Razionalità e valori
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Razionalità e valori

Introduzione alle teorie dell'azione sociale

  1. 186 pagine
  2. Italian
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Razionalità e valori

Introduzione alle teorie dell'azione sociale

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Razionalità e valori sono i due grandi modelli di spiegazione volontaristica del comportamento individuale e dei suoi effetti collettivi. Questo volume presenta le teorie dell'azione in un'agile introduzione che ripercorre le grandi tappe della formazione della scienza sociale e fa emergere i problemi in discussione.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858118528
Categoria
Sociology

1. Scienza sociale e teoria volontaristica dell’azione

1.1. Individuo e società: considerazioni preliminari

Che cosa studia la scienza sociale e in che cosa è simile alle altre scienze o si differenzia da esse? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto chiarire ciò che si intende con il termine sociale, che viene usato così spesso e il cui significato di solito è «dato per scontato». In tutte le epoche, sin dai tempi più lontani e presso tutti i gruppi umani di cui ci restano tracce, noi troviamo degli aspetti che si possono definire «sociali». Parlando in generale, questi aspetti sono caratterizzati dal vivere insieme, dall’operare congiuntamente per l’attuazione di qualche impresa comune e per il perseguimento di finalità collettive. Gli esseri umani sanno, si può dire da sempre, o almeno fin da quando la loro memoria può risalire nel tempo, che l’azione coordinata di più individui uniti fra loro reca grandi vantaggi. La necessità di collaborare con altri – ossia il principio della cooperazione e della divisione sociale del lavoro – discende da una esigenza talmente primaria che affonda le sue radici nella preistoria. Va detto, anzi, che l’esistenza di comportamenti sociali non è propria soltanto della nostra specie. Non è possibile, da questo punto di vista, tracciare un preciso confine tra mondo umano e mondo animale. È noto infatti che molte specie, e non solo quella umana, hanno sviluppato comportamenti sociali: dalle società degli insetti, come le api o le formiche, sino ai branchi degli animali superiori, in special modo quelli dei mammiferi. Essi sono oggetto di una scienza specifica, l’etologia. L’abitudine ad agire socialmente è dunque non soltanto ancestrale ma addirittura connessa con la sfera degli impulsi ereditari. Come vedremo meglio più avanti (par. 1.3), nella scienza sociale contemporanea il punto di vista secondo cui vi sarebbe una sostanziale continuità tra i comportamenti sociali degli animali e quelli degli esseri umani è sostenuto dalla sociobiologia. Ciò in quanto entrambi sono il risultato di codici genetici e di processi evolutivi. In questo senso, le istituzioni umane, fatte le debite differenze, rappresenterebbero qualcosa di non troppo diverso dalle dighe costruite dai castori o dalle collinette labirintiche delle termiti. Nel mondo umano, però, troviamo forme di cooperazione assai più varie, complesse e flessibili di quello animale, per cui se è difficile tracciare un confine, tuttavia non può essere sottovalutato il salto evolutivo compiuto dalla nostra specie, con lo sviluppo di abilità acquisite che hanno grandemente rafforzato la disposizione degli individui ad agire in maniera sociale. E soprattutto la socialità umana si caratterizza per la distinzione e la relativa autonomia tra l’ambito sociale e quello individuale del comportamento, che nel mondo animale è spesso inesistente, come avviene in particolare nelle società degli insetti.
Viceversa, sebbene il concetto di «individuo» sia tipicamente moderno, in ogni aggregato umano, anche nei più arcaici, è comunque possibile rinvenire uno spazio di esistenza e di azione che viene lasciato al singolo. Esso è variabile e può essere minimo – come accade nelle società elementari – oppure assai ampio, come avviene nelle società differenziate e complesse. Mentre in certe società la distinzione tra la sfera dell’agire collettivo e quella individuale è relativamente netta, in altre viceversa appare assai sfumata e labile. Tuttavia una qualche differenza socialmente sancita fra l’uno e l’altro ambito sussiste sempre. Anche se vengono talora contrapposti, società e individuo sono due dimensioni complementari dell’azione umana, nel senso che non è possibile considerare gli individui indipendentemente dalla società in cui vivono o, all’opposto, parlare della società senza tener conto che essa è composta da individui. Da un lato è chiaro che non si può mai separare del tutto il singolo dal suo ambiente sociale. Persino Robinson, il marinaio naufragato su un’isola deserta, la cui vicenda è raccontata in un celebre romanzo di Daniel Defoe, non era completamente isolato dalla società, in quanto recava pur sempre con sé delle abitudini e dei modi di comportamento appresi prima del naufragio, degli schemi mentali e dei concetti che gli suggerivano come costruirsi degli strumenti, come