I fondamenti del diritto occidentale
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I fondamenti del diritto occidentale

Un'introduzione storica

  1. 160 pagine
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I fondamenti del diritto occidentale

Un'introduzione storica

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Che cosa c'è al fondo delle regole che ci governano la vita obbligandoci? Qual è il paradigma oggi fondante il diritto e, con esso, l'organizzazione sociale in cui ci troviamo immersi? E quale o quali sono stati i paradigmi nelle epoche passate e quale paradigma potrà esservi – o è sperabile che vi sia – nel futuro?
Nel libro si interroga la storia occidentale alla ricerca dei fondamenti che sono stati via via posti alla radice del potere e delle sue articolazioni normative; fondamenti che hanno retto (o reggono tuttora) la dinamica del comando e dell'obbedienza all'interno delle comunità organizzate e, all'esterno, delle relazioni, paritarie o di supremazia, tra i diversi Stati.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116142
Argomento
Jura

IV. Un paradigma per il futuro

1. La pace come missione dell’Occidente nella contemporaneità

È difficile che l’esperto di diritto si lasci distrarre dall’ipotesi sul futuro. Questo è un esercizio che normalmente non gli interessa: tutto preso dal presente e dalla necessità di trovare una soluzione ai problemi della viva attualità, egli non sembra guardare né al passato né al futuro. Per questo è comune la constatazione che il ceto dei giuristi sia tendenzialmente portato alla conservazione e assai poco propenso alla rivoluzione dei sistemi vigenti: mantenere l’esistente significa difendere la propria professionalità, quel patrimonio di conoscenze che garantisce la padronanza di un mestiere, il quale consiste nel dare applicazione alle regole (già) poste. Al più il giurista, si potrebbe dire, ‘normale’ interpreta le regole in essere, ma non è frequente che giunga ad auspicarne la loro totale espunzione.
È però accaduto che le rivoluzioni siano state spesso capeggiate da uomini di legge: tutti sanno che Maximilien de Robespierre era un avvocato. È pure accaduto che i grandi mutamenti degli assetti giuridici siano stati pensati per i primi da filosofi interessati alla politica e al diritto piuttosto che da giuristi veri e propri. Tanto per rimanere nell’evo moderno, se in Inghilterra Hobbes si era battuto senza successo per la sostituzione della common law di formazione giudiziale con la legge generale e astratta emanata dal sovrano, in Europa continentale l’idea di un codice breve, chiaro e sufficiente fu magnificamente esposta da un filosofo come Leibniz e risultò poi trionfante negli esiti della storia che ci ha condotto fino ai nostri giorni.
Per quanto concerne la forma dello Stato e le relazioni internazionali fra Stati, fu ancora un filosofo come Kant a leggere il futuro meglio di ogni altro. Nel 1795, a settantuno anni, egli pubblica il «progetto filosofico» Per la pace perpetua, un saggio che si direbbe profetico se non fosse dettato da un fondato ragionamento sul bene comune (sul maggiore tra i beni comuni) e sul metodo più idoneo al suo conseguimento.
