Peccato o crimine
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Peccato o crimine

La Chiesa di fronte alla pedofilia

  1. 296 pagine
  2. Italian
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Peccato o crimine

La Chiesa di fronte alla pedofilia

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Lo scandalo della pedofilia rappresenta una delle più gravi crisi che la Chiesa si sia trovata ad affrontare da alcuni secoli. Ma da cosa nasce un terremoto che non accenna tutt'oggi ad avere fine? Come mai la Chiesa fatica a far fronte a un fenomeno che le ha causato discredito, disaffezione e un'acuta crisi spirituale? Una ricostruzione originale e spiazzante di due grandi storici.

A partire dagli anni Ottanta, migliaia di sacerdoti in tutto il mondo sono stati inquisiti per aver abusato sessualmente di minori. Decine di vescovi e di cardinali sono stati accusati di aver coperto e insabbiato le inchieste. Ma come mai la Chiesa ha faticato a reagire e non ha saputo affrontare lo scandalo della pedofilia? Le molte spiegazioni offerte sinora sono parziali e nel complesso insoddisfacenti. Davvero la responsabilità è attribuibile al clericalismo o alla libertà sessuale della nostra società? Questo libro propone una chiave di lettura diversa che parte dalla storia della Chiesa e dalla sua tradizione dottrinale. Per molto tempo, infatti, la pedofilia è stata considerata dalla Chiesa un peccato e posta sullo stesso piano dell'omosessualità. Ma mentre l'opinione pubblica del mondo occidentale ha preso a considerarla come il crimine peggiore, il più irredimibile, la Chiesa ha continuato a giudicare l'abuso di minori come qualcosa di emendabile, attraverso la confessione e la penitenza. Un caso clamoroso e molto significativo della difficoltà di adattarsi al mutamento storico.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858144725

Parte II.
Sessualità, clero e minori: una storia

Capitolo I.
Peccato, penitenza e clero
dall’antichità al medioevo

Nelle pagine seguenti si tenterà di spiegare da dove derivi l’incomprensione delle gerarchie nei confronti dell’odierna percezione pubblica dei crimini di pedofilia del clero. Si proverà a tracciare, mediante una cavalcata plurisecolare nella storia, l’itinerario dell’elaborazione dottrinale, degli istituti repressivi e del diritto della Chiesa, per mettere a fuoco la lunga durata di una serie di riflessi condizionati in materia di relazioni tra il peccato e il reato e di difesa corporativa del clero. In sostanza, si proverà a comprendere perché il minore abusato in quanto tale non sia stato al centro delle cure pastorali, nonché a definire che cosa la Chiesa ha inteso rubricare sotto la categoria di «delitto di sollecitazione» (l’adescamento sessuale da parte del clero). Con una precisazione: per sciogliere i nodi che queste domande implicano sarà utile trattare non solo della confessione auricolare personale ma anche del controverso rapporto tra la Chiesa e la sessualità, e in particolare dell’imposizione del celibato ecclesiastico e della stigmatizzazione di una fattispecie di peccato che per secoli ha preso il nome di «sodomia» o di «vizio indicibile» e «contro natura». Infatti, la già richiamata e indebita sovrapposizione operata dal magistero tra pedofilia e omosessualità ha un passato che occorrerà rievocare, senza trascurare la questione che alla Chiesa è stata a cuore più della protezione delle vittime: la difesa del segreto che caratterizza la penitenza sacramentale e ne arricchisce il valore sacrale. Come vedremo, nel corso dei secoli la teologia e il diritto della Chiesa hanno teso a distinguere la nozione di peccato da quella di reato, e la giustizia del sacramento da quella dei tribunali, in particolare quelli secolari. Ciò contribuisce a spiegare perché, dopo la Rivoluzione francese e dopo la cancellazione dell’efficacia della giustizia del foro ecclesiastico per castigare i laici, e sino agli scandali del tardo Novecento e del XXI secolo, la Chiesa non abbia mai preso in considerazione la possibilità di deferire all’autorità civile i chierici colpevoli di abusi sessuali perpetrati contro i minori, spesso recidivi.
La narrazione avrà inizio dai primi secoli della cristianità, quando tramontò il modello erotico della pederastia classica e la dottrina elaborò la condanna della concupiscenza, ovvero del desiderio erotico. Attraverserà poi la storia della Chiesa nel medioevo, dall’affermazione del celibato a quella dei tribunali dell’Inquisizione. Si soffermerà quindi sulla prima età moderna, quando dalle Inquisizioni fu inventato il delitto di sollecitazione per punire tutti quei confessori che avessero abusato della penitenza per fini sessuali. Metterà inoltre a fuoco come dopo la Rivoluzione francese la Chiesa abbia dovuto fare i conti con la perdita di efficacia dei suoi istituti repressivi e con l’esplosione del discorso medico e psichiatrico circa la sessualità. In questo senso si dedicherà una particolare attenzione agli affari giudiziari di fine Ottocento e inizio Novecento, quando la pedofilia del clero divenne un’arma politica sia in Francia sia in Italia. E si chiuderà con il XX secolo, concentrandosi prima sulle politiche della santità e sul ridisegno delle norme ecclesiastiche destinate a colpire i peccati della carne ma anche a tutelare il segreto delle indagini e l’onore del clero. Infine parleremo della crisi del secondo Novecento, quando la Chiesa, sfidata dai movimenti di liberazione delle donne e dei gay, reagì arroccandosi in una parziale continuità con la prassi pastorale e la dottrina che le avrebbero impedito di riconoscere il punto di vista delle vittime e di percepire i forti cambiamenti di stile di vita e di sensibilità del secondo dopoguerra. In breve, questo percorso aiuterà il lettore ad afferrare i meccanismi penitenziali e giudiziari con i quali la Chiesa ha esorcizzato gli scandali e il nodo della sessualità di un clero indisciplinato, impedendosi l’empatia per le vittime e la comprensione dell’allarme che gli abusi dei religiosi (e più in generale la violenza sui minori) suscitano adesso nell’opinione pubblica.

