Ahi, Sudamerica!
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Ahi, Sudamerica!

Oriundi, tango e fútbol

  1. 264 pagine
  2. Italian
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Ahi, Sudamerica!

Oriundi, tango e fútbol

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Nell'aria si sente un forte odore di fainà. Per le strade si vende "O Balilla", un giornale in dialetto, e i carbunin usano pantaloni bleu di Genova. Eppure non siamo sotto la Lanterna, ma dall'altra parte del mondo, a Buenos Aires. Qui sono gli italiani appena immigrati a far innamorare tutti del gioco più bello del mondo, il fútbol. Questo libro ne racconta le storie, esilaranti, malinconiche e struggenti, a cavallo tra le due sponde dell'oceano, con in mente i personaggi strampalati di Osvaldo Soriano e come colonna sonora le note intense di Astor Piazzolla.

All'inizio del Novecento, Genova e Buenos Aires erano quasi un'unica città separata da un oceano di mare. Gli italiani superavano per numero gli immigrati degli altri paesi e i nativi messi assieme. È il tempo in cui «un argentino è un italiano che parla spagnolo ma pensa di essere inglese» e nella Parigi del Sudamerica tutti impazziscono per un nuovo sport: il football. Nascono allora squadre mitiche, dagli xeneizes del Boca Juniors ai millonarios del River Plate. Ma la febbre del calcio si trasmette a tutto il continente e gli italiani sono sempre i portatori sani di questa epidemia, da San Paolo del Brasile a Caracas, Asunción e Montevideo. Scopriremo così le imprese e le avventure improbabili di calciatori geniali e destinati a segnare la storia: dal trio delle meraviglie del Torino fino al grandioso Guillermo António Stábile, El Filtrador. Così, tra i tangueros della Juventus, il Bologna uruguagio voluto da Mussolini e i romanisti in fuga dal regime fascista, ci sorprenderemo e commuoveremo di fronte alle vicende di quelli che Borges chiamava i «figli dell'Europa rovesciata e depositata dall'altra parte dell'Atlantico». Storie malinconiche e surreali in cui pure Lionel Messi, La Pulga, ha qualcosa in comune con Giacomo Leopardi.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858146415

