Immigrazione
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  1. 168 pagine
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Le migrazioni ci sono. Sono sempre di più e saranno ancora di più in futuro. Non è più il tempo dei problemi senza risposta: è il momento delle soluzioni.L'immigrazione è un fenomeno strutturale da decenni. Tuttavia è sempre stato affrontato in termini di emergenza, come fosse un fatto episodico. Ma l'estensione, la qualità e la quantità del processo sono tali da esigere una soluzione complessiva al nostro sistema di convivenza che non sottovaluti il malessere diffuso nell'opinione pubblica. Le recenti polemiche intorno al ruolo delle ong nei salvataggi sono l'ultimo degli esempi. Per non dire della crescente xenofobia che rischia di indebolire la coesione sociale del nostro paese. L'immigrazione irregolare, il trafficking (i suoi costi e i suoi morti), i salvataggi, i respingimenti, la gestione dei richiedenti asilo con le sue inefficienze, le forme dell'accoglienza. E ancora, i problemi legati ai rimpatri, alla cittadinanza, alle implicazioni delle diverse appartenenze religiose: è urgente e necessaria una riflessione critica onesta su tutte le questioni che accompagnano le migrazioni attuali, affrontando quelle più spinose, con il coraggio di proposte radicali.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858131770
Argomento
Economia

Il prima:
di profughi, salvataggi, morti
e altre cose che precedono gli arrivi

La migrazione, come il pellegrinaggio,
è di per se stessa il duro cammino:
un itinerario “livellatore” in cui i più forti sopravvivono
e gli altri cadono lungo la strada.
Bruce Chatwin

1. A monte di tutto

Se la nostra attenzione è richiamata da salvataggi in mare e da sbarchi che avvengono sulle nostre coste, è perché, a monte, ci sono persone che su quelle barche ci salgono. E se ci sono persone che si imbarcano, è perché pensano di averne motivo.
Noi (noi in questo libro, e noi pubblica opinione in generale) ci occupiamo di solito delle conseguenze dei processi migratori: di quello che avviene quando i migranti arrivano da noi. Ma essi hanno delle cause. E non si può fare un ragionamento serio sulle prime senza tenere in considerazione le seconde. Non si può, insomma, fare finta di niente (o, come diceva Ennio Flaiano, fare finta di tutto...): come pure molti, politici e non, che parlano di migrazioni fanno regolarmente. Tutto si tiene, tutto è collegato. Le conseguenze ci interessano perché riguardano noi, trasformandosi in arrivi non graditi a parti significative della pubblica opinione. Ma anche le cause, a ben guardare, spesso riguardano noi: anche quando non ce ne accorgiamo.
Non ci addentreremo troppo, sulle cause. Sarebbe il soggetto di un altro libro – e non breve. Ma vi dedicheremo un paio di paragrafi. Perché sono molte. E forse non sono oggi molto diverse da quelle che sono sempre state. La storia è storia di migrazioni. E comincia da lontano: nella preistoria.
Mutazioni ambientali di dimensioni epocali, come le glaciazioni, provocarono nel Pleistocene, a seguito della scomparsa o della modificazione di specie vegetali e dello spostamento di specie animali, i primi movimenti migratori dell’uomo preistorico. E risale a circa 60mila anni fa la decisiva migrazione dell’homo sapiens che ha lasciato l’Africa, stabilendosi prima in Medio Oriente, e popolando poi l’Europa circa 40mila anni fa. E, da allora, non si è mai fermato. Le motivazioni delle migrazioni sono cambiate nel corso dei secoli, diventate negli ultimi due soprattutto economiche, ma mantenendo sempre d’attualità quelle prodotte dalle guerre e dalle devastazioni causate dall’uomo o dalla natura. Ora stanno ritornando – e aumenteranno significativamente in futuro – anche le migrazioni che hanno cause climatiche. Per farla breve, quella delle migrazioni è una storia lunga: all’ingrosso, se facciamo pari a 24 ore la storia umana sulla terra, l’uomo è stato nomade, e non sedentario, per buona parte di questo tempo – e mentre alcune popolazioni si urbanizzavano e si sedentarizzavano, altre continuavano a vivere forme di nomadismo. E forse, di tutto questo, qualcosa, probabilmente nel nostro dna, certamente nella nostra memoria profonda, e nel nostro inconscio, è rimasto.
