18-22 marzo 1848. Le Cinque Giornate
di Ernesto Galli della Loggia
Mi tirai dietro la porta d’una casa per non farmi travolgere dalla folla. Poco dopo vidi rovesciare, presso il ponte di S. Damiano, un carro di botti vuote che vi stava fermo, e si principiò la prima barricata tra un baccano indiavolato. Poi sentii suonare a stormo le campane della vicina chiesa di S. Damiano; poi il rumore secco di alcune fucilate; poi un grido: ‘Evviva i morti!’ alto, terribile, che parmi ancora di riudire oggi mentre scrivo, dopo tanti anni.
Così iniziarono le Cinque Giornate nel ricordo di un allora giovanissimo patrizio lombardo, Giovanni Visconti Venosta, che vi partecipò fin dall’inizio, autore di uno dei più gustosi libri di memorie del nostro Risorgimento.
Si direbbe che pochi giorni più di questi, tra il 18 e il 22 marzo del lontano 1848, appartengano interamente a Milano, ne incarnino e rappresentino la più intima vicenda. E invece, a ben vedere, non è proprio così. Essi vanno molto oltre la storia della città. Le Cinque Giornate, infatti, non rappresentarono solo l’insurrezione dei milanesi in quella che fu la più importante rivolta urbana di tutto il Risorgimento, destinata a dare il via alla prima guerra dell’indipendenza italiana. Furono molto di più: costituirono uno snodo decisivo per definire in anticipo cosa il Risorgimento sarebbe stato, per decidere sotto quali equilibri politici si sarebbe svolto, a quali rapporti di forza avrebbe obbedito, e dunque a quale Stato e a quale regime avrebbe dato vita. In altre parole, che cosa sarebbe stata l’Italia unita si decise – o, se si vuole, si cominciò a decidere già per gran parte – proprio in quei giorni nelle vie e nelle piazze della capitale lombarda. Che tutto ciò sia avvenuto a Milano però non fu certo un caso. Per capirlo, come in tutti i racconti che si rispettano, dobbiamo fare uno o due passi indietro. Dunque, perché proprio Milano?
A partire dal 1815, dalla fine cioè dell’avventura napoleonica, la città e la sua regione erano diventate, insieme al Veneto, l’architrave di quella che era ormai l’egemonia stabilita dall’Austria sull’Italia. Nel secolo precedente, prima dell’arrivo dei francesi, Milano e la Lombardia austriache avevano costituito un territorio isolato geograficamente dal resto dell’impero. Un avamposto insomma importante sì, ma alla fine solo un avamposto, dell’influenza di Vienna nella penisola, il quale insieme alla Toscana degli Asburgo-Lorena serviva a fare da contrappeso alla forte presenza dei Borboni nel grande Regno dell’Italia meridionale e al loro vasto retroterra franco-spagnolo. Adesso, nel 1815, tutto invece era diverso. Non solo grazie alla conquista del Veneto esisteva ormai una piena continuità territoriale tra la Lombardia e il resto dell’impero, ma la fine della potenza francese e la definitiva scomparsa dallo scacchiere europeo di quella spagnola avevano reso di fatto tutta la penisola un grande protettorato nelle mani di Vienna. Di cui Milano era ora la capitale.
D’altra parte, paradossalmente, proprio questo nuovo ruolo geo-politico, che ne aveva tanto accresciuto l’importanza, aveva altresì peggiorato le condizioni generali della città e della sua regione. Nel Settecento, infatti, come scriveva un celebre personaggio che ci farà quasi da guida in questo viaggio nel ’48, Carlo Cattaneo, l’Austria «aveva dovuto in certo senso corteggiare li interessi e i sentimenti» delle popolazioni lombarde separate e lontane dal suo dominio diretto: «fu quello il secreto, aggiungeva, della pace e della prosperità che ebbe il regno di Maria Teresa fra noi». Ora non più. Ora, dopo il 1815, Milano e le sue terre, come del resto quelle di Venezia, si trovarono coinvolte a pieno titolo nel programma di forte centralizzazione sotto il primato della minoranza tedesca adottato da Vienna. Forse esagerava alquanto Cattaneo nel dire che di conseguenza il Lombardo-Veneto, a dispetto del suo titolo ufficiale di «regno», era stato ridotto al rango di una vera e propria «colonia», ma le sue parole coglievano indubbiamente un dato di fondo, che negli anni Quaranta, quando inizia la nostra storia, cominciava ad essere sempre più vero.
Il governo locale era lasciato, beninteso, in mano ai possidenti; ma l’apparato statale, invece, macchinoso, iperformalistico, e perciò iperburocratizzato, era caratterizzato da un’istruzione e decisione delle pratiche affidate per intero a organi collegiali dipendenti direttamente da Vienna. Tutto veniva deciso ...