I genovesi che inventarono il Boca

Nell’aria si annusava un forte odore di fainà, diffuso dalle spire del vento e trasportato dai cirri di fumo. Il dondolio delle navi formava un rumore costante di sbattere di alberi, drizze, scotte e moschettoni. Gli ambulanti di frutta e verdura gridavano i prezzi di giornata. Su una parrilla improvvisata un operaio stava preparando un asado per un gruppo di edili con la faccia intrisa di calce. Uno strillone vendeva giornali in lingua italiana. I carbunin dal volto segnato da strisce nere si pulivano le mani sui loro pantaloni stinti di color indaco, che un giorno avrebbero assunto il nome di blue jeans, da bleu de Gênes.
I ragazzi attendevano che transitasse il tranvai e quindi riprendevano a giocare a calcio, una sfera di cuoio sgonfia e con i lacci molli. Appena la palla si allontanava dall’improvvisato terreno di gioco, segnato da pietre rubate ai cantieri, quei giovanotti correvano dietro bande rivali che fuggivano con l’agognata preda. Ci volevano ore e lunghe trattative, talvolta, per tornarne in possesso magari in cambio di una fionda o un sigaro.
La sera, quando anche i traghettatori del Riachuelo smettevano di fare la spola tra le due rive di quell’infimo fiumiciattolo, scolo di tutti i rifiuti della Boca, i ragazzi tornavano nelle loro case basse, a un piano, prive di luce e servizi igienici, con un rivolo davanti alla porta dove scorrevano le fogne. Ogni tanto, nelle domeniche di festa, dopo messa, ringraziata la Madonna della Guardia, in qualche slargo polveroso di questo suburbio urbano diversi gruppi organizzati praticavano quello strano gioco introdotto da marinai inglesi locos. Quelle prime formazioni di monelli di strada si chiamavano Defensores de la Boca, Santa Rosa, La Rosales, dal nome di una corvetta naufragata. Il River Plate nacque il 25 maggio 1901, nello stesso quartiere della Boca, dalla fusione del Santa Rosa e della Rosales. Confuse nuvole di polvere assemblavano i contendenti che sbucavano fuori inseguendo l’unico giocatore che era riuscito col piede a tirar via la palla. I ragazzini della Boca non apprezzavano molto la disorganizzazione di quelle prime partite che si tenevano nel quartiere.
Un giorno si riunirono per decidere che anche loro avrebbero avuto una squadra, una maglia, un campo, dei supporter. Erano Esteban Baglietto, Alfredo Scarpatti, Santiago Pedro Sana e i fratelli Juan e Teodoro Farenga ai quali si aggiunse subito dopo Tomás Movio e quindi Amadeo Nemesio Agustín Gelsi, nominato vicepresidente. Il più anziano, si fa per dire, era Juan Farenga, ventunenne. I loro genitori non erano neppure quarantenni, a parte il padre di Alfredo Scarpatti che di anni ne aveva 44. Tutti i padri erano nati in Italia, quattro in Liguria, uno in Basilicata. Emilia Guarello, mamma di Scarpatti, era originaria di Sorrento. Il padre di Gelsi era fiorentino, la madre Teresa Navarino era nata a Buenos Aires.
Inizialmente come punto d’incontro fu scelta la casa dei Baglietto, nativi di Varazze, al numero 1232 di Ministro Brin. La strada era stata intitolata a Benedetto Brin (1833-1898), al momento della sua scomparsa, per rammentare una figura fondamentale per la Marina Militare italiana, ministro, ingegnere navale, ideatore dell’Arsenale militare della Spezia, progettista di 141 imbarcazioni, che aveva facilitato l’acquisto da parte dell’Argentina, impegnata nel conflitto col Cile, delle navi da guerra San Martín, Belgrano e Garibaldi. Ma siccome in quelle strambe riunioni le urla e gli spintoni prevalevano sui discorsi, il signor Giovanni Baglietto e sua moglie Catalina Vernazza cacciarono fuori i ragazzi da quelle modeste quattro mura. Allora la prima sede della nuova società sportiva divenne una panchina di plaza Solís dove il club del Boca fu fondato ufficialmente il 3 aprile 1905. Tutti decisero che l’appellativo sarebbe stato xeneizes per il semplice fatto che quello della Boca era un barrio quasi esclusivamente ligure. Accettarono a malincuore anche i fratelli Farenga, originari di Muro Lucano, anche se la madre, Livia Vallega, era nata nel 1861 a Finalmarina, in provincia di Savona, allora genovese. Il loro nonno, Francisco Pablo Farenga, che era emigrato nel 1860 a Buenos Aires a 22 anni, da buon falegname costruì le prime porte di legno del campo di calcio in cui si sarebbero allenati nei fine settimana, le quattro bandierine del calcio d’angolo e le tavole per la tribunetta. Per dare un tocco inglese Santiago Sana propose di aggiungere la parola Juniors, incoraggiati dal professore di ginnastica Paddy McCarthy, nato a Cashel in Irlanda nel 1871 ed emigrato nel 1900 in Argentina, che era il suo insegnante, oltre che di Baglietto e di Scarpatti, alla Escuela Superior de Comercio in calle Bartolomé Mitre 1364. Altri consigliarono la denominazione Club Atlético, tanto per sentirsi importanti. Non lo sapevano, ma quegli adolescenti stavano dando vita al club più titolato nella storia del pallone, il Boca Juniors.
Il primo vero presidente della panchina di plaza Solís fu Esteban Baglietto, ma quando si fece sul serio lo scettro passò a Luis Cerezo poiché il ragazzo ligure era minorenne. La prima casacca fu rosa, usata per una partita rionale; quindi, la sorella dei Farenga riuscì a rammendare su una maglia bianca delle sottili strisce di tela nera che spesso si sfilacciavano, tirate via dalle unghie degli avversari. Allora si optò per una semplice maglietta celeste. Per alcune partite si tornò alla maglia bianca, questa volta con righe blu. Il club giocò la sua prima gara il 21 aprile del 1905, contro il Club Mariano Moreno, vincendo 4-0 con questa formazione: Esteban Baglietto, José María Farenga, Santiago Sana, Vicente Oñate, Guillermo Tyler, Luis De Harenne, Alfredo Scarpatti, Pedro Moltedo, Amadeo Gelsi, Alberto Tallent e Juan Antonio Farenga. Proprio Juan Farenga, il capitano, fece una doppietta; le altre reti le segnarono José Farenga e Santiago Sana. Baglietto era portiere, fondatore e presidente. Da quell’anno i giovani del Boca si iscrissero alla Liga de Villa Lobos, l’anno dopo alla Liga Central, vincendo alla fine il titolo. Nel 1907 entrarono nella Liga Albión e parteciparono anche al torneo organizzato dall’Associazione Porteña, in cui giocò l’Universal di Montevideo. Contro gli uruguayani, l’8 dicembre del 1907, perdendo 0-1, i xeneizes giocarono quella che viene considerata la prima partita internazionale del club.
