L'etica in un mondo di consumatori
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L'etica in un mondo di consumatori

  1. 244 pagine
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L'etica in un mondo di consumatori

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Il libro che avete tra le mani è un rapporto da un campo di battaglia, il teatro in cui si svolge la nostra lotta per trovare modi nuovi e adeguati di pensare del, al e per il mondo in cui viviamo. La vita sembra muoversi troppo in fretta perché la maggior parte di noi riesca a seguirne le svolte e giravolte: prevederle, poi, non è neanche in discussione. Pianificare una linea d'azione e attenersi al piano stabilito è un'impresa gravida di rischi, mentre una pianificazione a lungo termine sembra, sic et simpliciter, pericolosa.

Questo libro è un tentativo di cogliere la forma di un mondo in movimento, un mondo che, furiosamente, continua a cambiare più velocemente di quanto noi riusciamo ad adattare ad esso i modi in cui lo pensiamo e lo descriviamo.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858133064

1.
Siamo una somma di diaspore

1. Le vespe di Panama

Solo per chiarire che cosa implicherebbe la proposta di dare una nuova forma alla nostra struttura cognitiva, e quali ostacoli si troverebbe verosimilmente a dover fronteggiare lungo la strada, analizziamo l’avventura intellettuale di un gruppo di ricercatori della Zoological Society di Londra, recatisi a Panama per studiare la vita sociale delle vespe locali. Il gruppo era dotato di tecnologie all’avanguardia, utilizzate nell’arco di 6000 ore per seguire e monitorare gli spostamenti di 422 vespe di 33 colonie differenti1. Le scoperte effettuate da questi ricercatori hanno rovesciato stereotipi vecchi di secoli sulle abitudini degli insetti sociali.
Fin dal momento in cui il concetto di «insetti sociali» (che comprende api, termiti, formiche e vespe) è stato coniato ed è entrato nell’uso, sia gli zoologi più esperti sia il pubblico profano hanno nutrito una convinzione, in pratica mai messa in discussione, e cioè che la «socievolezza» di questi insetti fosse limitata alla colonia di appartenenza, nella quale sono stati covati e dove portano il bottino delle loro abituali scorribande alimentari per condividerlo con il resto degli abitanti dell’alveare. La possibilità che qualche ape o vespa operaia varcasse i confini che dividono una colonia dall’altra, abbandonasse l’alveare di nascita e si unisse a un altro, l’alveare di elezione, era considerata (in quei rari casi in cui veniva contemplata) un’idea incongrua. Si dava per scontato che i «nativi», i membri autoctoni e pertanto «legittimi» dell’alveare, avrebbero prontamente scacciato i nuovi arrivati, i cani sciolti, facendoli fuori se si fossero ostinati a rimanere.
Come tutti gli assiomi, anche questo presupposto non è mai stato messo in forse. Certo, non sarebbe stato possibile da un punto di vista tecnico: le attrezzature elettroniche utilizzate per tracciare gli spostamenti delle singole vespe sono state inventate solo in tempi piuttosto recenti. Ma la ragione principale è che non era ancora venuta in mente a nessuno, né all’uomo della strada né agli specialisti, l’idea che fosse necessario tenere traccia del traffico tra un nido e l’altro o tra un alveare e l’altro. Per gli studiosi, l’assioma che gli istinti di socializzazione fossero limitati ad «amici e parenti», in altre parole «alla comunità di nascita e pertanto di appartenenza», era logico. Per la gente comune, era sensato. Grandi fondi e grandi energie sono stati invece profusi dagli enti di ricerca per cercare di capire come facessero gli insetti sociali a individuare un estraneo in mezzo a loro: lo riconoscevano tramite la vista? Tramite l’udito? Tramite l’odorato? Tramite lievi sfumature nel comportamento? L’interrogativo che intrigava i ricercatori era come riescano gli insetti a gestire con successo un compito che noi esseri umani, con tutte le nostre sofisticate armi e strumentazioni, riusciamo a svolgere solo parzialmente: come cioè riescano a conservare ermeticamente chiusi i confini della «comunità» e a mantenere la separazione tra «nativi» e «stranieri», tra «noi» e «loro».