1. Contro natura

Se si vogliono comprendere la storia del cristianesimo e quella della Chiesa come comunità di fedeli che lentamente si dà un assetto e una gerarchia si dovrà partire non tanto da Gesù (che del resto ebbe poco da dire circa quella che oggi definiamo sessualità) ma da un uomo che ne abbracciò e interpretò il messaggio dopo la sua morte in croce. Saul (che in greco fu chiamato Paolo) era il figlio di un ebreo della diaspora che aveva la cittadinanza romana e nacque a Tarso, città ellenistica dove erano fiorenti le scuole di filosofia che rielaboravano il pensiero greco. Infaticabile viaggiatore, per circa trent’anni, prima di morire a Roma, si pose come missione quella di convertire i pagani, prendendo posizione per un allargamento nella nuova setta oltre le comunità ebraiche senza imporre ai gentili né le regole di purificazione, né le norme e i riti tipici dell’ebraismo prima della distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C.). Lo si è chiamato perciò «l’apostolo dei gentili» o «delle genti», e le sue lettere originali, così come quelle che gli sono attribuite, sono state canonizzate come parte del Nuovo Testamento, costituendo un corpus scritturale che avrebbe segnato profondamente la storia dell’interpretazione teologica e il modo in cui si sarebbero configurate la fede e la Chiesa di Cristo distaccandosi progressivamente dal solco dell’ebraismo per universalizzarsi.
Paolo elaborò una complessa dottrina della colpa e della giustizia e si occupò non marginalmente della questione di come i cristiani avrebbero dovuto governare i loro corpi insieme alle loro anime in attesa della seconda discesa di Cristo e della salvezza. Nella prima lettera indirizzata ai Corinzi fu esplicito: i neofiti non avrebbero dovuto ricorrere al giudizio dei tribunali secolari pagani quando si trattava di dirimere le controversie che agitavano le comunità cristiane, perché spettava alla Chiesa stabilire al proprio interno come risolvere le liti e castigare le ingiustizie. «Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio?», si legge. «Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio». E più avanti: «Il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore» (I Cor 6, 9-10, 13). Le parole greche impiegate nel testo sono malakoi (che nella versione latina di san Girolamo diventa molles: effeminati) e arsēnokoitai (masculorum concubitores: maschi che si sdraiano con altri maschi per sodomizzarli). La loro condanna, sebbene non esclusiva, suona netta ed è rafforzata da un passo dell’epistola ai Romani destinato a giocare un ruolo fondamentale nella futura classificazione cristiana dei peccati di una carne da curare come il tempio dell’anima. Scrisse infatti l’apostolo delle genti che i pagani meritavano di subire la furia divina perché avevano corrotto la verità e adoravano idoli di forme bestiali: «Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri commettendo atti ignominiosi [...], ricevendo così in sé stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento» (Rm 1, 26-27). Pronunciando tali condanne Paolo mostra di essere erede della tradizione mosaica, le cui norme rituali – sancite nei primi cinque libri della Bibbia, detti Pentateuco – stigmatizzavano con parole altrettanto nette sia la prostituzione sacra dei maschi e delle femmine (Dt 23, 18) sia diverse specie di impurità sessuale: «Non avrai con il maschio relazioni come si hanno con la donna: è un abominio. Non ti abbrutirai con alcuna bestia per contaminarti con essa» (Lv 18, 22-23). E più avanti: «Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro» (Lv 20, 13). Nel Pentateuco l’elenco di impurità sessuali non si limita alla sacra prostituzione, ai rapporti omosessuali e alla bestialità; né in questa sede vi è spazio per esporre le discordi interpretazioni degli esegeti circa il significato da attribuire a tali passi. Basti osservare che, quanto alle relazioni omoerotiche, già il testamento ebraico bollava in pari misura chi ricoprisse un ruolo sessuale passivo o attivo prescrivendo la condanna a morte e il castigo divino sui corpi impuri.