Un giorno del 1907, dovendo scontrarsi con l’Almagro, che sfoggiava una divisa degli stessi colori, i ragazzi del Boca si misero in giro nel barrio genovese a cercare una casacca giusta. Anche in questo caso i giocatori, col loro carattere burbero e ostico da liguri di mare, non giunsero a una scelta condivisa. Allora Juan Rafael Brichetto, addetto al ponte sul Riachuelo, incaricato di far entrare i vapori in darsena – e che l’anno prima era stato presidente e lo sarà di nuovo nel periodo 1910-13 –, decise che avrebbero giocato con i colori della prima bandiera di nave che avrebbe attraccato al porto. Si misero con la punta del naso a guardare la fumosa aria calda del rio sperando che giungesse un tricolore ma, invece, non si presentò alcuna nave. Il giorno seguente Brichetto, dall’alto del ponte del Riachuelo, segnalò agli amici che stava arrivando un cargo sbuffante e ansimante, contento di giungere a destinazione dopo la lunga traversata atlantica: era la “Drottning Sophia”, la Regina Sophia. I ragazzi che stavano sulle rive di questo fiume lercio videro comparire il barco svedese con il vessillo azzurro e la croce gialla. Andarono in campo con quei colori. La banda gialla era una riga diagonale che scendeva da sinistra a destra, cucita a mano. Poi nel 1913 si optò per una riga orizzontale nel mezzo della divisa e così restò per sempre.
Dopo le partite, i giocatori e i tifosi si accalcavano nelle bettole della fugazza, della fainà e del pesce fritto dove si vendeva il giornale «O Balilla» in dialetto genovese e si incontravano gli uomini delle Confraternite dedicate alle Madonne delle pievi liguri. La sera ci si accalcava nelle balere dove andava in scena quella musica ancestrale che si chiama tango, un pensiero triste che si balla, secondo il maestro Enrique Santos Discépolo.
Di fronte allo spaesamento e alla mancanza di radici, quei ritrovi poco illuminati, fumosi e dall’aria malsana diventano piccoli angoli di certezze con un bicchiere d’alcool da ingurgitare, una bibita da sorseggiare, un matè da bere, un amico con cui scambiare due chiacchiere, una donna da puntare e una fotografia appesa alle pareti che rammenta la stagione dei piroscafi. L’intimità del salone da ballo trasmette sicurezze al contrario della maestosità di Buenos Aires che incute l’eterna inquietudine dell’emigrante. Nel tango si piangono gli amori finiti, i famigliari perduti, i luoghi abbandonati, la gioventù svilita, la nostalgia delle radici smarrite per sempre. Si guardano i propri vecchi che hanno attraversato l’oceano e di colpo ci si sente più anziani di loro avendo portato dall’altra parte dell’Atlantico il peso memoriale di intere generazioni. Il senso dell’addio non si placa, uno stato d’animo ansioso insediatosi subdolamente nel fondo dell’anima di chi ha varcato l’oceano senza un apparente motivo, oltre la pura sopravvivenza. Gli incalliti amanti della milonga, tra un singhiozzo e una lacrima, non fanno mancare mai al cantante una tirata di fumo o un bicchiere di vino per mantenerlo sveglio. Con il tango i corpi si toccano, si sfiorano, i sudori si mischiano, i profumi si trasferiscono dal collo della donna alle narici dell’uomo che guida la coppia, dirige la circolazione, scaccia le convenzioni del passo e inventa delle pose, come solo si inventano nell’atto dell’amore. Lui cinge la vita di lei; lei appoggia la mano sinistra sulla spalla di lui; poi si stringono la mano forte, come se dovessero attraversare di nuovo l’oceano.
Tra un bicchiere e l’altro nei locali del tango chiamati peringundines qualcuno rammentava un’immagine di Boccadasse, una barca, una nave, la Lanterna di Genova, la focaccia di Recco e le acciughe di Monterosso. Il mondo sembra sfilarsi e diventare una trama di rotte senza ritorno. Allora tutti brindano alla squadra dei xeneizes sentendosi d’improvviso in nessun luogo, in quel limbo di sensazioni che rinuncia al rimpianto e fa guardare avanti.
Orgogliosi, introversi e brontoloni, i boquenses si sono sempre sentiti diversi, chiusi nella loro particolarità tutta ligure. Dopo vari tentativi secessionistici, nel 1882 decisero di autoproclamarsi República Independiente de La Boca. Su 35 mila abitanti, gli spagnoli erano solamente duemila. Il resto era gente che non aveva mai visto una pianura, era nata e cresciuta tra le onde, annusava la direzione del vento, conosceva il corso delle nuvole, cavalcava l’Atlantico alla ricerca di una rivoluzione da combattere. Dal 1860, infatti, la Boca divenne la meta dell’emigrazione politica peninsulare scontenta del risultato ottenuto dal Risorgimento italiano. Tra loro garibaldini e carbonari, innervati da spirito internazionalista, esponenti di società segrete e logge, repubblicani e rivoluzionari esiliati, nizzardi senza più patria. La loro voce era il giornale «El Ancla», definito primo periodico della Boca e di Barracas, apparso dal 1875. I ragazzi erano colmi di nostalgia per l’Italia perduta. Crescevano coltivando tre parole: patria, libertà e indipendenza. E anche se vivevano con un piede sulla terraferma e un piede su una nave, uno in Sudamerica e uno ancora fermo in Liguria, molti di loro intuivano che non avrebbero più fatto ritorno in quell’arco di montagne affacciato sul mar Mediterraneo.