Già dalle primissime pagine, ove sono esposti gli articoli preliminari del progetto, Kant dimostra di avere le idee straordinariamente chiare soprattutto ai nostri occhi che, leggendole a oltre due secoli di distanza, conosciamo le vicende dell’Otto e del Novecento. Egli ha come un presentimento quando prescrive che «nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato» (Per la pace perpetua 1.5). Sappiamo, purtroppo, che la violazione di questo precetto è stata causa di ripetute guerre fino ai nostri giorni; e la stessa tragedia della seconda guerra mondiale ebbe inizio quando, nel settembre del 1939, la Germania invase la Polonia. Ma sappiamo anche che il principio kantiano è oggi riconosciuto come vera e propria regola dalla comunità internazionale che vi ammette deroga (almeno in thesi) solo quando uno Stato violi patentemente i diritti umani più fondamentali. E, se l’obiettivo da conseguire è la pace perpetua tra i popoli, Kant ha ancora ragione quando postula la scomparsa del miles perpetuus, cioè degli eserciti permanenti, e il divieto del ricorso al debito pubblico per finanziare una controversia internazionale. Postulati, forse, un poco utopistici; ma la storia ci conferma, da un lato, che una struttura bellica permanente costringe gli Stati (sono parole di Kant) «a gareggiare vicendevolmente in qualità di armamenti in una corsa senza fine» e, dall’altro, che il debito pubblico per le esigenze belliche ha finito con il far fare le guerre, oltre che con il determinare la bancarotta degli Stati debitori (Per la pace perpetua 1.3-4). Ma vi è di più e Kant sembra davvero un profeta quando sostiene l’assoluta necessità di introdurre il divieto della «guerra di sterminio», quella che, per effetto degli armamenti a disposizione, può comportare l’annientamento totale delle parti in conflitto: una tale guerra, spiega con enfasi Kant, «darebbe luogo alla pace perpetua unicamente al grande cimitero del genere umano».
Nel progetto kantiano si manifesta, con lungimiranza, l’esigenza inderogabile che «la costituzione civile di ogni Stato dev’essere repubblicana» (così il primo articolo definitivo per la pace perpetua). È questa la forma di organizzazione del potere che, meglio di ogni altra, garantisce la separazione del legislativo dall’esecutivo, secondo il modello dello Stato di diritto; dove, invece, vi sia confusione, ammonisce Kant a commento del primo articolo, si annida il dispotismo ed è più facile dichiarare guerra, com’è in effetti accaduto nelle monarchie assolute ove il sovrano, a differenza dei suoi sudditi, non rischiava la vita, mentre se a decidere fossero i cittadini «essi rifletteranno a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco».
Gli Stati poi (questo è il secondo articolo definitivo per la pace perpetua) dovranno organizzarsi su base federale: il che implica la creazione di un’organizzazione sovranazionale («una lega permanente e sempre più estesa») che avrà la funzione di prevenire le guerre, anche se Kant non ci dice in quali modi un obiettivo così ambizioso potrà essere concretamente conseguito.
La pace perpetua, scrive Kant nella pagina finale del saggio, può apparire come un’astrazione («una vuota idea»), ma essa è, in realtà, la missione doverosa, quasi il destino, dell’Occidente che potrà realizzarla e, anzi, la realizzerà per gradi. Se pensiamo che, almeno in Europa, stiamo vivendo il più lungo periodo di pace di ogni tempo e che, in ventisette paesi, almeno cinquecento milioni di persone vivono in democrazia, possiamo riconoscere che le speranze kantiane erano ben riposte, forse perché, più che profezie, erano previsioni fondate su un calcolo razionale. E se consideriamo che quelle previsioni provenivano da una mente eccelsa, ma perfettamente teorica, verrebbe da concludere che è alquanto pericoloso affidare i nostri destini, come di fatto accade, ai politici pur pratici del mondo.