Vedremo fino a che punto a questo riguardo la tradizione ebraica si discostasse da quella greco-romana, che insisteva sul ruolo sessuale rivestito dal maschio in una relazione omoerotica. Ma intanto occorre dire che, evocando l’ira celeste, i passi del Levitico e del Deuteronomio si collegano idealmente al celebre episodio della distruzione di Sodoma e Gomorra raccontato in Gn 19, 1-29. Città fiorente ma dedita al vizio, Sodoma – dove in seguito al diluvio si era stabilito Lot, nipote di Abramo – viene visitata da due angeli del Signore che trovano ospitalità solo nell’abitazione del patriarca. Ma una folla di sodomiti, giovani e vecchi, si accalca sull’uscio della casa esigendo la consegna dei due angeli allo scopo di abusarne (nell’originale yādhā: conoscerli in senso carnale). Per salvare i due ospiti Lot si spinge sino a offrire in cambio le proprie figlie perché i sodomiti sfoghino sulle due donne la loro furia e i loro appetiti, ma il suo tentativo non sortisce buon esito. Gli uomini sfondano la porta per violare gli angeli, che a quel punto impongono al pio Lot (uno straniero) e alla sua famiglia di lasciare la città prima che giunga inesorabile la vendetta celeste, senza mai voltarsi indietro. Lot ubbidisce e si muove in direzione di Zoar, ma la moglie ignora il monito degli angeli e si gira per guardare quanto accade, tramutandosi in una statua di sale. Dio, infatti, lancia una pioggia di fuoco e di zolfo su Sodoma e sulla vicina Gomorra fino a raderle al suolo, distruggendone i campi e sterminandone tutti gli abitanti. Forse, come sostengono alcuni esegeti, si deve intendere che l’ira divina colpisca anzitutto la trasgressione di ogni regola di ospitalità da parte degli empi abitanti delle due città distrutte. E tuttavia, nelle interpretazioni successive di ebrei, cristiani e islamici, l’episodio sarebbe stato letto come un giusto castigo per la violazione sessuale «abominevole» progettata dai sodomiti, che, secoli più tardi, dopo l’anno Mille, avrebbero fornito il nome a una particolare fattispecie di peccatori della carne.
Del resto, un secondo episodio della Bibbia sembra confermarlo. Si tratta della storia meno nota di un uomo di Ephraim consacrato a Dio (ovvero di un levita, un membro della tribù di Levi) che recupera la propria donna tornata dal padre a Betlemme e sulla via del ritorno si ferma nella città di Gabah, dove gli abitanti del luogo si radunano alla porta dell’ospite ingiungendogli di consegnare l’uomo perché possano conoscerlo carnalmente (nella Bibbia latina si legge ut abutatur eo, per abusarne: Iud 19, 1-30). Per impedire che si compia un gesto tanto folle (letteralmente nevālāh, ma il latino forza un poco il testo e parla di un misfatto contro natura: uno scelus contra naturam), il buon uomo offre la propria figlia in luogo del levita. Ma gli abitanti di Gabah accettano di cambiare obiettivo solo per abusare della moglie dello straniero che, dopo lo stupro, di mattina, viene ritrovata in fin di vita dal consorte che l’aveva offerta per scampare ai propri potenziali violatori. Più tardi il levita la uccide, ne squarta il cadavere in dodici pezzi, li invia alle diverse tribù di Israele che a quel punto vendicano il misfatto radendo al suolo la città, sterminandone il bestiame e passandone a fil di spada migliaia di abitanti.
