1. La Jugoslavia nella tempesta
[Clissold 1950.]
Crollo in sette giorni [Jeri 1941.]
«Tutto fu risolto nella stretta di sette giorni: 6 aprile le Palme, 13 aprile Pasqua». Così la propaganda italiana descrive la guerra contro la Jugoslavia, vinta senza nemmeno combattere: una «marcia per le dinariche che resterà nella storia dei fatti di guerra come un capolavoro di rapidità e di precisione». In realtà per una settimana l’esercito italiano assume uno schieramento difensivo, sia nell’Albania settentrionale, nel timore – fondato – di un tentativo jugoslavo di prendere alle spalle le truppe impegnate a sud contro la Grecia, sia sul fronte Giulio, dove la II armata esita ad avanzare nonostante l’evidente superiorità di mezzi. Nel frattempo i tedeschi, dopo aver bombardato Belgrado all’alba del 6 aprile 1941, avanzano rapidamente su diverse direttrici e puntano verso la Grecia. Il 10 occupano Zagabria, il 12 Belgrado. Quello stesso giorno una colonna motorizzata italiana raggiunge Lubiana. Solo il 17 aprile, giorno in cui l’esercito jugoslavo firma la resa, le truppe italiane arrivano a Mostar, Dubrovnik e Cetinje. Il Kosovo viene occupato alla fine delle ostilità. Le principali località sono state raggiunte a tappe forzate, talvolta dopo il passaggio delle colonne tedesche, incontrando come unico ostacolo masse di soldati sbandati, «intere compagnie e gruppi isolati, che col fucile a tracolla ed un grosso zaino sulle spalle» ritornano alle proprie case. La II armata conta appena una trentina di caduti.
Alla vigilia dell’invasione, nella primavera del 1941, lo Stato jugoslavo ha poco più di vent’anni. Nato nel 1918 col nome di Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (Shs), ha assunto la denominazione di Jugoslavia nel 1929. Essa include realtà territoriali molto diverse fra loro, attraversate da complesse fratture linguistiche, religiose, nazionali, geografiche, economiche e storico-culturali, spesso intrecciate. Tutto ciò in una fase storica nella quale si vanno consolidando, contrapponendosi, le diverse appartenenze nazionali. In questo complesso scenario vanno segnalati alcuni elementi rilevanti: la presenza di due gruppi nazionali maggioritari, serbi e croati; la peculiare condizione della comunità slavo-musulmana, residuo storico del prolungato dominio ottomano nell’area, residente soprattutto nelle aree centrali del paese (Bosnia e Sangiaccato); la significativa presenza di vere e proprie minoranze nazionali non assimilabili agli slavi del Sud. Fra queste ultime, alcune sono stanziate vicino ai confini di possibili «madrepatrie», come gli ungheresi, i rumeni e gli albanesi; altre, come le comunità volksdeutsche (germanofona) ed ebraica, sono presenti un po’ su tutto il territorio, ma soprattutto nel Nord e nelle grandi città.
A causa di questa complessità antropologica la Jugoslavia viene spesso dipinta dalla propaganda fascista come una «ibrida creazione di Versaglia», per sottolinearne il carattere artificiale. Ancora oggi prevale la sensazione che tale entità statale, prima e dopo la Seconda guerra mondiale, sia stata il frutto di (errati) calcoli diplomatici e di complesse mediazioni fra i diversi interessi nazionali, considerando questi ultimi il vero e unico motore delle vicende storiche del Novecento. Si dimentica però che percezioni identitarie localiste, jugoslaviste o panslaviste avevano e hanno ampia diffusione fra tutti i popoli jugoslavi, e si sono andate affermando in parallelo e non necessariamente in competizione con quelle nazionaliste, con un processo che si può definire di «cerchi concentrici identitari».
