Cosa resta dell'Occidente
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Cosa resta dell'Occidente

  1. 296 pagine
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Cosa resta dell'Occidente

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Gli occidentali hanno la sindrome del post (post-democrazia, post-secolarismo, post-eroismo). Sono epigoni di un Occidente la cui essenza è stata identificata classicamente nella 'razionalità'. Cosa rimane oggi di questa razionalità, che ne è della sua pretesa di rappresentare un modello universale per tutte le culture?La brutalità della crisi in corso smentisce la (presunta) razionalità del sistema economico-finanziario e produce mutazioni culturali e politiche che mettono in questione l'idea stessa di razionalità su cui si è costruita la civiltà dell'Occidente. Ne sono coinvolti non solo i presupposti normativi della democrazia ma l'insieme dei cosiddetti 'valori occidentali'. Questo saggio riesamina i criteri della razionalità occidentale ripercorrendone i passaggi essenziali dalla ridefinizione della modernità al confronto con le altre culture, sino all'elaborazione della scienza dell'uomo-natura. Soltanto affrontando questi problemi possiamo recuperare quella razionalità senza la quale l'Occidente rischia di perdere se stesso.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858103791

capitolo quarto
Il mondo islamico riprende la parola

Tradizione, modernità e secolarizzazione

Il tratto spirituale, culturale e intellettuale, qualificante e irrinunciabile, della società islamica è il primato del suo testo sacro, il Corano, e della sua autorità. Da qui l’altissima considerazione in cui è tenuta la tradizione (turath) religiosa, la sua eredità e la problematica della sua interpretazione. Ogni rinnovamento o riforma intellettuale e politica è intesa e collocata all’interno di questo quadro. Chi abbandona questa prospettiva religiosa, che non è omologa a quella occidentale, si mette fuori dall’Islam: sono gli stessi riformatori a dirlo.
Una delle conseguenze più rilevanti di questa situazione riguarda la legittimazione religiosa su cui si fondano i sistemi politici e l’etica pubblica dei paesi islamici, sia pure con notevoli differenze tra nazione e nazione. Da questo punto di vista, se è possibile trovare qualche analogia con l’esperienza storica della società cristiana europea dei secoli convenzionalmente considerati più religiosi, la differenza si fa marcata, anzi decisiva, nell’età moderna inaugurata dall’illuminismo. Da questo momento in poi, anche se in modi contrastati, l’Europa moderna non fonda più il suo sistema politico-statuale su assunti religiosi, ma diviene una società gradualmente secolare/secolarizzata. Da questo punto di vista, se stabiliamo un nesso diretto tra secolare e moderno, non c’è dubbio che la società islamica non può definirsi moderna.
Ma qui incominciano i possibili equivoci. Il quesito che dobbiamo sciogliere, infatti, consiste proprio nel chiederci in che misura l’assenza di un secolarismo e/o di una laicità alla maniera occidentale sia segno di una non-modernità o anti-modernità in senso assoluto; assenza che impedisce al mondo islamico di raggiungere quei traguardi civili e politici che l’Occidente associa e sintetizza nell’idea di democrazia. Siamo posti davanti al rapporto tra democrazia e secolarismo che – come vedremo nel prossimo capitolo – viene oggi rimesso in discussione nello stesso Occidente sotto il segno del post-secolarismo.
Il significato originario di «moderno» è semplicemente quello di «non più tradizionale», nel senso che abbandona o corregge la tradizione senza necessariamente negarla in toto. Analogamente «secolare» non è affatto sinonimo di anti-religioso o irreligioso, contrariamente a quanto affermano gli islamisti e i clericali occidentali. Costoro non capiscono che il fatto che la società occidentale secolare moderna non fondi la sua struttura statuale su principi e criteri religiosi alla maniera tradizionale pre-moderna non equivale alla negazione della credenza religiosa come tale. Questa problematica si presenta in termini diversi nell’Islam che intende mantenere un rapporto privilegiato con la propria tradizione.
Il filosofo musulmano marocchino Mohammad Abed Al-Jabri è convinto che «soltanto la nostra tradizione islamica ci porta al nostro moderno». Ma quando questo moderno islamico dichiara di voler conciliare politicamente «la sovranità del popolo» con la «sovranità di Dio»1, dovendo nel contempo fare i conti con la «sovranità interpretativa» del ceto religioso tradizionale, si spalanca un abisso di problemi.