Per ragionare sulle cause delle migrazioni potremmo limitarci a citare, in ordine sparso, alcune parole: guerre (e, a monte, vendita degli armamenti con cui si fanno); fame; sfruttamento (anche per conto terzi: laddove gli sfruttatori sono i poteri armati dei rispettivi paesi, e i terzi sono, di solito, i paesi sviluppati); dittature (autoctone, certo, ma che spesso servono a sostenere interessi eteroctoni – i terzi di cui sopra: strategici, legati al controllo delle materie prime, agli alimenti, ecc.); ingiustizie; diseguaglianze; crescita demografica non accompagnata da crescita economica; persecuzioni mirate (per motivi etnici, religiosi, razziali, politici); calamità naturali – è la lista, per difetto, dei cosiddetti push factors, o fattori di spinta. Alcuni vale la pena approfondirli.
Le diseguaglianze, per esempio: che non sono in diminuzione, ma in rapidissimo aumento. I dati dello Human Development Report delle Nazioni Unite2 sono impressionanti, in proposito: nonostante una maggiore ricchezza globale a disposizione e straordinari miglioramenti (dal 1990 sono uscite dalla condizione di estrema povertà, meno di 1,90 dollari al giorno, 1 miliardo di persone, e ora sono il 13% della popolazione contro il 35% di meno di trent’anni fa, più di 2 miliardi hanno migliorato le proprie condizioni di accesso ai servizi di base, dalla disponibilità di acqua a migliori sanità e istruzione, la mortalità infantile è dimezzata e la quota di bambini che non ricevono alcuna istruzione anche: segno che molto si può fare, volendo), 1 persona su 9 nel mondo è affamata, 1 su 3 malnutrita, ogni minuto muoiono 11 bambini con meno di cinque anni e 35 madri al momento del parto ogni ora, e, per tornare al nostro tema, 24 persone al minuto sono costrette a lasciare casa propria.
Vediamo i dati del pil pro capite. Secondo le stime, aggiornate ad aprile 2017, del World Economic Outlook Database del Fondo Monetario Internazionale (accessibili sul sito dell’imf), l’Italia ha un pil pro capite (il prodotto interno lordo suddiviso per il numero degli abitanti), al 2016, pari a 30.507 dollari. Il pil pro capite medio dell’Unione Europea è di 39.317 dollari, quello dei paesi del mena (Middle East and North Africa) è di 18.402 dollari (se ci aggiungiamo Pakistan e Afghanistan scende a 13.701 dollari), e quello dell’Africa sub-sahariana è di 3.837 dollari.
Per una comparazione più dettagliata, prendiamo le principali rotte migratorie che coinvolgono oggi i nostri paesi, limitandoci a quelle dall’Africa, perché è da qui che provengono in buona parte gli sbarchi (gli arrivi dall’Est Europa, via terra, oggi incidono meno, anche se non sono inesistenti, ma soprattutto sono assai meno visibili). Immaginiamoli come dei fiumi che man mano aumentano di dimensioni e portata grazie all’incontro con nuovi affluenti.
Dalla rotta sud-ovest, chiamiamola così, si parte da Senegal, Gambia, Guinea e Mauritania, si passa dal Mali e dal Burkina Faso (dove si aggregano anche i provenienti da Costa d’Avorio e Ghana); dal Mali si va in Algeria e dal Burkina si prosegue per il Niger, dove si aggregano anche i provenienti dalla Nigeria (che in parte proseguono per l’Algeria); entrambi i flussi confluiscono in Libia, da dove tentano di partire alla volta dell’Italia.
Dalla rotta sud-est si proviene dal Corno d’Africa (Somalia, Etiopia, Eritrea), ma anche da altri paesi (Kenya e Sud Sudan), per poi passare dal Sudan e arrivare in Libia. A questo flusso si aggregano persone che vengono dal Medio Oriente attraverso l’Egitto, e altre che provengono da molto più lontano (Pakistan, Bangladesh, Afghanistan, ecc.), e che si aggregano a questo percorso da quando la rotta balcanica è stata sostanzialmente fermata in Turchia, grazie agli accordi con l’Unione Europea.
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Le principali rotte delle migrazioni (rielaborazione di una cartina di «Limes»).
