Nove su dieci
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Nove su dieci

Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa

  1. 184 pagine
  2. Italian
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Nove su dieci

Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa

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Ogni ricco ha il reddito di cento poveri.Non è l'Inghilterra di Dickens, è l'Italia di oggi. Redditi e ricchezza si sono concentrati nelle mani di una persona su dieci. Le altre nove quasi tutti noi stanno peggio di dieci anni fa, sono i 'perdenti', divisi in mille modi tra uomini e donne, tra vecchi e giovani, tra Nord e Sud ma uniti dal declino.Com'è potuto succedere? Togliere ai poveri per dare ai ricchi, rendere il lavoro più debole e il capitale più forte è da trent'anni l'orizzonte del liberismo. Da qui ha origine la crisi attuale, in Europa e in Italia. Ma un'alternativa c'è, ci meritiamo un altro futuro.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858104088
Argomento
Business
Categoria
Finance

1. Crolla la finanza, implode l’Europa

La mitologia ci racconta di una giovinetta, Europa. Zeus la vede, si trasforma in toro, la fa salire sul dorso, la porta oltre il mare a Creta, la possiede. Ai giorni nostri il toro è il simbolo dei mercati finanziari, e il ratto e la violenza d’Europa sono un’efficace metafora di quanto è avvenuto negli ultimi anni. La nostra Europa non è una giovinetta, è l’economia più grande del mondo, con 27 paesi nell’Unione e 17 nell’area dell’euro, una complessa costruzione politica, una potenza mondiale. Come è potuto succedere che il toro della finanza la trascini sulle onde della speculazione, la pieghi alla sua volontà, la getti nella depressione? Vediamo i meccanismi che in vent’anni hanno portato la costruzione europea all’impasse di oggi.