evitare i pericoli dell’ambiente o come procacciarsi il cibo. E gli fornivano anche, cosa non meno importante, dei criteri morali in base ai quali riflettere sulla sua sorte, il suo passato e il suo futuro, permettendogli di rafforzare la propria memoria e mantenere la sua identità di uomo civilizzato anche in un territorio lontano e selvaggio. Questi schemi e questi criteri non li aveva inventati Robinson di sana pianta, ma erano stati elaborati da generazioni e generazioni di individui vissuti prima di lui nella società da cui Robinson proveniva. Essi perciò costituivano un patrimonio collettivo, di cui ogni singolo era dotato al momento della sua nascita, e che contribuiva a elaborare e far progredire. Non tenere conto di questa dimensione sociale, inseparabile dall’individuo, vorrebbe dire dunque fare una cattiva astrazione o, come è stata definita polemicamente da Marx, una «robinsonata».
Ma dall’altro lato a questa fondamentale considerazione ne è stata contrapposta una di segno contrario e altrettanto rilevante. Quando parliamo di un «gruppo» o di una «comunità», così come quando parliamo della «società», dovremmo sempre essere consapevoli che questi enti non hanno alcuna realtà in quanto tali e non rappresentano altro che l’insieme degli individui da cui sono composti. La concezione che personifica l’agire collettivo, attribuendogli un’esistenza in sé e facendone un soggetto sui generis, diverso e indipendente dai soggetti individuali, che sono gli unici a esistere davvero, viene chiamata olismo. Secondo i suoi critici questa concezione è basata su una distorsione logica che può dar luogo a gravi conseguenze ideologiche e politiche, di carattere antidemocratico. Ciò in quanto essa porterebbe a subordinare l’individuo alla società, aprendo la strada al pensiero totalitario e a ideologie collettivistiche, come il nazismo o lo stalinismo, che sacrificano l’individuo e i suoi diritti in nome della società o del partito, e che hanno insanguinato la storia del Novecento, portando allo sterminio di milioni di persone. Per altro, anche l’individualismo radicale è stato messo sotto accusa per le sue possibili conseguenze ideologiche. Ciò in quanto esso, secondo i suoi critici, non tiene conto delle diseguaglianze sociali e finisce per considerarle come un dato «naturale». In questo modo l’individualismo porterebbe a legittimare la subordinazione dei soggetti deboli ai soggetti forti, aggravando la divisione fra ricchi e poveri, fra coloro che dispongono di mezzi e di risorse e coloro che invece ne sono privi. Secondo questo punto di vista, anche l’individualismo ruggente, che giustifica lo sfruttamento delle risorse naturali e umane del pianeta in nome della libertà di mercato e di presunte leggi economiche, sarebbe responsabile di gravi conseguenze, morali e politiche: dai ripetuti disastri ecologici all’appoggio a dittature sanguinarie e a guerre che hanno provocato molte migliaia di vittime innocenti.
La storia della specie umana è continuamente intrecciata da momenti di cooperazione e momenti di conflitto. Alcuni ritengono che l’umanità viva in un perenne stato di guerra e che l’aggressività e la violenza siano le caratteristiche dominanti nell’evoluzione della nostra specie. Ma altri sono invece convinti che l’agire cooperativo rappresenti una costante e che in una forma o nell’altra lo si ritrovi in modo continuativo in ogni epoca e in ogni società. La guerra stessa, del resto, è resa possibile dalla cooperazione, perché richiede pur sempre delle azioni coordinate e organizzate. Senza l’agire congiunto di milioni di individui non può essere raggiunto uno scopo comune. Ma basta la consapevolezza dei vantaggi che ciò può procurare a spingere gli esseri umani a operare unitariamente e superare i contrasti fra loro, per impegnarsi in imprese che spesso comportano fatiche e impongono duri sacrifici, mentre i risultati possono farsi attendere a lungo, a volte anche a distanza di intere generazioni? La scelta di non cooperare, di rifiutarsi di partecipare ad azioni comuni, è dunque sempre possibile e resta sempre aperta di fronte all’individuo. Né si può dire in generale che il rifiuto di agire in vista di fini collettivi sia necessariamente un male: possono esserci infatti valide ragioni per non cooperare, quando questi fini vengono imposti forzosamente e non sono condivisi da tutti.