Qualche dato sul pil pro capite dei paesi citati. Si va dai 233 dollari l’anno del Sud Sudan, i 411 del Niger, i 469 del Gambia, i 565 dell’Afghanistan, i 645 del Burkina Faso, i 795 dell’Etiopia, gli 823 dell’Eritrea, gli 830 del Mali, gli 852 del Ciad, su su fino ai redditi più alti, non sorprendentemente nei paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo. Dati che andrebbero accompagnati a quelli relativi ai tassi di disoccupazione (che la maggior parte dei paesi non è nemmeno in grado di raccogliere), alla popolazione complessiva (i 90 milioni dell’Egitto, i 91 dell’Etiopia, i 184 della Nigeria, i 194 del Pakistan – con una velocità di crescita assai diversa da quella europea), alla quota di popolazione giovanile, al peso del debito estero, alle diseguaglianze interne.
Tuttavia, lo ribadiamo, le nude cifre da sole non spiegano perché ci siano paesi con reddito pro capite minore o disoccupazione maggiore, dove al massimo constatiamo migrazioni interne dalle campagne alle città, e paesi con meno problemi (apparenti: quelli, almeno, mostrati dalle cifre) e più emigranti. Sono cose note alla teoria e all’analisi delle migrazioni, che da tempo sanno che a partire non sono i poverissimi, che non ne hanno le risorse per farlo né la capacità progettuale necessaria, ma la fascia superiore. Poi, giocano un ruolo anche le catene migratorie (che spiegano molto dei luoghi di partenza e dei luoghi di destinazione), e anche l’incentivazione alla partenza, indotta, oltre che dalle catene migratorie suddette (la storia delle migrazioni è una storia di cugini – in senso molto lato – che vanno a raggiungere altri cugini...), e dalla socializzazione anticipatoria prodotta dalle eredità coloniali e dai media, anche dalle agenzie di marketing dell’immigrazione, dai venditori di illusioni e di “passaggi a nord-ovest”, dai trafficanti di uomini e donne, ormai organizzati in imprese transnazionali che si incaricano di tutto: dalla pubblicità e dai finanziamenti alla partenza e agli arrivi via gommone.
Sugli squilibri demografici, ci limitiamo a citare alcuni dati, riprendendoli dal World Population Prospects del Dipartimento di affari sociali ed economici delle Nazioni Unite3. La crescita complessiva della popolazione mondiale passerà dagli attuali 7,6 miliardi agli 8,6 del 2030, ai 9,8 del 2050 e agli 11,2 del 2100 – all’incirca 83 milioni l’anno di aumento. Ma con andamenti demografici differenziati: tra i paesi maggiori, l’India – 1,3 miliardi oggi – dovrebbe superare la Cina – attualmente 1,4 – nel 2024; ma la Nigeria (uno dei paesi da cui arrivano già oggi flussi significativi di migranti: è anche il primo per richieste di asilo in Italia), attualmente settimo paese per popolazione, diventerà il terzo, scalzando gli Stati Uniti, già prima del 2050. Dal 2017 al 2050 metà della crescita globale della popolazione sarà concentrata in soli nove paesi, diversi dei quali sono già oggi presenti nelle rotte verso l’Europa: nell’ordine India, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Pakistan, Etiopia, Tanzania, Stati Uniti, Uganda e Indonesia.
I 47 paesi classificati come ldc (paesi meno sviluppati, o least developed countries), con una fertilità media di 4,3 figli per donna, seppur in calo, saliranno dall’attuale miliardo a oltre 1,3 miliardi nel 2030 e a 1,9 miliardi nel 2050; nello stesso periodo la sola Africa, che ha la fertilità più alta del mondo, seppure in calo (attualmente 4,7 figli), dovrebbe raddoppiare la sua popolazione, e di conseguenza, a seguire, la sua popolazione in età lavorativa. A titolo di comparazione, l’Europa ha una fertilità finalmente in crescita nell’ultimo decennio, dopo un lungo periodo di declino: ma da 1,4 a 1,6 figli, largamente al di sotto del tasso di riproduzione che consente di mantenere stabile la popolazione – condizione che coinvolge oggi 83 paesi del mondo. Come ovvio, questo dato influenza l’invecchiamento della popolazione: rispetto al 2017, la popolazione con più di sessant’anni raddoppierà entro il 2050 e più che triplicherà entro il 2100, passando rispettivamente da 962 milioni attuali a 2,1 miliardi nel 2050 e a 3,1 nel 2100. In Europa la popolazione over 60 passerà dall’attuale 25% al 35% nel 2050; in Africa passerà dall’attuale 5% al 9% nel 2050. Ma i 10 stati più giovani del mondo, con un’età media intorno ai vent’anni, sono tutti africani: e quindi tutti al di là del Mediterraneo – a due passi da qui. La sintesi di cosa comporta tutto ciò ce la offre la comparazione storica: all’inizio del Novecento era europeo un abitante del mondo su quattro; nel 2050 lo sarà uno su quattordici.