Così sul Riachuelo issarono la nuova bandiera albiceleste con lo scudo dei Savoia al centro e un fregio di stampo repubblicano, si misero a battere moneta, dichiararono il ligure lingua ufficiale e firmarono un atto che inviarono al re d’Italia Umberto I con la prima nave che salpò dal molo chiedendo il riconoscimento internazionale.
Quando al generale Julio Argentino Roca, presidente della Repubblica argentina che aveva sterminato gli indios della Patagonia, dissero che i xeneizes della Boca avevano avviato un’azione secessionista a pochi passi dalla sua residenza, pensò che fosse una pittoresca ribellione dovuta all’alto consumo di vino e alcolici. Invece in poche ore, grattandosi il folto pizzetto che puzzava di sangue mapuche, in segno di perplessità, si rese conto che quelli della Boca facevano sul serio. «Vogliono fare come a San Marino» proclamò un segretario del presidente Roca, di chiara origine romagnola. I promotori si chiamavano Vernengo, Cafferata, Blanco, Ungaro, Invierno, Castañera e Perazzo. Fu lo stesso Roca a recarsi in carrozza nella Boccadasse bairese per contrattare la resa o meglio l’accordo. Fu tale la forza di persuasione di Roca che il giorno seguente i boquenses genovesi battezzarono col nome di Presidente una delle calli principali della zona.
Juan Antonio Farenga hijo (figlio) mi mostra una foto del 25 maggio 1940. All’inaugurazione della Bombonera, al centro del campo, gli eroi della fondazione del club tengono dispiegata la bandiera del Boca: José Farenga, Juan Antonio Farenga, Arturo Penney, Ludovico Dollens, Juan Priano, Marcelino Vergara e Pedro Moltedo. Camminiamo lasciandoci alle spalle gli spalti dello stadio. Juan Antonio si tiene ad un bastone, gambe arcuate, occhiali e baffi, e si ferma spesso. Per lui ogni angolo di questo quartiere contiene una storia, una vicenda, un aneddoto, un ritrovo: la salumeria dei Delfino, il vino dei Cacace, la pizzeria di Juan Priano, la focaccia e la farinata di Tuñin de la Boca e quella di Pedrin, che la vendeva davanti allo stadio su un banchetto.
Passeggiare oggi davanti alla Bombonera incute un certo timore. «Nel 1932, quando si decise di acquistare il terreno per costruire lo stadio – racconta Juan Antonio Farenga hijo –, l’idea di mantenere i famosi isolati di via Del Crucero, oggi Del Valle Iberlucea, era già in circolazione».
La massiccia costruzione inaugurata nel 1940 con le sue forme rigonfie e le tribune inclinate verso il campo sembrano contenere tutta la memoria di una grande storia. L’emigrazione si fonde più dentro lo stadio che non nelle calli disadorne del barrio dove, ancora adesso, l’acqua la fa da padrone e diventa l’elemento coagulante.
Mi trovo sotto l’ingresso principale della Bombonera lato nord. Questa “scatola di cioccolatini” dai colori giallo e blu dipinti sugli spalti ha una conformazione particolare, a forma di D. Ha tre lati alti e verticali, con curve di continuità, e un lato, quello della tribuna, stretto e più basso, quasi affilato. E anche le case le stanno addosso per tre lati mentre il quarto, all’opposto della tribuna, ha un piazzale antistante e le abitazioni distanti. Questa particolare sagoma determina una vocalità unica dello spazio: non a caso la tifoseria della Bombonera è chiamata La Doce – il dodicesimo uomo in campo – poiché i cori si trasmettono sul campo come un’onda vocale. Benché le abbiano affibbiato diversi nomi (prima Camilo Cichero, poi Alberto J. Armando), tutti la chiamano Bombonera perché il suo progettista, l’architetto triestino Viktor Sulcic, al momento della presentazione del progetto (basato sull’Artemio Franchi di Firenze) aveva ricevuto in regalo una scatola di cioccolatini dai colleghi, in particolare da José Delpini, che così lo ribattezzò.
Ho un amico che è cresciuto di fronte alla porta d’ingresso della Bombonera, una posizione in cui è difficile, in certi giorni, ottenere pace e tranquillità. Si chiama Juan Bautista Stagnaro ed è un regista di cinema. Ha realizzato film come Casas de fuego, La furia, El amateur, Un día en el paraíso, El séptimo arcángel e la sceneggiatura del film Camila, finalista all’Oscar 1984 come miglior film straniero.
Suo padre è emigrato dalla Liguria, faceva il pescatore, è andato prima a Mar del Plata e dopo alla Boca. Stagnaro si sofferma su un aspetto che sembra insignificante ma non lo è: «La Bombonera ha una acustica perfetta. Si dice che le voci di cinquantamila persone coprano letteralmente il cemento. Per questo non è meno grande il peso del suo silenzio, nei giorni feriali».
Lui lo sa bene, ha vissuto con quei silenzi e quei clamori. Li ha nella testa, rimbombano al solo pronunciarli. La prima volta che è entrato oltre quella muraglia possente che dominava la finestra di casa sua è stato nel 1963: «Il campo era vuoto, le tribune vuote, guardavo il fossato mezzo pieno di acqua piovana che all’epoca separava le tribune dallo spazio di gioco. Poi, all’improvviso, entrarono dei calciatori, gli eroi delle fatiche, lontano dalle immagini colorate delle copertine delle riviste. In quel silenzio si poteva sentire l’impatto del piede sulla palla, con un lieve ritardo dovuto alla distanza, un leggero disallineamento, un fallimento di sincronizzazione. I calciatori ridevano, si facevano degli scherzi, sembravano ragazzi, ma che ragazzi, uomini infantili, si spingevano l’un l’altro, si lasciavano cadere sull’erba, come bambini, lontano dalle gesta della domenica pomeriggio. Sembravano degli dèi sprovveduti con i loro pantaloncini sbiaditi da ginnastica. C’era un solo spettatore nella cancha vuota, un ragazzo, io. Una inversione della logica dello sguardo, dall’interno verso l’esterno. Che pensavano gli dèi del pallone di quell’adolescente che di tanto in tanto alzava lo sguardo dal libro e li guardava? L’adolescente leggeva, sognava e guardava. Era il titolare esclusivo del suo sguardo. Ancora ha tutta la vita davanti. Però i suoi sogni erano poveri, accessibili. Quale di quegli dèi provocherà il delirio nella ...