1. Europa, un’integrazione sbagliata

Il 7 febbraio 1992 i governi europei hanno firmato a Maastricht il Trattato sull’Unione europea che apriva la strada all’Unione economica e monetaria e alla creazione dell’euro. Era appena stato introdotto il mercato unico – un’integrazione commerciale più stretta del passato – e liberalizzati del tutto, per la prima volta, i movimenti di capitale. Era finita la Guerra fredda, caduti i regimi dell’Est europeo, riunificata la Germania. Neoliberismo e finanza erano diventate le stelle polari dell’integrazione europea. L’orizzonte era quello di far arretrare il lavoro e aumentare profitti e rendite finanziarie. Il progetto europeo puntava sulle capacità del mercato di trainare la crescita attraverso più efficienza e investimenti, favoriti da capitali mobili. La condizione necessaria era abbassare inflazione e tassi d’interesse, stabilizzare i cambi, ridurre deficit e debito pubblico, in modo da avvicinare tra loro – in termini finanziari – le economie interessate all’Unione monetaria. In altre parole, i governi europei rinunciavano agli strumenti «keynesiani» che avevano sorretto la crescita del dopoguerra (spesa pubblica e svalutazione del cambio) e confidavano nelle potenzialità della domanda privata per investimenti ed esportazioni in un’economia in via di globalizzazione.
Quel progetto inciampò subito nella trappola della finanza. Sei mesi dopo la firma del Trattato scoppiò una crisi che portò all’uscita dal sistema monetario europeo di lira (svalutata del 30%), sterlina e peseta. L’Italia di fine Prima Repubblica, con il governo di Giuliano Amato, prese misure draconiane – prelievo sui depositi bancari, privatizzazioni, tagli alla spesa – per mettere i conti in ordine, ridurre l’inflazione, fermare la speculazione. Da quella crisi inizia la fase più evidente del declino economico italiano. E in Europa nasce l’Unione monetaria subalterna alla finanza.
A vent’anni di distanza si può vedere con chiarezza quello che è successo: l’Europa non ha trovato una fonte alternativa di domanda (le esportazioni verso Usa e Asia hanno funzionato solo per la Germania e pochi altri), gli investimenti sono cresciuti poco e sono andati soprattutto verso gli alti rendimenti della finanza, i consumi sono rimasti fermi per i salari bassi e la disuguaglianza crescente, la spesa pubblica è stata bloccata dai vincoli del Patto di stabilità. È vero che i paesi dell’euro restano lontani dall’«iperfinanziarizzazione» di Usa e Gran Bretagna, è vero che l’affermazione dell’euro come moneta mondiale – la prima moneta che dietro di sé non ha oro e riserve – è stata un successo, è vero che l’Unione è la più grande area economica del mondo. Ma il nuovo spazio per la politica europea non è stato utilizzato perché è mancata l’altra metà delle politiche, quelle fiscali, sia sul fronte delle entrate (niente armonizzazione delle tasse, restano ancora paradisi fiscali dentro la Ue), sia sul fronte delle spese: niente spesa pubblica a scala europea che compensi i tagli a scala nazionale. Il risultato è che la crescita non c’è stata, ma c’è stato il passaggio di almeno dieci punti percentuali del Prodotto interno lordo (Pil) europeo dai salari a profitti e rendite finanziarie. L’Europa è rimasta subalterna al modello americano di capitalismo finanziario e ha perduto occupazione, diritti sociali e welfare state1.
Centro e periferia All’interno dell’Europa, quel modello di integrazione neoliberista non ha fatto i conti con l’economia reale e le forti differenze tra paesi in termini di capacità produttive e di export, tecnologie, specializzazioni, potere di mercato delle grandi imprese, occupazione, salari. Si diceva che mercati aperti ed efficienti avrebbero portato crescita e occupazione per tutti allo stesso modo. Così la politica dell’Europa per l’economia reale si è ridotta a imporre, dopo il libero mercato dei capitali, analoghe liberalizzazioni sui mercati dei prodotti – che spesso hanno distrutto i piccoli produttori nazionali dei paesi della periferia – e sul mercato del lavoro, con politiche antisindacali, di «flessibilità» e misure che hanno generalizzato la precarietà e abbassato i salari. È stata cancellata l’idea che siano necessarie (o anche solo possibili) politiche industriali che guidino il cambiamento di che cosa e come si produce, un cambiamento reso più importante dall’arrivo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dall’evidente insostenibilità ambientale del nostro sviluppo2.
In un contesto di bassa crescita, l’integrazione dei mercati e della moneta ha reso più forti le economie già forti. Le esportazioni tedesche, sostenute da tecnologia e produttività, hanno invaso il resto dell’Europa. Il risultato è stato una concentrazione del potere economico e politico, generando una dinamica centro-periferia: nel centro la Germania (con i suoi satelliti, Olanda, Belgio, Austria, Finlandia) e la Francia (a fatica); nella periferia il Sud Europa – Italia compresa –, l’Irlanda e i paesi dell’Est, nuovi entrati. La Gran Bretagna è rimasta fuori – vicina al modello di finanziarizzazione Usa – più che dentro l’Europa.
All’avvio dell’Unione monetaria, i paesi della periferia hanno cercato di «arrangiarsi» prendendo direzioni diverse. Grecia e Portogallo hanno usato la spesa pubblica finanziata dal debito – approfittando dei bassi tassi d’interesse iniziali consentiti dall’euro e aggirando il Patto di stabilità – per distribuire occupazione e salari; la perdita di capacità produttive ha peggiorato i conti con l’estero e il debito pubblico è stato finanziato sempre più da banche estere, che ora temono l’insolvenza e hanno scatenato la crisi.
L’Irlanda, un vero paradiso fiscale per le imprese mondiali, è cresciuta in modo accelerato per l’afflusso di capitali esteri sempre più destinati ad alimentare speculazioni finanziarie e bolla immobiliare; la crisi del 2008 ha azzerato questo modello, lo Stato si è caricato i debiti delle banche e il paese si trova con disoccupazione di massa e povertà diffusa.
La Spagna ha avuto una crescita legata agli ultimi sussulti della modernizzazione (in Catalogna in particolare), a un’espansione della domanda e alla bolla immobiliare, con forti afflussi di capitali esteri, e si trova ora esposta sul fronte finanziario.
L’Italia della Seconda Repubblica ha visto affermarsi con i governi Berlusconi un’economia del privilegio fatta di declino industriale e qualche nicchia di export, saccheggio del settore pubblico e dei beni comuni, evasione fiscale e condoni, consumi opulenti dei ricchi e precarizzazione del lavoro, come vedremo nei capitoli 2 e 3. Il risultato è stato un decennio di ristagno economico (oggi in termini reali il Pil italiano è al livello del 2001) che ha creato le condizioni per il disastro finanziario del 2011.
L’integrazione europea disegnata negli anni Novanta e fondata su mercato unico e Unione monetaria è stata «zoppa», e non poteva andare lontano. Mancava di una politica fiscale comune – armonizzazione delle imposte, un bilancio europeo rilevante, misure di sostegno alla domanda a scala europea – e di politiche comuni per l’economia reale che sostenessero una convergenza in termini di produttività, investimenti, esportazioni, occupazione. L’Europa non ha rafforzato l’integrazione politica, non ha preso la strada federale e si è dimenticata della democrazia; fondata solo sui mercati, è finita prigioniera della finanza, con conseguenze disastrose quando la crisi è arrivata.