Aggiungiamo i dati, collegati, sull’urbanizzazione: dal 2014 più della metà della popolazione mondiale è urbanizzata, e salirà a due terzi nel 2050 – e la migrazione dalle campagne alle città è spesso il primo sradicamento, e dunque il primo step o il pre-requisito di successive forme di mobilità e migrazione; anche perché 880 milioni di persone non vivono in case e quartieri, ma in baracche e slums, in cui avverrà probabilmente il 40% della futura urbanizzazione, e avranno quindi poca motivazione a rimanerci – da quei luoghi, temporanei per definizione, si va via volentieri... A margine, notiamo che tutti i 50 paesi con il più alto tasso di sviluppo umano, con la sola eccezione di Israele, hanno un tasso di fertilità che non consente il mantenimento di una popolazione stabile. Tradotto: più i paesi sono ricchi in termini di benessere generale (non necessariamente solo riguardo al pil pro capite, anche se per molti paesi i dati corrispondono), meno fanno figli, e più avranno bisogno di manodopera straniera che svolga i lavori che non intendono più fare, e anzi i lavori tout court (almeno fino a quando non ci penseranno i robot e l’intelligenza artificiale a sostituirli – e qui si apre un altro scenario intorno a cui le interpretazioni divergono ampiamente). All’inverso, più basso è il livello di sviluppo umano, più alti sono i tassi di fertilità, con punte di 7,6 figli per donna in Niger (al 187° e penultimo posto in classifica), 6,4 in Mali, 6,3 in Ciad, e una media di 4-5 figli nella maggior parte dei paesi che fanno parte delle rotte migratorie verso l’Italia e l’Europa. Molti di questi paesi sono destinati a raddoppiare (o più) la propria popolazione dal 2015 al 2030.
Aggiungiamoci infine le calamità naturali, e i disastri ambientali che vedono una qualche responsabilità anche nell’uomo, come la desertificazione e il riscaldamento globale: la desertificazione, ad esempio, rischia di costringere alla migrazione 135 milioni di persone da qui al 2045. Per inciso, l’Africa intera è responsabile solo per una percentuale tra il 2% e il 4% delle emissioni annuali di gas che producono l’effetto serra – ma sarà una delle aree che ne pagherà il prezzo più grande, dato che la temperatura, proprio in quella zona del mondo, potrebbe aumentare significativamente più della media globale.
O pensiamo alle forme di appropriazione indebita (anche quando è legale, e certificata da atti d’acquisto) come il land grabbing, più correttamente definibile come green grabbing, visto che riguarda essenzialmente le aree fertili, ovvero l’acquisto di terre da parte di multinazionali e stati sovrani (come la Cina, ad esempio, ma anche paesi arabi), a sua volta un driver di spostamenti di manodopera: che in Africa avrebbe raggiunto, con la progressiva accelerazione in corso negli ultimi anni, secondo alcune stime, i 300 milioni di ettari (ovvero 3 milioni di chilometri quadrati: la superficie degli stati più grandi d’Europa – nell’ordine Francia, Spagna, Svezia, Germania, Finlandia, Polonia, Italia più un pezzetto di Regno Unito – messi insieme; per capirci, la superficie di tutta l’Unione Europea è di nemmeno 4,3 milioni di chilometri quadrati) – e tra i paesi più coinvolti nel fenomeno ci sono anche alcuni di quelli che interessano le rotte migratorie verso il Mediterraneo, come Guinea, Ghana, Congo, Nigeria e Senegal. Il grabbing di altre risorse – minerarie, per esempio – neanche lo menzioniamo. Citando, in sua vece, una perla di saggezza africana: “se uno percuote un alveare per portare via il miele, le api lo inseguono...”.
Infine, a margine:...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Il prima: di profughi, salvataggi, morti e altre cose che precedono gli arrivi
  3. Il dopo: di commissioni, accoglienza, minori, rimpatri e altre conseguenze degli sbarchi
  4. Che mondo sarà? Le trasformazioni in atto
  5. Che fare, allora?
  6. In memoriam