Ogni volta che si racconta una storia
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Ogni volta che si racconta una storia

  1. 222 pagine
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Ogni volta che si racconta una storia

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Informazioni sul libro

Marco Baliani apre le porte della sua officina di narratore. Per cominciare questo percorso parte dalla frase più semplice: «quei due hanno una storia». La analizza, la smonta, la fa risuonare. Esiste una relazione tra due esseri umani: quindi una storia, quindi un racconto. Perché narrare significa formare all'istante un embrione di comunità, non appena nell'ascolto e nello scambio di storie si innesca una corrente di fiducia, di attenzione, di stupore.

Paolo Di Paolo, "Il Venerdì di Repubblica"

La nascita di una storia resta sempre un mistero, solo sappiamo che serviranno sempre gli stessi elementi a comporla, una voce, un corpo, orecchie e occhi attenti all'ascolto, lo stesso spazio e lo stesso tempo per viverla.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858136317

Tempo

Una bambina si sporse in avanti
“Que ofensa le dio a la abuelita?” disse
“Es una historia larga”, disse lui
“Hay tiempo”, risposero loro
Lui sorrise, li guardò e siccome in effetti c’era un sacco di tempo,
raccontò tutto quello che era successo.
Cormac McCarthy
Sì, serve del tempo per raccontare una storia ed è più che giusto che a chiedere il racconto senza limiti di tempo siano i bambini. Anche se la storia che l’uomo racconterà è una storia amara e dura, non importa, essi sono affamati di sentirsela narrare e sanno che vale la pena sprecare tempo per ascoltarla.
Le storie richiedono un “tempo altro” per essere dette e ascoltate, è un tempo che non appartiene all’ordinario scorrere dei minuti e delle ore, un tempo di fuoriuscita dal flusso della quotidianità.
Ci si ferma, in attesa, e quando il racconto comincia ecco che si entra in un’altra dimensione, gli occhi si fanno attenti e non perdono neanche il più piccolo moto del volto o delle mani o del corpo del narratore, le orecchie spalancate si appendono alle labbra del narrante, il mondo esterno si dissolve e alle sue forme se ne sovrappongono altre, quelle che l’immaginazione sollecitata dal racconto costruisce interiormente.
Appena quelle parole escono facendosi voce, divengono anche tempo, la voce vive nel tempo. Il tempo, per la voce, è come la materia oscura nella fisica, esiste ma non si vede, è la struttura che avvolge l’atto del narrare e lo sostiene dall’inizio alla fine.
Il difficile per chi si accinge a divenire narratore è averne coscienza. Ogni volta che in uno stage o durante la preparazione di uno spettacolo cerco di far comprendere agli attori, specie ai più giovani, l’importanza dell’elemento temporale, devo ricorrere a degli esempi pratici, altrimenti questo concetto è inafferrabile.
Se cerco di spiegarlo vedo i loro sguardi farsi dubbiosi, non mi seguono. Il tempo, per loro e per noi tutti in questa società, è quello misurabile e quantificabile, che scorre linearmente, da qui a là, dal passato al futuro passando per l’istante presente. Non riescono a immaginare che ci sia un tempo dello stare, un tempo che permea ogni microistante di un corpo anche quando esso non agisce, un tempo che lo avvolge anche quando non si sta compiendo nessuna azione, o quando si è in silenzio, ma anche un tempo che sta dentro ad ogni frase pronunciata, ad ogni parola detta.
Per prima cosa mi diverto, con un piccolo trucco, a far comprendere ai partecipanti quale è la natura essenziale dell’arte teatrale, di cui la narrazione fa parte in una forma del tutto speciale. Di colpo, senza preavviso, mi rivolgo a un ipotetico qualcuno che sta alle spalle dei partecipanti e con un tono risentito, a voce alta, dico: “potete chiudere quella porta, per favore!” oppure: “eh no, così no, si può chiudere la porta!?”.
Quasi tutti istintivamente si voltano a vedere a chi è rivolto il mio stizzito rimprovero, e si accorgono che dietro non c’è nessuno, ci sono cascati, ridono.
“Ecco”, dico, “questa è la differenza tra il teatro e qualsiasi altra forma di comunicazione che non viva sulla presenza in contemporanea di attore e spettatore: vi siete girati perché stavamo nello stesso spazio-tempo, perché la mia azione era convincente e perché il vostro ascolto era partecipato. Anche il mio volto ha raccontato qualcosa, ero insofferente, spazientito, vedete quanti aggettivi servono per definire qualcosa che in un attimo tutti avete percepito e vissuto senza mediazioni, in diretta. Se foste stati al cinema o davanti a un tablet o a uno smartphone e qualcuno dentro lo schermo avesse detto una frase simile, nessuno di voi si sarebbe girato, la partecipazione emotiva ed empatica non contempla in quel caso la condivisione con l’attore dello stesso spazio e dello stesso tempo”.