Quello che passa per «logica» (nel suo ruolo di autorità suprema quando si tratta di emettere giudizi e riconoscerli come incontestabili), al pari di quello che è considerato essere «buon senso» (nel suo ruolo di doxa o paradigma)2, tende sempre a cambiare nel corso del tempo. Cambia insieme alla condizione umana e alle sfide che essa propone.
Tutte le nostre concezioni della logica e del buon senso, o le più diffuse tra esse, sono tendenzialmente prassomorfiche. Sono determinate dalla risposta alle realtà «esterne» viste attraverso la lente delle prassi umane: quello che gli esseri umani comunemente fanno, sono addestrati, indotti e inclini a fare. I programmi di ricerca prendono le mosse dalle pratiche umane più prosaiche, laddove è l’agenda socioculturale, dettata dai problemi della quotidiana coabitazione fra esseri umani, a stabilire la «rilevanza corrente» delle questioni e a suggerire le ipotesi, che i progetti di ricerca si sforzano successivamente di confermare o confutare.
Siamo quindi autorizzati a supporre che se nessuno sforzo è stato profuso per verificare la veridicità del buon senso ricevuto, non è stato per mancanza di strumenti di ricerca, ma perché non si sospettava che un simile test fosse necessario, che fosse in discussione la credibilità di quel buon senso. Di conseguenza, possiamo supporre anche che, se per quasi tutta la durata della storia moderna niente, nel senso comune (nessuna convinzione plasmata e consolidata quotidianamente dall’esperienza comune), aveva mai dato motivo di dubitare della «naturalezza» e universalità delle limitazioni «innate» alla socievolezza, l’incursione scientifica del gruppo di ricercatori della Zoological Society suggerisce che forse non è più così.
Contrariamente a tutto quello che si sapeva (o si riteneva di sapere) da secoli, i ricercatori londinesi hanno scoperto a Panama che una larga maggioranza di «vespe operaie», il 56 per cento, cambia alveare nel corso della propria vita: e non semplicemente traslocando in altre colonie in qualità di visitatori temporanei, male accetti, discriminati e marginalizzati, sempre guardati con sospetto e ostilità, bensì in qualità di membri effettivi e di diritto (si sarebbe tentati di dire «a pieno titolo») della comunità adottiva, che provvedono, al pari delle operaie autoctone, a raccogliere cibo e a nutrire ed accudire la nidiata locale. La conclusione inevitabile è stata che le colonie oggetto della ricerca sono normalmente «popolazioni miste», con vespe native e vespe immigrate che vivono e lavorano guancia a guancia e spalla a spalla, divenendo, almeno per gli osservatori umani, indistinguibili le une dalle altre se non con l’ausilio degli identificatori elettronici.
Quello che le notizie in arrivo da Panama mettono in evidenza è innanzitutto uno sbalorditivo rovesciamento di prospettiva: convinzioni che fino a non molto tempo fa erano immaginate come un riflesso dello «stato di natura» si sono rivelate ora, guardandole in retrospettiva, nient’altro che una proiezione sulle consuetudini degli insetti delle prassi ­umane, fin troppo umane (anche se di genere ormai meno frequente e che diventa sempre più remoto), degli studiosi. È bastato che i ricercatori di una generazione un po’ più giovane di quella precedente portassero nella foresta panamense la loro (e nostra) esperienza di vita acquisita e assorbita nella loro nuova patria multiculturale di diaspore concatenate per «scoprire», doverosamente, che la fluidità delle appartenenze e il costante mescolarsi delle popolazioni sono la norma anche tra gli insetti sociali: e una norma apparentemente attuata in modo «naturale», senza bisogno di ricorrere a commissioni governative, disegni di legge frettolosamente introdotti, corti supreme e centri di permanenza temporanea per richiedenti asilo. In questo caso, come in moltissimi altri, la natura prassomorfica della percezione umana del mondo li ha spinti a scoprire, là fuori nel mondo, quello che abbiamo imparato a fare e facciamo qui a casa, e quello che nella nostra testa o nel nostro subconscio rappresenta l’immagine di come sono veramente le cose. Di fronte ai dati inaspettati forniti dagli insetti sociali è scattato qualcosa: le premonizioni intuitive, semiconsapevoli o inconsapevoli, sono state articolate (o forse si sono articolate da sole); e le intuizioni, di conseguenza, sono state riciclate in una sintesi alternativa di quella diversa realtà che corrisponde alla nuova realtà personale dei ricercatori. Ma il fatto che questo riciclaggio sia avvenuto comporta l’esistenza precedente di scorte di «materia prima», pronta per essere riciclata.