Quali sono i fattori che generano la coesione sociale e inducono gli individui a collaborare tra loro e a evitare conflitti distruttivi? Si tratta di fattori esterni, di natura oggettiva, indipendenti dalla volontà e dalle intenzioni del soggetto, oppure si tratta di moventi soggettivi? A questo interrogativo, che è centrale per la scienza sociale, sono state date molte risposte. La prima – e la più antica – è che gli esseri umani siano portati per loro natura a vivere insieme e a formare delle società organizzate. Si tratta di una idea che viene attribuita per primo ad Aristotele, uno dei maggiori pensatori di tutti i tempi, vissuto nella Grecia del IV secolo a.C. Egli definiva l’uomo uno zoòn politikòn. Nelle lingue moderne questa definizione viene di solito tradotta con l’espressione «l’uomo è un animale sociale». Bisogna però considerare che i greci non avevano una parola equivalente all’aggettivo sociale, che è di origine latina. Il sostantivo polis, da cui noi moderni abbiamo tratto quello di «politica», indicava per i greci la città, non tanto come agglomerato abitativo e spaziale, quanto come organismo governato da leggi e avente una propria costituzione. È noto infatti che quelle greche erano delle città-stato autonome, che si governavano da sé. Si può quindi interpretare la definizione di Aristotele dicendo che l’uomo non soltanto vive assieme ai propri simili, come fanno varie specie animali, ma che la caratteristica propria del genere umano è quella di associarsi politicamente, cioè dandosi delle regole e formando delle istituzioni. Aristotele stesso – o comunque la sua scuola – raccolse anzi varie costituzioni delle città-stato mediterranee, non soltanto greche, che purtroppo sono andate tutte perdute, tranne la costituzione di Atene. La caratteristica che distingue la nostra specie, secondo questa interpretazione, non è soltanto quella di adottare dei comportamenti sociali, cosa che anche altre specie fanno, in maniera puramente istintiva; bensì quella di costruire delle convivenze governate in base a regole, il che permette di rendere stabili le forme di cooperazione anche in aggregati molto complessi, in cui gli individui hanno una loro sfera di autonomia. Ma il problema allora si ripresenta: da dove vengono queste regole?
Fin dalle origini della scienza sociale, nel XVII secolo, all’idea degli antichi che la socialità umana sia un modo di vivere che per la nostra specie è naturale, si è contrapposta l’idea moderna secondo cui la società è una costruzione artificiale, qualcosa cioè che non troviamo in natura ma è il risultato dell’agire volontario degli uomini in quanto esseri dotati di ragione. Questo punto di vista è stato avanzato per la prima volta dal grande filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679), al quale va riconosciuto il merito di aver compreso che l’azione sociale ha un carattere volontaristico, in quanto si fonda su una scelta. Si tratta di un assunto importante. Se infatti accettassimo l’idea degli antichi secondo cui gli esseri umani collaborano fra loro e formano delle collettività organizzate perché tale è la loro natura, non si capirebbe come mai la coesione sociale a volte venga meno e le società decadano e scompaiano in seguito a conflitti distruttivi. Bisogna dunque presumere che l’individuo possa compiere una scelta tra cooperare o non cooperare che è dovuta alla sua volontà; e si deve capire quali siano i fattori sociali che lo spingono a scegliere in un modo piuttosto che in un altro. Sintetizzando, questi fattori si possono sostanzialmente ridurre a tre: la costrizione da parte del potere, la convenienza in base all’interesse individuale e l’esistenza di valori o codici normativi condivisi. La teoria dell’azione sociale si occupa appunto di come questi fattori, da soli o combinati tra loro, intervengano a orientare i comportamenti individuali. Nelle pagine seguenti, mentre tratteremo solo per accenni del primo fattore, e cioè del potere di costrizione, metteremo a confronto soprattutto gli ultimi due, ossia la convenienza individuale, studiata dalla teoria della scelta razionale, e i valori socialmente condivisi, che sono oggetto della teoria normativa dell’azione.
Osserviamo in proposito che l’uso della forza e della costrizione, sebbene sia spesso presente nella storia delle società umane, non basta da solo a spiegare l’esistenza di rapporti stabili di collaborazione fra individui. La forza può servire a tenere sottomessa una minoranza emarginata e costringerla a cooperare, ma quando viene rivolta contro minoranze consistenti o addirittura contro la maggioranza, inevitabilmente suscita conflitti e finisce prima o poi per provocare delle crisi, rendendo instabile il potere. L’impiego della forza può servire a risolvere situazioni di emergenza, ma quando se ne abusa indebolisce la coesione sociale, generando disordini e alla lunga spingendo una società al collasso. In ogni caso, come mostra l’esempio delle società schiaviste, da Roma antica sino allo schiavismo moderno, il cui esempio più cospicuo è quello degli Stati Uniti del Sud nell’Ottocento, un’economia basata prevalentemente sulla costrizione e sul lavoro forzato ristagna a bassi livelli di sviluppo e non può evolvere, perché la massa dei lavoratori non ha speranze di migliorare la propria condizione e perciò non si crea un’adeguata motivazione soggettiva ad apprendere e svolgere mansioni qualificate e specializzate, che sono alla base di ogni forma di produzione industriale avanzata. In generale, l’uso della forza rappresenta un mezzo a cui si ricorre in casi gravi, come i comportamenti criminali, oppure una forma limite di disincentivo, che può essere fatta rientrare nel calcolo delle conseguenze d’una azione e dei vantaggi e svantaggi che essa comporta per l’individuo.