2. Il declino del «nomos» terragno e la tentazione del nichilismo

Un giurista che, nel Novecento, si pone come recettore e interprete del nuovo è Carl Schmitt. Egli si accosta a percepire i segni del suo tempo con la consapevolezza di chi sente di avere afferrato il senso della storia passata (il cui modulo fondamentale sta nella conquista progressiva dei grandi spazi terrestri) e, però, avverte quale sconvolgimento abbia determinato, e determinerà, l’irrompere, negli scenari creati dai due conflitti mondiali, della diade fuoco-aria che affianca, e tende a soggiogare, gli spazi e le misure del dominio i cui confini siano segnati dagli antichi elementi della terra e dell’acqua (il mare). Nuovi spazi si aprono alla conquista umana: spazi infiniti, quelli del volo aereonautico e spaziale, per il cui ordine occorrerà scoprire, inventare categorie, conoscitive e normative, completamente diverse da quelle presenti nel vecchio nomos da sempre applicato all’orbe terracqueo: nomos terragno che si esprime essenzialmente nella proprietà e nella sua difesa, un nomos che garantisce usi, valori, mentalità degli uomini del territorio. Uomini naturalmente diversi da territorio a territorio e perciò impegnati alla difesa dei confini, sospettosi nei confronti di chi viene da fuori, propensi più a escludere che a includere.
Concezioni, queste, che noi, oggi, non accettiamo più anche perché non le possiamo più accettare; ma è con presupposti del genere che si è costruito ed è progredito l’ethos dell’Occidente, dal quale la costruzione del nuovo non potrà veramente prescindere. Inopinatamente la visione schmittiana, che è pregna di nostalgia, apre alla speranza:
molti vedono solo un disordine privo di senso laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento. Non v’è dubbio che il vecchio nomos stia venendo meno, e con esso un sistema di misure, di norme e di rapporti tramandati. Non per questo, tuttavia, ciò che è venturo è solo assenza di misura, ovvero un nulla ostile al nomos. Anche nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate (Schmitt, p. 110).
Una speranza sui contenuti del nomos che verrà; sulla capacità di questo – e dei suoi facitori – di conformarsi adeguatamente alla nuova realtà complessa e, nel contempo, di conformarla evitando gli eccessi che il trionfo della scienza e della tecnica inevitabilmente comporta, come ben sappiamo, attraverso la pretesa del progresso di imporre alla sapienza giuridica entità di nuova creazione, di creazione non naturale a cominciare da quelle ottenibili a mezzo delle manipolazioni del genoma umano.
La fine del Novecento ci ha, però, portato l’annuncio della fine del diritto come preconizzata dai teorici del cosiddetto nichilismo giuridico. Venuta meno la fede in Dio come nella natura o nella ragione, trionfante la tecnica anonima e funzionale alla sola produzione, il diritto avrebbe non solo smarrito, ma anche definitivamente perso la sua caratteristica attitudine di progredire verso una meta fondamentalmente identificantesi con la giustizia o con la sempre maggior giustizia (in terris). Il diritto, lo ius, sarebbe stato così consegnato, divenuto quasi servo, delle procedure o, se si preferisce, del tecnicismo procedurale: si osserva così che basta l’osservanza puntuale della scansione degli atti procedurali a ottenere la creazione – e, dunque, il venire a esistenza – della regola giuridica valida e imperativa a prescindere, cioè nella totale indifferenza, (dalla meritevolezza) dei suoi contenuti.
L’età moderna ha esteso al diritto la parola più audace e crudele: «produrre». Le norme giuridiche, al pari di qualsiasi bene di mercato, sono «prodotte»: vengono dal nulla e possono essere ricacciate nel nulla. La forza che le «produce», ossia le chiama innanzi o le rifiuta, le costruisce o le distrugge, è soltanto il volere degli uomini. Le officine giuridiche lavorano in tutte le ore del giorno ed in tutti i luoghi della vecchia Europa: nessuna norma ha privilegio d’immutabilità e d’inviolabilità (Irti, p. 7).
Queste le parole fascinose di un giurista-nichilista che, forse, vuole (anche) stupire e (forse) cripticamente ammonire e scongiurare il pericolo dell’obliterazione di una tradizione sapienziale che affidava la costruzione dello ius non alla casualità o all’estemporaneità di una potente volontà normativa, bensì alla competenza mediatrice dei sacerdotes iuris, dei giuristi di professione, ispirati dai principi dell’etica pubblica e, su tutto, dalla razionalità che non consente contraddizioni, propensi più al rigore che al compromesso. Ma è proprio vero che, come si afferma, «nessun contenuto è vincolante; nessuno è escluso»? (Irti 2006, p. 169). Perché si ha l’impressione che i certificatori della realtà del nichilismo giuridico non ammettano che un’alternativa (al nulla), quella della teocrazia normativa. Per sfuggire al nulla delle (molte o infinite) volontà normative che, senza scopo o senso ultimo, si agitano e confliggono e, alla fine, o soccombono o riescono a imporsi brutalmente o, anche, democraticamente, vi sarebbe una e una sola via: credere e consegnarsi a Dio legislatore e ai suoi rappresentanti in terra, Mosè, un divino imperatore, il papa, un muftì. Ma in Occidente il modello del diritto religioso è stato prima offuscato, poi battuto o relegato ad ambiti particolari (com’è avvenuto per il diritto canonico); e la lotta per la laicizzazione del diritto ha principiato fin dai tempi del diritto romano giurisprudenziale (I secolo a.C.), salvo temporanee ricadute o contaminazioni dovute soprattutto all’alleanza tra trono e altare che consentì, in più occasioni, l’irrompere di norme di matrice religiosa nel contesto della legislazione secolare (si pensi all’evoluzione del matrimonio nel diritto romano che, da rapporto fattuale estinguibile in qualunque momento, assunse, nel diritto romano-cristiano, la forma del sacramento indissolubile).