«Come può essere?!», si sono chiesti i londinesi in viaggio di ricerca a Panama, che all’inizio quasi non volevano credere alle loro scoperte, tanto distanti da quello che i professori avevano insegnato loro ad aspettarsi. Febbrilmente, si sono messi a cercare una spiegazione convincente al bizzarro comportamento delle vespe panamensi, e l’hanno trovata, come si poteva immaginare, nel ripostiglio degli attrezzi, familiari e ben sperimentati, utilizzati per riciclare i dati incongrui nell’immagine di un mondo ordinato. Gli scienziati hanno dichiarato che i nuovi arrivati a cui era stato permesso di stabilirsi nell’alveare «non erano realmente stranieri»: estranei senza dubbio, ma non estranei come gli altri, gli autentici estranei. Magari sono entrati a far parte di colonie di vespe strettamente imparentate con loro, forse cugine. Una spiegazione che poteva suonare inattaccabile alle orecchie dei ricercatori umani: sembrava incontrovertibile proprio perché pleonastica. Il diritto dei «parenti stretti» di recarsi in visita e trasferirsi nella casa di famiglia è un diritto innato, da tempo immemorabile; come tutti sappiamo, è proprio questo che distingue i parenti stretti da tutti gli altri visitatori. Ma come facciamo a sapere che quelle vespe straniere sono parenti strette delle vespe autoctone? Beh, dev’essere così per forza, no? Altrimenti i legittimi abitanti dell’alveare le avrebbero costrette ad andarsene o le avrebbero ammazzate seduta stante: come volevasi dimostrare. Il ragionamento circolare è infallibile, anche se non propriamente logico, ed è per questo che tantissimi tra noi spesso vi fanno ricorso: non tanto per risolvere problemi frustranti, quanto per poter essere dispensati dal preoccuparsene.
Quello che i ricercatori londinesi hanno chiaramente dimenticato, o hanno omesso di menzionare per convenienza, è che ci è voluto un secolo o più di duro lavoro, a volte ricorrendo alla forza militare e altre volte al lavaggio del cervello, per convincere i prussiani, i bavaresi, i renani, i turingi o i sassoni (come per convincere oggi gli Ossis e i Wessis, fino a non troppo tempo fa tedeschi dell’Est e dell’Ovest) che sono tutti parenti stretti, cugini o addirittura fratelli, discendenti dello stesso antico ceppo germanico, animati dallo stesso spirito germanico, e che per questa ragione dovrebbero comportarsi come si comportano i parenti stretti: essere ospitali gli uni con gli altri e collaborare a proteggere e incrementare il benessere comune. O che, sulla strada verso il moderno Stato-nazione centralizzato e verso l’identificazione tra appartenenza nazionale e cittadinanza, la Francia rivoluzionaria dovette includere la fraternità nel suo appello rivolto ad «autoctoni» d’ogni sorta, ora eletti a citoyens, gente che fino ad allora raramente aveva gettato uno sguardo (viaggiato oltre, neanche a parlarne) al di là delle frontiere della Linguadoca, del Poitou, del Limosino, della Borgogna, della Bretagna o della Franca Contea; fraternité, fratellanza: tutti i francesi sono fratelli, quindi, per cortesia, comportatevi come si comportano i fratelli, amatevi l’un l’altro, aiutatevi l’un l’altro, fate della Francia tutta la vostra casa comune e della terra di Francia la vostra unica patria. O che, dalla Rivoluzione francese in poi, tutti i movimenti propensi a convertire, reclutare, espandere e integrare popolazioni di regni e ducati fino ad allora separati e reciprocamente diffidenti hanno avuto l’abitudine di rivolgersi ai loro convertiti presenti e futuri chiamandoli «fratelli e sorelle». O che, come potrà dirvi qualsiasi antropologo, in tutte le culture conosciute, normalmente, ogni casella della mappa mentale dei rapporti di parentela è collegata a un elenco di diritti, doveri e regole di mutualità, anche se questi elenchi variano sensibilmente fra una cultura e l’altra e questa variazione è una delle principali ragioni per considerarle culture differenti.