Indice dei contenuti

  1. I genovesi che inventarono il Boca
  2. La squadra di papa Francesco
  3. San Paolo metropoli italiana
  4. I casertani di Caracas
  5. Vessillo Bartoli eroe del Paraguay
  6. I piemontesi del Peñarol
  7. Angiolino Badini, addio capitano, mio capitano!
  8. Sallustro, da Asunción a Napoli
  9. Trio delle meraviglie del Toro
  10. Mundial del 1930, una finale tra oriundi
  11. I tangueros del quinquennio d’oro della Juve
  12. In fuga dall’Ovra
  13. Labruna e Di Stefano, italiani mancati
  14. I fratelli Evaristo e il peso della disfatta
  15. Juan Claudio Culiolo, il genoano dell’oceano
  16. Edoardo Agnelli e il suo allenatore
  17. Mussolini lancia il Bologna uruguayano
  18. Brasilazio, il Duce e la samba
  19. I livornesi sbarcano in Cile
  20. I trucchi di Lorenzo El Toto
  21. I cinque bidoni nerazzurri
  22. Le ultime parole del Petisso
  23. Ghiggia e Schiaffino, lo spendaccione e il tirchio
  24. Gardel, il tango e il pallone
  25. Arrivano gli angeli dalla faccia sporca
  26. L’oriundo triste e il ballerino
  27. Sormani e Altafini, la fantasia carioca al potere
  28. Fútbol, golpisti e potere
  29. Pablo Neruda, Francisco Valdés e la partita fantasma
  30. L’Infinito di Leopardi e la Pulce