3. Il progredire del diritto occidentale

Il diritto romano e poi, sulla sua base, il diritto medievale e moderno costituiscono un’opera integralmente umana; e la loro umanità – o non naturalità o artificialità – sta nel loro essere norme rappresentative di decisioni (esclusivamente) di uomini che le vogliono, le formalizzano linguisticamente in precetti, le coordinano tra loro, il tutto allo scopo di renderle accettabili e concretamente osservabili, cioè idonee a essere rispettate.
Ora, ci si domanda, penso a ragione: tutto questo volere e tutto questo costruire sono avvenuti senza la ricerca di un senso di quanto realizzato? Di un senso, intendo, che andasse oltre la contingenza, che non si sciogliesse nella provvisorietà, nella casualità appunto, delle vicende storiche correnti avanti agli occhi dei facitori delle norme? O, almeno, è a questa assoluta caducità che si è ridotta l’officina normativa del tempo nostro? Ma allora la stessa verità varrebbe anche per un’arte quale la medicina e qui noi, credo, non esiteremmo invece a rispondere che il sapere (medico) sia progredito da Ippocrate a oggi. Salvo revocare in dubbio la nostra stessa esistenza o sostenere che le nostre conoscenze siano puri éidola, le conquiste della medicina costituiscono un fatto constatabile da chiunque, sol che si consideri la drastica riduzione della mortalità infantile o lo stupefacente allungarsi della vita media. Certo, si potrebbe anche cercare di attenuare o, addirittura, di negare l’evidenza del progresso argomentando, per esempio, da una nozione di salute più complessa di quella comune che ancora la rappresenta come (semplice) ‘assenza di malattia’. Ed è questa una strada che, in effetti, è pur stata battuta; e qualcuno potrebbe concludere, giunto alla meta di itinerari del genere, che «cose e fatti hanno perduto, nel pensiero moderno, qualsiasi cogenza oggettiva, essi risolvendosi nella molteplicità di punti di vista, angoli d’osservazione, orizzonti ermeneutici» (Irti 2006, pp. 172 sgg.). Ma fatti come la diminuzione della mortalità infantile o l’aumento della vita media corrispondono a numeri ben precisi ed è vero che pure i numeri sono suscettibili di interpretazione; tuttavia contrastare il significato di queste cifre in comparazione tra loro è (logicamente) impossibile se si parte dalla premessa che più bambini vivi e meno anziani morti costituiscano un bene da perseguire. Ovviamente si può contestare la premessa, ma si deve essere consapevoli che, procedendo in tale direzione, si cozza contro il buon senso, oltre che contro l’opinione quasi unanime; ed è obiettivamente molto difficile persuadere che, per l’umanità, non sia un bene far vivere la gente più a lungo.
Un ragionamento così impostato non può non valere per il sapere giuridico. Lo ius nasce, e resta fondamentalmente, civile, funzionale all’ottenimento della miglior convivenza, al bene vivere, degli uomini conviventi in una società (così) organizzata. Per questo – come confermerebbe la sua etimologia, almeno secondo la significativa testimonianza del Digesto giustinianeo (1.1.1) – esso persegue sempre lo stesso scopo, la iustitia, il che non è contraddetto dalla circostanza che ogni epoca abbia la sua idea di giustizia e che, anzi, spesso accada che, in una stessa società, coesistano più idee di giustizia tra loro in conflitto.
Ora, il giurista-nichilista pensa che nessuna esperienza del passato abbia titolo di superiorità rispetto all’odierna, anzi nega che esistano in assoluto esperienze o modelli superiori agli altri: l’uomo contemporaneo può ad libitum adeguarsi a un modello tra i tanti delle epoche precedenti come può respingerli tutti e crearsi quello che più gli piaccia. Ma davvero noi oggi non disponiamo di norme e principi che riconosciamo come non modificabili per ragioni tecniche o etiche? Davvero il passato, i gravi errori in esso commessi da uomini in danno di uomini, quelle che abbiamo imparato a conoscere come le grandi ingiustizie o i crimini più intollerabili della storia, davvero queste esperienze di dolore, di umiliazioni, di annientamento non hanno nulla, dico nulla da insegnarci? Il sofisma nichilistico ripete come una nenia mista a uno strano compiacimento che nella storia tutto è «mutevole e caduco» e che l’esperienza di ieri è indifferentemente «accettabile o ricusabile dalle volontà operose in quest’oggi» (Irti 2006, p. 174). Ma è un’opinione condannata al solipsismo e che è, anzi, doveroso mantenere nella sua marginalità estrema. Nelle esperienze giuridiche che il passato ci ha trasmesso vi è, infatti, più di una luce a cui dobbiamo continuare a guardare per non smarrirci correndo il rischio di naufragare.
Vi sono, tecnicamente, alcuni modelli che non si possono rifiutare se s...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Introduzione
  3. I. L’occupazione di terra
  4. II. La convenzione
  5. III. L’umanità
  6. IV. Un paradigma per il futuro
  7. Abbreviazioni