, individuare una strategia comune che fosse in grado di stabilizzare il sistema internazionale dei cambi e risolvere i problemi economici con i quali si confrontavano i paesi occidentali. I summit divennero l’occasione – non scontata – d’incontro e di confronto fra i capi di governo dei sette paesi che rappresentavano i 4/5 dei paesi industrializzati e costituivano più della metà della produzione mondiale e circa la metà del commercio internazionale.
Nel 1976 il meeting si era svolto a Puerto Rico, nel 1977 a Londra, nel 1978 a Bonn, nel 1979 a Tokyo, nel 1980 a Venezia, nel luglio 1981 a Ottawa. L’Italia aveva preso parte agli incontri fin dal principio, insieme con Stati Uniti, Francia, Germania occidentale, Giappone, Gran Bretagna; invece il Canada si era unito agli altri nel 1976; successivamente, anche il presidente della Commissione europea entrò nel gruppo, poiché i singoli Stati avevano ceduto a Bruxelles importanti elementi di sovranità nazionale riguardanti alcuni aspetti della politica commerciale ed economica.
Il fatto che si convocassero summit successivi metteva in rilievo l’indebolimento della leadership americana, indiscussa nel dopoguerra, in termini di peso economico relativo rispetto alla crescente importanza della Cee e del Giappone. Ma, innanzitutto, rendeva palese che soltanto trovando una base d’intesa comune i paesi occidentali potevano provare a spezzare il legame che si era stabilito fra crescita economica e consumo di petrolio, nonché a fissare gli obiettivi per sostituire il petrolio con altre fonti energetiche e svincolarsi così dalla morsa degli aumenti di prezzo del greggio imposti dall’Opec.
Eppure, di summit in summit, i principali problemi economici che richiamavano l’attenzione dei leader occidentali erano in larga parte gli stessi, anche se l’enfasi variava: bassa crescita, inflazione, disoccupazione, pressioni protezionistiche, energia, rapporto Nord-Sud. Come aveva riconosciuto Pierre E. Trudeau, premier del Canada, nel discorso di apertura del summit di Ottawa, oltre a queste problematiche vi erano questioni politiche e di sicurezza che rendevano il quadro ancora più complesso. I rapporti Est-Ovest si erano deteriorati prima che l’amministrazione Reagan entrasse in carica, e questo era riconducibile in particolare all’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Urss. Gli eventi polacchi e l’accresciuta capacità di aggressione militare sovietica concorrevano ad aumentare la tensione. L’indebolimento della politica di distensione induceva Washington a considerare attraverso il prisma della guerra fredda anche la questione dei rapporti Nord-Sud.
Tabella 12. Pil dei paesi G7 nel 1979 (in miliardi di dollari)
Fonte: Oecd, Main Economic Indicators, maggio 1981.
I meeting erano un mezzo per affrontare le questioni politiche prioritarie con le quali dovevano confrontarsi le democrazie industrializzate. Ma anche una sorta di riferimento fisso dei sistemi economici post-1973 che avrebbe dovuto ispirare fiducia in un periodo di intenso cambiamento e incertezza. In tal senso, i summit economici venivano caricati di aspettative politiche generali più che economiche, anche se queste restavano prioritarie. Da parte francese si tendeva a privilegiare i temi macroeconomici, dando tuttavia ampio spazio e rilievo alla questione delle nuove tecnologie e delle loro conseguenze su fattori rilevanti come occupazione, organizzazione produttiva, cultura, cooperazione Nord-Sud, standardizzazione dei dati destinati agli scambi. Invece gli Stati Uniti ritenevano che tre temi fossero cruciali per il futuro: le relazioni commerciali multilaterali e gli investimenti, che dovevano essere preservati dal protezionismo; i rapporti economici Est-Ovest, in considerazione della fase di tensione strategica e politica nell’Europa centrale e di reciproca interazione di vulnerabilità dovuta all’intenso commercio dell’energia e al debito in valuta pregiata; la sicurezza delle risorse energetiche. Sebbene le barriere tariffarie fossero ai più bassi livelli della storia, quelle non tariffarie, al contrario, costituivano un serio ostacolo agli scambi. Sulle questioni politiche gli Usa intendevano consolidare e accrescere il consenso per una risposta comune dell’Occidente alle iniziative sovietiche in Polonia e in Afghanistan. L’obiettivo dell’amministrazione Reagan era di definire i requisiti di accettabili relazioni con l’Unione Sovietica e i paesi del Patto di Varsavia nell’Europa centrale e nel mondo: «L’Occidente non può fare affari come sempre con paesi che violino gli standard minimi di condotta internazionale».
Alla Conferenza di Cancún, nell’ottobre 1981, Reagan aveva imposto una nuova agenda che chiudeva la strada al «nuovo ordine economico mondiale» auspicato da Willy Brandt. Piuttosto, la priorità americana era di rimettere ordine in casa propria, e altrettanto avrebbero dovuto fare i paesi in via di sviluppo. Pertanto, il dialogo Nord-Sud basato su nuove istituzioni finanziarie per aiutare i paesi in via di sviluppo non trovava risposte concrete. La politica dei negoziati Nord-Sud si era esaurita nel giugno 1982.
L’Italia era stata esclusa dalla Conferenza di Cancún, ma le fu affidato il compito di preparare il rapporto sulle relazioni Nord-Sud per il meeting di Versailles. La Gran Bretagna avrebbe dovuto occuparsi delle questioni macroeconomiche, la Commissione europea dell’energia, il Giappone del commercio, gli Usa degli aspetti finanziari e commerciali delle relazioni Est-Ovest. Invece la Francia si era riservata il rapporto su tecnologia, economia e occupazione. Parigi reputava la questione Nord-Sud e quella dell’energia secondarie nella discussione, e questo giudizio aveva influito certamente sulla loro assegnazione all’Italia e alla Commissione europea. L’economia del nostro paese era gravata da un’inflazione a due cifre (al 17% nel 1981 e al 15% nel 1982), perciò l’Italia faticava più degli altri paesi ad agganciare la ripresa, finendo con il collocarsi in una posizione di seconda fila fra i «grandi».
In preparazione del summit di Versailles, nel febbraio 1982, l’ambasciata di Roma inviò a Washington alcune indicazioni sugli obiettivi che gli Usa avrebbero dovuto perseguire. Il presupposto era rivitalizzare le economie del mondo occidentale, come le grandi potenze si erano impegnate a fare a Ottawa. In occasione del summit, per la prima volta, era stata affrontata la questione delle implicazioni per la sicurezza delle relazioni economiche Est-Ovest. Oltre che agli aspetti macroeconomici, si suggeriva di prestare attenzione anche a quelli pre-economici come opportunità (il summit successivo si sarebbe tenuto negli Usa) e comunicazione di quell’evento, nel quale Mitterrand avrebbe cercato di essere la «star» dello «show».
Il presidente Reagan colse l’occasione del viaggio in Europa per programmare un rapido incontro con il presidente della Repubblica Sandro Pertini e il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, nonché un importante colloquio riservato con papa Giovanni Paolo II. Il viaggio si sarebbe concluso con la partecipazione al summit della Nato. All’interno dell’Nsc vi erano posizioni differenti sulla strategia da seguire a Versailles. Alcuni, tra cui Beryl W. Sprinkel, proponevano di privilegiare gli aspetti economici, come la difesa dell’approccio reaganiano all’economia internazionale orient...