Fra le due guerre il regno dei Karadjordjević rappresenta di fatto un tentativo di sintesi fra l’ideologia politica jugoslavista e la volontà espansionista del regno serbo uscito vincente dalla Grande Guerra. La principale frattura politica esistente fra le leadership serbe e croate evidenzia proprio una diversa interpretazione dell’idea jugoslavista, intesa dalla classe dirigente di Belgrado come un escamotage per includere e assimilare le altre popolazioni slave. La scelta centralista provoca infatti fin da subito forti tensioni interne, in particolare nei rapporti con gli indipendentisti montenegrini (nell’immediato primo dopoguerra) e i separatisti croati e macedoni (nel corso degli anni Venti). A partire dal 1929 viene poi del tutto a mancare ogni volontà di soddisfare le istanze federaliste delle minoranze nazionali. Mediante una sorta di colpo di Stato monarchico, re Alessandro I impone uno jugoslavismo integrale ispirato al principio dello Stato-nazione, imponendo un’impronta prevalentemente serba al paese.
La Jugoslavia però non si disgrega da sola come preconizzato da molti osservatori dell’epoca. Anzi, nel 1939, attraverso un accordo bilaterale tra leadership serba e croata (sporazum) viene costituita un’unica grande banovina (provincia) croata. Tale entità amministrativa, che include gran parte dell’Erzegovina, soddisfa in buona misura le istanze nazionaliste croate, risolvendo così il principale conflitto interno. È tuttavia il contesto internazionale a trascinare il paese in guerra, nonostante gli enormi sforzi compiuti dal governo di Belgrado per mantenere il paese nella neutralità. Sottoposto a pressioni crescenti da parte della Germania nazista, nel marzo del 1941 il reggente Paolo si risolve a sottoscrivere il patto Tripartito. Un connubio di manifestazioni di piazza, attività sobillatrice dei servizi segreti inglesi e colpo di Stato militare provoca la caduta del governo e la proclamazione della maggiore età del re sedicenne Pietro II. Mentre la folla sfila per le strade al grido di «meglio la guerra che il patto, meglio la tomba che la schiavitù», il primo ministro britannico Winston Churchill dichiara: «Nelle prime ore di stamane il popolo jugoslavo ha ritrovato se stesso». Pochi giorni dopo la diplomazia italiana definirà il colpo di Stato di Belgrado: «La pistola che ha suicidato la Jugoslavia». È il 27 marzo 1941. Non passano nemmeno due settimane quando, nonostante gli sforzi del nuovo governo jugoslavo di manovrare fra la diplomazia tedesca, britannica e sovietica, gli stukas appaiono nei cieli di Belgrado. È la fine della cosiddetta «prima Jugoslavia».
La spartizione
I principali ispiratori della politica estera fascista – Mussolini e naturalmente il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano – hanno progetti molto precisi, affinati nel corso degli anni, circa la sistemazione da dare ai territori jugoslavi dopo la conquista. Essi rientrano in una visione strategica più generale, che è stata definita «nuovo ordine mediterraneo», per la quale il dominio assoluto sull’Adriatico rappresenta un elemento essenziale per estendere l’influenza italiana sul resto del Mediterraneo. Si tratta di uno degli obiettivi del nazionalismo italiano fin dalla fine dell’Ottocento, ma esso subisce significative evoluzioni in epoca fascista.
La geopolitica italiana di epoca liberale aveva assunto nell’area caratteri sostanzialmente filoserbi. Una serie di circostanze storiche avevano contribuito a cementare l’amicizia fra le due nazioni: i legami stabiliti durante il Risorgimento; la parentela dinastica esistente fra Savoia e Karadjordjević; l’alleanza militare nel corso della Grande Guerra e lo sforzo compiuto dalla marina italiana per trasbordare sull’isola di Corfù l’esercito serbo in ritirata. La creazione dello Stato jugoslavo aveva tuttavia vanificato almeno in parte quelli che erano gli obiettivi espansionisti del nazionalismo italiano, nonostante l’annessione di ampie fasce di territo...