1.2. Determinismo e libertà: i presupposti della teoria volontaristica dell’azione

Il concetto di «azione volontaristica» è stato introdotto per la prima volta nella sociologia da Talcott Parsons (1902-1979). Esso nasce dall’esigenza di trovare la risposta a un problema che è fondamentale per il metodo delle scienze sociali: l’antitesi tra determinismo e libertà. Per determinismo si intende il punto di vista secondo cui l’agire umano non è libero ma è, appunto, «determinato» da fattori esterni, che sono indipendenti dalla volontà del soggetto. L’impostazione schematica di questo dilemma e la contrapposizione di scuola tra fattori esterni oggettivi, di natura deterministica, e fattori interni soggettivi, di carattere volontario, è sempre stata un problema di non facile soluzione per la scienza sociale, ed è fonte tuttora di confusioni e distorsioni logiche.
La conoscenza scientifica aspira a stabilire delle uniformità tra i fenomeni che sono oggetto di studio. Nelle scienze naturali questo metodo funziona bene. Ma è possibile applicarlo anche nelle scienze sociali? Il mondo umano non è forse composto da azioni sempre diverse le une dalle altre e che non si ripetono mai in modo eguale? Inoltre, se io stabilisco delle uniformità di comportamento, questo non vuol forse dire che gli individui si comportano tutti in modo eguale e che pretendo di sapere in anticipo quello che faranno prima che lo abbiano fatto? Ciò significa che essi non potevano fare a meno di agire in quel modo e dunque che la loro volontà non era libera ma determinata da fattori esterni che sfuggono al loro controllo. La teoria volontaristica dell’azione offre una soluzione a questo problema spiegando che la scelta compiuta dall’individuo dipende bensì dalla sua volontà, ma non si può considerare libera in assoluto. Questo per due fondamentali ragioni. La prima è che le conseguenze che derivano dalla sua azione, aggregandosi con quelle di altri individui, producono spesso degli effetti sociali che non rientravano nei suoi propositi. La seconda è che l’individuo si trova a dover scegliere, di norma, tra alternative che non sono state poste da lui. Entrambi gli aspetti costituiscono quella che si definisce la struttura della situazione. Difficilmente, se non in circostanze eccezionali, un singolo individuo può riuscire a cambiare le alternative che gli si presentano o a valutare e controllare le conseguenze alla lontana della sua azione. In molti casi le alternative cui è posto di fronte possono risultargli entrambe spiacevoli o non convenienti, ed egli può ritenerle non desiderabili. Da questo punto di vista il suo agire è condizionato. Ma nell’ambito delle possibilità che gli si offrono – ossia nell’ambito della struttura della situazione – il suo agire resta pur sempre libero.
A questo proposito, per meglio chiarire come vada inteso il concetto di scelta volontaristica, ci serviremo di un esempio limite, il paradosso stoico della libertà. Gli antichi ritenevano che la schiavitù avesse avuto origine dalla guerra, nel senso che il vincitore, risparmiando la vita agli sconfitti, diventava il loro padrone ed aveva il diritto di togliere loro la libertà. Agli sconfitti restava però pur sempre una alternativa estrema: quella di farsi uccidere o darsi la morte da se stessi, piuttosto che accettare una condizione di vita in cui venivano privati di ogni diritto. Per la filosofia stoica il suicidio era da ritenersi l’alternativa di scelta preferibile, nelle situazioni in cui l’individuo rischiava di mettere a repentaglio la sua dignità come essere umano. Meglio morire, essa affermava, piuttosto che smarrire le ragioni per le quali è bello vivere. È chiaro che a nessuno può piacere di dover scegliere fra schiavitù e suicidio. Sono entrambe opzioni che non si accettano certo «volentieri». Pure, se l’alternativa si pone in questi termini e in un modo o nell’altro bisogna decidere, quella che adotteremo va comunque considerata come una scelta «volontaristica», anche nel caso, tutt’altro che infrequente, in cui decidiamo di non scegliere, perché pure questa sarebbe una nostra opzione. P...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. Scienza sociale e teoria volontaristica dell’azione
  3. 2. La teoria della scelta razionale e l’individualismo metodologico
  4. 3. La teoria normativa e le dimensioni simboliche dell’azione
  5. Approfondimenti al testo e indicazioni di lettura
  6. Riferimenti bibliografici