L’azione da me compiuta è un artificio che instaura però una realtà: rendo possibile l’esistenza di una porta là dietro e del disturbatore che non l’ha chiusa. Per far sì che questa piccola azione funzioni, io devo prima di tutto immaginare fortemente che ci sia una porta, direi anzi che la devo “vedere”, collocandola in un punto preciso della parete di fronte a me, rendermela così presente allo sguardo e ai sensi che la mia certezza della sua “realtà” possa trasmettersi a tutti i presenti.
Ma devo anche trovare in me quel risentimento, quel senso di furia che mi fa dire quella frase in quel modo, devo davvero immaginare fortemente che qualcuno sia entrato da quella porta disturbando il mio intervento e che questo disturbo sia un fatto per me inaccettabile.
Se avessi pronunciato la stessa frase scandendo di più le parole o inserendo pause tra una parola e l’altra l’effetto sarebbe stato diverso e quasi nessuno si sarebbe voltato a constatare l’accaduto. Invece la rabbia da me agìta ha prodotto un’urgenza che non ha permesso di riflettere, e ha fatto spostare gli sguardi con più rapidità. A volte capita che si voltino indietro anche quando sanno benissimo che non c’è nessuna porta alle loro spalle, lo sanno da quando erano entrati in quello spazio di lavoro, eppure, pur sapendolo, l’empatia scatta così prepotentemente che si voltano credendo di trovare una porta.
La porta invisibile è una buona metafora per affrontare l’arte del narrare. Col racconto orale dobbiamo riuscire a far “vedere” quella porta allo spettatore-ascoltatore, ma anche un albero, una casa, un cavallo, una grotta, un pescatore, una squallida cucina, un tappeto volante o qualsiasi altra cosa necessaria al racconto, dobbiamo fargliela percepire così sensibilmente che lui stesso in quel momento possa crearla con l’immaginazione, rendendosela interamente presente ai sensi.
Mi accorgo che l’esempio li ha prima divertiti e poi interessati. Ora sono più curiosi e vogliono sapere dove andrò a parare, cominciano a intuire che il discorso sull’oralità e sul tempo ha a che fare con la dimensione teatrale.
Utilizzo allora un’altra pratica dimostrazione dell’uso del gesto e del corpo rispetto al tempo, ossia invito un allievo a costruire con me una mini situazione di conflitto: è accaduto qualcosa tra noi per cui mi vedo costretto a minacciarlo. Non è importante qui conoscere quale sia la storia a monte che ha portato a questo conflitto, qui occorre solo cogliere l’attimo della minaccia. Poniamo che gli debba dire con la faccia contratta dalla furia “non provare più a rifarlo se no giuro che ti spacco la faccia”. Mentre dico questa frase mi avvento contro di lui e lo minaccio col pugno chiuso a un passo dalla sua faccia.
Ora che devo tradurre quest’azione e portarla in scrittura mi accorgo della quantità di parole che servono a far comprendere al lettore quello che fisicamente sta avvenendo in scena. Se voi che ora state leggendo foste lì, presenti, tutta questa descrizione non servirebbe: è così evidente ciò che accade che addirittura la frase potrebbe essere interrotta prima, per esempio così: “non provare più a rifarlo se no”... Il mio corpo, il gesto, il pugno contratto già “dicono” tutto il resto. La minaccia è già prepotentemente detta dal corpo e dal volto.
Aggiungere “giuro che ti spacco la faccia” rimanda l’azione violenta a un dopo, non così immediato, come dire che il corpo fa subito della minaccia un fatto concreto mentre le parole rimandano e sospendono la minaccia a un futuro prossimo. Ma può anche darsi che questa dilazione serva alla scena successiva e in quel caso la frase andrebbe pronunciata per intero.
Questo semplice esempio permette di evidenziare la natura unica della scrittura teatrale, che per essere efficace deve far percepire il tempo biologico con cui quelle parole verranno dette da un corpo che è sempre in azione, cioè è sempre attivamente partecipe, come un secondo alfabeto, a quello che la voce dice. A volte il corpo dice cose che la voce nega o viceversa, la gamma di possibilità nell’intersecarsi di queste due funzioni è infinita, e sta lì l’arte dell’attore e del narratore, nel sapere che quelle parole nascono da un corpo, e che se in scrittura non appaiono tali vanno tradite o modificate, poiché deve essere l’urgenza dell’atto teatrale a farle esistere.
Le didascalie in teatro servono proprio a questo, si indica tra parentesi un’emozione o un suggerimento di azione: “venendo in avanti con fare minaccioso” oppure “minacciandolo col pugno” o altro ancora, a volte definendo molto, a volte lasciando più spazio all’improvvisazione dell’attore.
In tutti i casi la didascalia non mette mai in gioco il tempo necessario a quell’azione, l’autore se ne astiene saggiamente, sa che quella frase o quel gesto vivono nell’effimero momento in cui verranno agiti, è il corpo psicofisico dell’attore a determinarne il tempo.