Per sintetizzare: la differenza tra le «mappe cognitive» che gli entomologi di vecchia generazione si portavano dietro nella loro testa e quelle acquisite o adottate dalle generazioni più giovani riflette il passaggio, nella storia degli Stati moderni, dalla fase del nation-building alla fase multiculturale; più in generale, dalla modernità «solida», dedita a trincerare e fortificare il principio della sovranità territoriale, esclusiva e indi­visibile, e a circoscrivere i territori sovrani con frontiere im­permeabili, alla modernità «liquida», con le sue linee di confine sfocate e altamente permeabili, l’inarrestabile (anche se lamen­tata, malvista, combattuta) svalorizzazione delle distanze spaziali e della capacità difensiva dei territori e l’intenso flusso di traffico umano attraverso qualsiasi tipo di frontiera.
Il traffico umano scorre in entrambe le direzioni; le frontiere vengono attraversate in un senso e nell’altro. La Gran Bretagna, per esempio, oggi è un paese di immigrazione (anche se i vari ministri dell’Interno hanno sempre avuto a cuore di mostrare il massimo impegno nell’erigere nuove dighe e arginare il flusso degli ingressi); ma, secondo gli ultimi calcoli, attualmente ci sono quasi un milione e mezzo di individui nati in Gran Bretagna che vivono in Australia, quasi un milione in Spagna, varie centinaia di migliaia in Nigeria, e ce n’è una dozzina perfino in Corea del Nord. Lo stesso discorso vale per la Francia, la Germania, la Polonia, l’Irlanda, l’Italia e la Spagna; dove più dove meno, il concetto è applicabile a qualsiasi territorio defrontierizzato del pianeta, con l’eccezione di una manciata residua di enclaves totalitarie che ancora ricorrono ad anacronistiche tecniche in stile Panopticon, pensate più per trattenere i detenuti (i sudditi dello Stato) dentro le mura (i confini dello Stato) che per tenere gli stranieri fuori.
In ogni paese, ormai, la popolazione è una somma di diaspore. Ogni città di una certa dimensione è oggi un aggregato di differenze etniche, religiose e di stile di vita, dove la linea fra insider e outsider è tutt’altro che palese, mentre il diritto a tracciare questa linea, a mantenerla intatta e a renderla inattaccabile rappresenta la principale posta in palio delle scaramucce e delle battaglie per il riconoscimento che ne derivano. La maggior parte degli Stati ormai ha oltrepassato la fase del nation-building e di conseguenza non ha più interesse ad assimilare gli stranieri in arrivo (vale a dire costringerli a scrollarsi di dosso e privarsi delle proprie identità distinte, dissolvendosi nella massa uniforme dei nativi); il che significa che gli scenari della vita contemporanea, e il filo che costituisce la trama del vissuto, rimarranno probabilmente proteiformi, variegati e caleidoscopici per molto tempo a venire. Per quello che conta e per quello che ne sappiamo, potrebbero continuare a trasformarsi costantemente.
Ormai siamo tutti, o lo stiamo diventando rapidamente, come le vespe di Panama. O, più esattamente, il caso ha voluto che il destino delle vespe di Panama fosse quello di entrare nella storia come la prima entità sociale a cui sia stata applicata la cornice cognitiva precoce ed emergente (e ancora in attesa di essere riconosciuta e approvata) derivata dalla nostra nuova esperienza di coabitazione umana sempre più, e probabilmente definitivamente, variegata, la vaghezza della linea di separazione tra interno ed esterno, la pratica quotidiana di mescolarsi e stare gomito a gomito con la differenza. Immanuel Kant predisse più di due secoli fa che progettare, elaborare e tradurre in pratica regole di reciproca ospitalità sarebbe diventato a un certo punto, considerando che abitiamo la superficie di un pianeta sferico, una necessità per la specie umana, e quella previsione ora si è realizzata; o, meglio, la necessità è diventata la sfida più rilevante del nostro tempo, una sfida che esige la risposta più urgente e meditata possibile.
Non c’è luogo sul pianeta che possa sottrarsi a questa sfida. Se ce n’è qualcuno che apparentemente rappresenta un’eccezione alla regol...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. 1. Siamo una somma di diaspore
  3. 2. Perché dovrei essere morale?
  4. 3. La felicità vera
  5. 4. La fretta della vita
  6. 5. Cultura e bellezza
  7. 6. L’etica è ospitalità