Si potrebbero citare altri passi; ma quel che importa rilevare in queste pagine è che se i potenziali violatori di Sodoma, Gomorra e Gabah subiscono il castigo di Dio o delle comunità ebraiche per le loro intenzioni o per prevenire un abominio, san Paolo – come si è visto – afferma una cosa diversa: che nei pagani la lussuria tra due maschi e alcuni atti sessuali praticati dalle donne sono il segno della punizione celeste, la manifestazione visibile di una perversione che trova riscontro nei culti idolatrici. Insomma, tali atti sono essi stessi un castigo perché pervertono l’inclinazione naturale dei comportamenti umani. Del resto, quando condanna alcune specie di desiderio, Paolo puntualizza che si tratta di atti contro natura (in greco: para physin), impiegando un’espressione tutt’altro che ingenua e una categoria, assente nella tradizione ebraica, che – come vedremo – non fu l’apostolo il primo a forgiare. Dalla fine del Novecento, quando la questione della pedofilia ha cominciato a guadagnare rilevanza pubblica per essere giudicata – al contrario dell’omosessualità – come un comportamento quasi universalmente intollerabile, diversi studiosi allo stesso tempo gay e cattolici hanno fatto sforzi ben comprensibili per attenuare la durezza della condanna paolina delle pratiche omosessuali.
Per esempio, per limitare il valore immutabile e la severità di quei passi del Nuovo Testamento, fini interpreti come John Boswell (1981) e Robin Scroggs (1984) hanno sottolineato giustamente che la condanna dei legami omoerotici non compare mai nelle parole attribuite a Cristo nei Vangeli. Ma il secondo ha aggiunto che, destinando al fuoco eterno coloro che avessero compiuto atti omosessuali sia attivi sia passivi, Paolo non intendeva condannare il desiderio omoerotico in sé, quanto piuttosto proteggere i giovani maschi dalle pratiche pederastiche tipiche delle società greco-romane. In sostanza, san Paolo si sarebbe preoccupato di stigmatizzare gli abusi compiuti sui minori tentando così di proteggere le vittime passive dei rapporti tra individui di sesso maschile attestati nell’antico spazio ellenizzato popolato dai pagani. Difficile accettare una simile interpretazione, che farebbe di Paolo una sorta di anacronistico campione della lotta contro la pedofilia e la pederastia. E tuttavia tale lettura sembra fondarsi su un altro passo di una lettera attribuita a Paolo in cui l’apostolo, rivolgendosi al fedele Timoteo, si premura di ribadire che la legge non è fatta per i giusti ma per colpire «i fornicatori, i pervertiti, i trafficanti di uomini» (I Tim 1, 9-10). Queste le parole che si leggono in una versione corrente della Bibbia, sebbene il testo greco parli esplicitamente di prostituti, sodomizzatori e uomini che favoriscono la prostituzione maschile. Come che sia, se è vero che il mercato sessuale antico assoldava soprattutto maschi giovani e giovanissimi, a interessare san Paolo non sembra affatto l’età di chi ha commesso o ha «subìto» il peccato, né la circostanza per cui il minore passivo potrebbe configurarsi come la vittima di un rapporto omoerotico di cui non è complice (altrimenti la condanna dell’apostolo non si estenderebbe al partner passivo più giovane). Piuttosto, è la stigmatizzazione dell’impurità il centro del suo discorso: un’impurità che contamina il corpo tanto più quando avviene al di fuori dei confini fissati dalla natura: ovvero para physin.