Le volonterose risposte di molti riformatori sollevano spesso il sospetto di proporre operazioni nominalistiche. Ma se intendiamo respingere il pregiudizio che la civiltà islamica sia per struttura e per storia non-moderna, e quindi fondamentalmente impermeabile alla democrazia, dobbiamo attrezzarci per capire i tentativi delle nuove sintesi che sono ad un tempo politico-culturali e religioso-teologiche.
Si è parlato di una sorta di «aggiornamento» dell’Islam2. È un’opinione che, sebbene con parole diverse, è condivisa da altri «esperti dell’Islam» in riferimento alla continua «negoziazione» con la modernità. In ogni caso nel mondo islamico il «moderno» è un termine positivo cui nessuno vuole rinunciare, purché non venga ridotto automaticamente a sinonimo di imitazione occidentale. Ad eccezione dei dottrinari ultra-tradizionalisti e di alcuni estremisti, nessuno si dichiara nemico della modernità come tale, se e quando essa è intesa come un insieme di risorse, tecniche e atteggiamenti che migliorano materialmente l’esistenza. Lo stesso «fondamentalismo» (una definizione tutt’altro che univoca ma ormai inestirpabile nella pubblicistica) si dichiara anti-secolare, magari anti-occidentale, ma non anti-moderno.
Agli occhi di molti musulmani l’equivalenza tra Occidente e modernità è motivo di forti ambivalenze: un misto di ripulsa, di risentimento, di invidia e voglia di imitazione. «La modernità dell’Occidente è percepita più spesso come attrazione che come minaccia, e la popolazione (non soltanto l’élite) dappertutto ad ogni livello nazionale o culturale, aspira ad incontrarla, a negoziarla ad appropriarsene alla sua maniera»3. Gli stessi musulmani cosiddetti «moderati» non pensano necessariamente di aderire senz’altro ai valori «occidentali» senza per questo porsi sistematicamente la questione dell’islamicità o meno di questi stessi valori. Si accontentano di una modernità dichiarata non contraria all’Islam: tutto ciò che non è esplicitamente contro l’Islam è accettabile. In questa categoria si trovano anche rappresentanti religiosi in ruoli ufficiali: mufti e imam delle grandi moschee.
Nella nostra riflessione abbiamo già preso atto del venir meno della stretta correlazione tra modernità/modernizzazione, secolarismo/secolarizzazione, razionalismo/razionalizzazione qua­le si è storicamente verificata in Occidente caratterizzandolo sino ad oggi. Le tre componenti nel frattempo si sono universalizzate o, se vogliamo, mondializzate/globalizzate, dando luogo a combinazioni differenti. Le diverse culture e strutture statali sparse nel mondo hanno preso pezzi della sintesi occidentale, per così dire, inserendovi nel contempo una propria originalità. Ci chiediamo quindi se l’impatto con l’Occidente, anziché porre il mondo musulmano davanti alla secca alternativa tra l’aderire rassegnato ad una modernizzazione secolarizzante o il rimanere ostaggio di una tradizione religiosa che lo «sigilla in un tempo» fuori dal moderno4, non dia luogo ad una modernità «riformata» come lo stesso Islam.
Non sorprende allora che il concetto più frequentemente presente nei dibattiti e nei titoli dei libri dedicati all’Islam sia proprio quello di modernità nelle nuove forme e varianti «multiple», «alternative», «ibride». Si tratta di formule usate spesso disinvoltamente in modo allusivo e interscambiabile, avendo in comune soltanto il contrasto con il «moderno» occidentale. «Il progetto delle modernità multiple rappresenta una sfida alle narrazioni mono-culturali (monocivilizational) della modernità occidentale». «La questione-chiave non è se l’Islam sia compatibile con la modernità ma come Islam e modernità interagiscono reciprocamente, si trasformano e mostrano i limiti reciproci»5. «La modernità oggi è globale e multipla. È passata dall’Occidente al resto del mondo, non solo in termini di forma culturale, pratiche sociali e istituzioni ma anche come forma del discorso che interpreta il presente»6.
Particolarmente istruttiva è l’esperienza della società turca nel suo sforzo, ormai pluridecennale, di combinare modernizzazione, secolarismo statale e tradizione religiosa. Il punto storico di partenza di questo processo è stato il regime modernizzatore e apertamente occidentalizzante di Mustafa Kemal Atatürk negli anni Venti del secolo scorso, e durato nella sua forma politica autoritaria sino ad un paio di decenni fa. Da allora la nazione turca ha subito un’evoluzione in senso democratico, proprio sotto la spinta di una moderata islamizzazione della società. Si parla così di «modernità ibrida alla turca», per dirla con le parole di Alev Çinar7, dove il concetto di modernità, lungi dall’essere monolitico e univoco, è associato ad un insieme di idee e progetti di modernizzazione spesso anche in competizione tra loro.