2. Il crollo finanziario del 2008

La crisi finanziaria scoppia negli Stati Uniti nel 2007 e dilaga in tutto il mondo nel 2008. Da lì inizia la crisi che nel 2010 ha investito l’Europa e che ha portato alla recessione attuale.
La finanziarizzazione di un’economia sempre più globale ha portato alla crescita patologica di attività finanziarie con una logica speculativa: le transazioni annuali di titoli azionari e obbligazionari mondiali sono quattro volte il Pil mondiale, quelle sui mercati dei cambi superano di quindici volte il Pil mondiale. Si è gonfiato il mercato dei prodotti derivati (contratti che si appoggiano su altri titoli, scommettendo sul loro prezzo futuro), che è pari a dodici volte il Pil mondiale.
Alla ricerca dei grandi guadagni consentiti dal rialzo dei valori finanziari e immobiliari, banche e imprese si sono lanciate in operazioni sempre più spregiudicate che hanno alimentato una serie di «bolle speculative» – in particolare quelle legate al mercato immobiliare e ai prodotti finanziari derivati da altri titoli. Negli Stati Uniti la crescita dei valori immobiliari e del mercato dei mutui ad alto rischio («subprime») ha moltiplicato crediti e strumenti finanziari fortemente instabili. Si sono concessi mutui sulla casa per miliardi di dollari a persone a basso reddito e prive di garanzie patrimoniali, affidandosi solo sull’attesa di continue rivalutazioni dei valori immobiliari. In un decennio che ha visto un diffuso impoverimento dei redditi, questo meccanismo finanziario ha creato liquidità che ha sostenuto i consumi degli americani meno fortunati. Ma quando il mercato immobiliare ha cessato di crescere, nel 2007, la bolla è scoppiata, trascinando nel fallimento decine di grandi banche e società immobiliari, mentre milioni di americani non sono più riusciti a pagare i mutui e centinaia di migliaia di case sono state pignorate. La vittima più illustre del crollo finanziario Usa è stata la Lehman Brothers, una delle quattro maggiori società finanziarie del mondo, fortemente esposta sui mercati dei titoli immobiliari e dei derivati finanziari, che nell’autunno 2008 è stata lasciata fallire, facendo precipitare la crisi.
Lo scoppio della «bolla immobiliare» Usa ha fatto scoppiare immediatamente anche la bolla speculativa sul mercato dei titoli, «drogato» fino all’inverosimile da prodotti finanziari derivati, di cui è impossibile definire il valore e il grado di rischio, e da operazioni non registrate nei bilanci delle società. Tra l’ottobre 2008 e l’ottobre 2009 negli Stati Uniti e in Gran Bretagna gli indici di Borsa sono caduti del 30%, in Francia, Germania e Giappone il crollo è stato vicino al 40%, in Italia del 42%; uguale il crollo in India, mentre in Cina la caduta è arrivata al 60%. In altre parole, il valore delle grandi imprese quotate in Borsa si è ridotto di un terzo o della metà rispetto a un anno prima.
Questi crolli hanno portato alle stelle l’esposizione finanziaria a breve termine delle banche. All’indomani dello scoppio della crisi, nel 2008, i debiti che le banche dovevano pagare entro un anno avevano già raggiunto l’86% del Pil in Italia, una volta e mezzo il Pil in Gran Bretagna, due volte il Pil in Islanda – il primo paese europeo a subire un crollo finanziario – quasi tre volte il Pil del Belgio3.
Le grandi società finanziarie Usa si sono trovate con titoli divenuti carta straccia, prive di liquidità e con bilanci in profondo rosso. Alcune sono naufragate – Lehman Brothers, Merryl Lynch – altre sono state salvate da George Bush negli ultimi mesi di governo – Goldman Sachs, la società di assicurazioni AIG – con un programma di enormi finanziamenti pubblici, che è stato subito confermato da Barack Obama dopo la sua elezione alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre 2008.