C’è un altro esempio che mostro agli allievi, un esempio che ha a che fare ancor più strettamente col problema del tempo.
In un momento della narrazione di Kohlhaas, il protagonista torna presso il palazzo del barone von Tronka per farsi restituire i due meravigliosi morelli che aveva lasciato in pegno pur di poter proseguire sulla strada che aveva trovato sbarrata. Ora sa che quel pegno è stato un inganno ordito dal barone per prendersi gioco di lui, è infuriato e deciso ad ottenere scuse e spiegazioni, ma soprattutto rivuole indietro i suoi stupendi purosangue. Quando giunge nell’aia del palazzo si accorge che porte e finestre sono chiuse, furibondo si dirige alle scuderie dove dovrebbero essere i suoi cavalli ma, aperto il portone, si accorge che dei suoi morelli non c’è traccia.
“Perché non stavano nelle scuderie?”, dico in quel momento e nello stesso istante emetto un sonoro nitrito. “Questo era il nitrito di uno dei suoi due morelli, l’avrebbe riconosciuto tra mille, ma non veniva dalle scuderie, veniva dal porcile” e mentre dico queste parole mi giro alla mia sinistra dove dovrebbe trovarsi la porcilaia. Ma il tempo che impiego per accorgermi che il nitrito non viene dalle scuderie bensì dal porcile è un tempo lungo, una sospensione che, a seconda di come viene diluita, genera un senso piuttosto che un altro. È a questo punto che eseguo davanti agli allievi diverse possibilità di uso del tempo in questa breve scena.
Una prima volta agisco un tempo contratto, brevissimo, tra il nitrito e la visione del porcile c’è solo un fulmineo voltar di sguardo, e questo gesto trascina una voce in cui prevale lo stupore, l’incredulità, lo stordimento.
Ma se invece dilato il tempo tra “ma non veniva dalle scuderie” a “veniva dal porcile”, ecco che l’incredulità acquista più forza, insieme al timore di dover accettare la realtà delle cose, e cioè che i preziosi cavalli siano stati alloggiati in una porcilaia. Se poi quel tempo si dilata ancora di più, ci si avvicina al terrore di tanti film in cui “non bisognerebbe aprire quella porta”.
Mostro insomma visibilmente come la scansione del tempo genera significati diversi: la diluizione o la contrazione di quel breve tempo di scoperta da parte di Kohlhaas è molteplice e, a ogni dimostrazione, ripetendo la scena leggo lo stupore negli occhi degli allievi, è come se gli si svelasse un segreto.
La capacità di usare il tempo è il tesoro segreto a disposizione dell’attore e del narratore.
Il tempo in cui un’azione si svolge non è mai un tempo vuoto. Anche se non vengono dette parole, nel lungo passaggio temporale tra la parola “scuderie” e la parola “porcile” è il mio corpo a parlare, lo spostamento dal lato destro a quello sinistro avviene lentamente, come in trance, il mio volto passa da una incredulità iniziale al timore della scoperta, tanto che a volte si può creare una pausa anche tra “veniva...” e “...dal porcile”, spezzando ancora più il tempo della terribile rivelazione. Quel tempo senza parole viene dunque riempito da un’interpretazione puramente psicofisica delle sensazioni che attraversano il personaggio. Ma non bisogna esagerare, niente enfasi, bisogna riuscire a stare con la situazione emotiva del protagonista senza aggiungere orpelli recitativi, senza illustrazioni mimiche.
Quando si parla di ritmo di una scena si sta parlando di questa delicata gestione del tempo. L’assenza di ritmo in uno spettacolo o in un racconto crea un tempo piatto, uniforme, dall’inizio alla fine, addormentando così la percezione dello spettatore.
L’atto del narrare è come il mantice di una fisarmonica: si può aprire e chiudere ogni volta variando piccole strutture di tempo, la composizione è la stessa ma l’esecuzione ne cambia ogni volta la percezione.
Il narratore fin dall’inizio si rivolge direttamente a chi gli sta davanti, non ci sono pareti, tutto è condiviso. Quando, in una narrazione, devo far apparire un paesaggio o un personaggio, quello che vedo e sento io devono poterlo vedere e sentire anche gli spettatori, i gesti e le parole devono generare una rete, un tessuto di lacci che legano tra loro i singoli spettatori. Ma non per tutto il racconto questo filo diretto con gli spettatori deve essere teso allo stesso modo: a volte bisogna mollare il filo, quasi arrivando al rischio della distrazione, altre volte occorre riavvolgerlo in fretta e tenderlo fino all’estremo. Questi fili invisibili si tendono sull’intera platea, a volte quasi li percepisco, una rete di tensioni percettive che si danno spalla l’...

Indice dei contenuti

  1. Quei due
  2. Generazioni
  3. Fiabe
  4. Sensi
  5. Voci
  6. Stupore
  7. Scritture
  8. Tempo
  9. Sirene
  10. Luccicanze
  11. Anello
  12. Sherazade
  13. Urgenze
  14. Rione Sanità
  15. Ramificazioni
  16. Invisibile
  17. Ringraziamenti
  18. Indice dei video