La politica stessa è vista come un processo continuo di confronto e negoziazione che implica non semplicemente scambi istituzionali e deliberativi verbali, ma atti performativi di contestazione diretta che entrano a far parte della sfera pubblica. È in questa ottica che si presenta la trasformazione della Turchia negli ultimi decenni: il suo graduale passaggio dal regime kemalista d’impronta autoritaria, segnato da tratti occidentalisti e secolarizzati, ad un regime democratico caratterizzato da un ritorno alla tradizione islamica. Controintuitivamente la spinta modernizzante oggi viene proprio da quest’ultima. Ad un pae­se come la Turchia, che cerca di evitare i due estremi dell’eurocentrismo e del nativismo etnocentrico, calza meglio che ad altri paesi l’espressione «adattamento creativo» usata spesso per definire le modernizzazioni extraeuropee. «Il caso turco illustra chiaramente che la modernità non è in modo esclusivo né occidentale né orientale, né straniero né locale, né universale né particolare, né storico né atemporale, né nuovo né vecchio – ma può essere tutto questo insieme o può emergere nello spazio ambiguo tra queste opposizioni binarie. La Turchia è un paese dove la modernità come occidentalismo (Westernism) esiste contemporaneamente con la modernità come orientalismo (Easternism), dove la modernità come universalismo senza tratti particolari coesiste con la modernità come particolarismo pesantemente marcato»8.
Va sottolineato, tuttavia, che l’obiettivo specifico della modernità/modernizzazione turca rimane sempre la costruzione della nazione con la correzione dell’ideologia nazionale kemalista a favore di una ridisegnata identità nazionale. L’ideologia nazionale ufficiale turca è stata realizzata dal kemalismo negli anni Venti con metodi autoritari che miravano ad espungere dalla identità politica pubblica la dimensione religiosa islamica. Atatürk è riuscito a portare l’autorità religiosa sotto il pieno controllo dello Stato. In questo è consistita la «laicità» dello Stato turco, dove il «moderno» era tutt’uno con «secolare/laico», ma la sua istituzionalizzazione non significava la cancellazione della religione islamica dalla società come tale, bensì la sua emarginazione rispetto alla sfera pubblica. Con il passare dei decenni questa operazione si è rivelata fallimentare, il regime kemalista ha dovuto fare i conti con un crescente movimento di opposizione proveniente dalla società civile radicato nella religione musulmana che alla fine ha portato ad una rivincita pubblica dell’identità islamica. Naturalmente questo processo si è accompagnato e ha coinciso con un duro scontro politico-istituzionale9.
L’esito combinato di un tentato addomesticamento dell’Islam dall’alto in nome della nazione turca e di una islamizzazione della nazione dal basso non ha portato ad una comunità musulmana di orientamento transnazionale (Umma), ma ad una comunità religiosa ritagliata per un pubblico di lingua e costume turco. In questo senso l’Islam in Turchia, prima che una religione in senso generale, si presenta come una forma culturale che, radicata nel passato ottomano, si fa promotrice di una civiltà islamico-ottomana. Si presenta come «autentica cultura nazionale turca», che riassorbe quella kemalista univocamente orientata all’Occidente. Tutto ciò quindi – è importante sottolinearlo – non è un ritorno all’età d’oro dell’Islam originario, ma è la restaurazione di quella che si ritiene la cultura specifica della Turchia, con la sua matrice etnica e il suo glorioso passato di potenza.
In questa ottica acquista posizione centrale la «sfera pubblica», intesa come luogo della visibilità e dello scontro di potere oltre che del confronto e del dialogo. Durante la stagione kemalista nello spazio pubblico secolarizzato controllato dal governo, i discorsi religiosi islamici potevano svilupparsi soltanto in ambienti sociali ristretti e informali, sostenuti dalla letteratura e dalla musica. Mentre la sfera pubblica nazionale era sotto la supervisione delle élites statali secolariste, le comunità islamiche mantenevano un profilo basso, sopravvivendo attraverso reti personali e incontri di comunità che evitavano la pubblicit...

Indice dei contenuti

  1. capitolo primo Ridefinire la razionalità occidentale
  2. capitolo secondo L’Occidente diviso e divisivo
  3. capitolo terzo Il moderno occidentale e le sue contestazioni
  4. capitolo quarto Il mondo islamico riprende la parola
  5. capitolo quinto Post-secolarismo, democrazia e razionalità della fede
  6. capitolo sesto Razionalità delle nuove guerre
  7. capitolo settimo La scienza dell’uomo-natura