Un crollo finanziario di queste dimensioni ha portato immediatamente a una recessione dell’economia reale: sono caduti redditi e domanda, sono crollate esportazioni e investimenti. Nel 2009 il Pil è sceso negli Usa del 3,5%, in Giappone del 6,3, in Germania e in Italia del 5,1, nell’insieme dei paesi euro del 4,2 (dati Ocse, Economic Outlook). È nata così la crisi più grave dalla grande depressione degli anni Trenta.
Le cause della crisi finanziaria sono nell’insostenibilità di un sistema che lascia prevalere la speculazione sulle regole, la finanza sull’economia reale, i mercati sulla politica. Eppure le risposte alla crisi fanno di tutto per lasciare immutato il sistema; è stato fornito un credito quasi illimitato da parte delle banche centrali, sperando che ciò fermasse la caduta delle Borse; la prima risposta negli Usa è stata il piano Paulson – ministro del Tesoro di George Bush – che ha fornito 700 miliardi di dollari per l’acquisto di «titoli tossici» (quelli che ora sono praticamente senza valore) delle banche, con la possibilità che il governo acquisisca quote azionarie di minoranze delle banche, da rivendere a crisi finita. L’entrata dello Stato nella proprietà delle banche è invece la strada presa in Gran Bretagna, Irlanda e in altri paesi europei, senza però che la proprietà pubblica mutasse in alcun modo la logica speculativa dei comportamenti della finanza. Gli Stati, insomma, hanno salvato i responsabili della crisi, facendone pagare i costi a tutti i cittadini.
Le interpretazioni della crisi Sono molti i resoconti puntuali di come è avvenuta la crisi finanziaria. I libri di Joseph Stiglitz (2010), e di Roubini e Mihm (2010) offrono un quadro esauriente di quello che è successo e delle risposte sbagliate della politica – Usa e internazionale – al crollo finanziario. Ma non spiegano a fondo le radici della crisi.
Il gonfiarsi delle attività finanziarie mondiali è il risultato della piena liberalizzazione dei movimenti dei capitali e del mercato dei cambi realizzata a partire dagli anni Ottanta, seguendo i dettami del liberismo più ideologico. La teoria affermava che in questo modo i capitali avrebbero finanziato le attività più produttive e meno rischiose in tutto il mondo, accelerando la crescita, con tassi di cambio che mettevano automaticamente in equilibrio i conti con l’estero di tutti i paesi. La pratica ha mostrato che i centri finanziari mondiali – Wall Street negli Usa e la City di Londra – hanno concentrato capitali da tutto il mondo, assicurando attraverso la speculazione rendimenti più elevati di quelli possibili con investimenti produttivi e creando in questo modo le bolle speculative poi destinate a scoppiare.
In parallelo, le liberalizzazioni di movimenti dei capitali e cambi hanno drasticamente ridotto gli strumenti di politica economica a disposizione dei governi. Sul piano dei cambi tra le valute, si è aperta la possibilità di attacchi speculativi contro i paesi più fragili, che hanno portato – a partire dagli anni Novanta – a frequenti crisi finanziarie in Asia, Russia, America Latina. Sul piano finanziario, i flussi di capitali speculativi hanno reso impossibile ai governi programmare gli investimenti e le trasformazioni dell’economia reale. Sul piano delle politiche fiscali, la libertà di movimento dei capitali ha consentito alle imprese e ai ricchi di tutto il mondo di trasferire denaro dove prometteva guadagni speculativi maggiori e minore tassazione. Diversi paesi sono diventati «paradisi fiscali», con tasse bassissime o nulle sui profitti delle imprese e sulle rendite finanziarie: qui sono oggi depo...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Crolla la finanza, implode l’Europa
  3. 2. Il declino italiano
  4. 3. Nove su dieci
  5. 4. La via d’uscita
  6. Riferimenti bibliografici