Come si accennava, Paolo non fu il primo a definire e a distinguere le pratiche sessuali «secondo natura» da quelle «contro natura», o se si vuole un uso sessuale del corpo da considerarsi virtuoso e funzionale da un uso vizioso, disfunzionale e degno di condanna. Al contrario, fu la stessa riflessione filosofica e medica dei greci e dei latini a partorire una simile classificazione, fondata su un sostrato platonico e stoico di certo noto a Paolo e che è stato oggetto di molte riflessioni, a cominciare da quelle dell’intellettuale francese Michel Foucault nelle lezioni che negli anni Settanta e Ottanta del Novecento ha dedicato alla storia della sessualità. Ben prima che il cristianesimo esaltasse la castità come un valore per il clero ma anche per i laici, per gli uomini come per le donne, riconoscendo nel matrimonio indissolubile l’esclusivo spazio lecito per l’esercizio di una sessualità finalizzata comunque alla riproduzione; e ben prima che nel IV secolo d.C. il riconoscimento ufficiale della nuova fede di matrice ebraica da parte dell’Impero romano rendesse meno visibili comportamenti assai diffusi relegandoli nella sfera del peccato e – lo vedremo – del crimine, fu lo stesso mondo classico a deprezzare progressivamente alcune inveterate abitudini sessuali, prima delle quali fu senz’altro la pratica della pederastia, che differì sensibilmente nel tempo e nello spazio dell’antichità. Infatti, se nella Grecia classica, e non solo in Atene, il legame erotico e sessuale tra due maschi – l’uno assai giovane e l’altro adulto ma non necessariamente troppo avanti in età – fu consentito e per di più esaltato e valorizzato qualora fosse avvenuto tra liberi cittadini e figli di cittadini della polis; a Roma, al contrario, sin dai tempi della repubblica la legislazione fu piuttosto attenta a preservare i piccoli rampolli del ceto dirigente da esperienze analoghe a quelle cantate dai poeti greci.
Da tempo gli storici sottolineano che i rapporti tra efebi e uomini più maturi non furono le sole relazioni tra maschi attestate in epoca classica (maggiore fu il silenzio sull’amore tra donne, nonostante Saffo). Nelle città (poleis) vi furono adulti che ebbero scambi occasionali o stabili con altri maschi adulti, e vi furono uomini maturi che gradirono il ruolo passivo invece di quello attivo al quale la concezione dei legami erotici destinava chi superasse una certa soglia di età. Infatti, obbedendo alla funzione che gli spettava in una società ultra-patriarcale che aveva una bassa considerazione del sesso femminile, il maschio adulto libero si sposava e procreava con una donna più giovane (oggi diremmo minore); ma – specie se apparteneva all’élite – gli era lecito praticare con schiave e schiavi (una proprietà) e con prostitute e prostituti disponibili in un mercato fiorente. Se il comune sentire e la letteratura comica stigmatizzavano l’adulto che umiliasse la propria virilità continuando a rivestire il ruolo passivo, al contrario assumere parte attiva in una relazione omoerotica con un adolescente tra i dodici e i diciott’anni (pais), prima che la peluria ne facesse sfiorire la bellezza virginale, era un’esperienza valorizzata come modello di acculturazione alla cittadinanza adulta (paideia). Nelle scuole, nelle palestre, nei convivi, a teatro, l’adulto degno – di età superiore ai vent’anni ma non troppo maturo – poteva corteggiare e conquistare il pais (il pre-adolescente, o meglio l’adolescente), ricambiando il piacere ricevuto con l’istruzione fisico-intellett...

Indice dei contenuti

  1. Parte I. L’emergere del dramma
  2. Parte II. Sessualità, clero e minori: una storia
  3. Conclusioni. Un salto di paradigma
  4. Nota bibliografica
  5. Avvertenza e ringraziamenti