Vivere la democrazia
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Vivere la democrazia

  1. 160 pagine
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Vivere la democrazia

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«Per vivere occorre un'identità, ossia una dignità. Senza dignità l'identità è povera, diventa ambigua, può essere manipolata.»

Il libro postumo di Stefano Rodotà può essere letto come un ampio e appassionato commento a questa frase di Primo Levi. Tutti e tre i termini invocati da Levi – identità, dignità e vita – s'incrociano in questa riflessione che restituisce il nucleo profondo della sua ricerca. Una ricerca che definire giuridica è al tempo stesso esatto e riduttivo: esatto perché il diritto costituisce l'orizzonte all'interno del quale Rodotà ha collocato il proprio lavoro; riduttivo perché ha sempre riempito la propria elaborazione giuridica di contenuti storici, filosofici, antropologici, ponendo il diritto a contatto diretto con la vita. Roberto Esposito, "la Repubblica"

L'ultima riflessione di un grande intellettuale sul tumulto del nostro tempo.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858139059
Argomento
Economics

Verso i beni comuni

I beni comuni sfidano le due categorie fondative della modernità: sovranità e proprietà. Lo aveva detto il maggiore tra gli artefici del Code civil des français, Jean-Étienne-Marie Portalis: «al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l’impero»61. Ecco indicati, con ammirevole semplicità, il senso e la portata dell’operazione politica realizzata attraverso il Code, individualista e patrimonialista. La proprietà dà il tono al codice. Lo aveva già detto con assoluta chiarezza Cambacérès, scrivendo che «la legislazione civile regola i rapporti individuali e attribuisce a ciascuno i suoi diritti in relazione alla proprietà»62. Lo sapeva bene Napoleone che, nel suo proclama del 18 brumaio, si presentava appunto come il difensore di «libertà, eguaglianza e proprietà», reinterpretando, attraverso la cancellazione della fraternità, la triade rivoluzionaria. Portando a compimento questo disegno, il Code Napoléon definisce non solo lo statuto della borghesia vittoriosa, ma l’intera trama delle relazioni tra i cittadini, divenendo così il piano dei rapporti sociali.
Non a caso Jean Carbonnier ha parlato del Code civil come della «costituzione civile dei francesi»63. Le conseguenze di questo radicale mutamento sono evidenti. «Ecco in mano mia il Codice civile. Non è per nulla il prodotto della società borghese. È piuttosto la società borghese, nata nel XVII secolo e sviluppatasi nel XIX, che semplicemente trova nel Codice una forma giuridica»: così Karl Marx nel 184964.
Il cammino intrapreso nel Novecento è stato quello che hanno seguito le costituzioni successive alla seconda guerra mondiale con una duplice operazione: istituzionalizzando lo spazio dei diritti fondamentali con un passaggio dallo «Stato di diritto» allo «Stato costituzionale dei diritti»; e rendendo così possibile l’ulteriore passaggio dal soggetto alla persona65, intendendo quest’ultima come la categoria che meglio permette di dare rilevanza alla vita materiale e alla sua immersione nel sistema delle relazioni sociali. Da qui, in definitiva, una nuova antropologia, espressa attraverso una vera e propria «costituzionalizzazione» della persona.
Questa è una vicenda che non si è svolta con le medesime modalità in tutti i paesi e nei diversi sistemi giuridici. Ma comune è stata la riscoperta dell’irriducibilità della persona a schemi astratti e della necessità di ripensare il complessivo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni attraverso il collegamento e il filtro dei diritti fondamentali e delle modalità di una loro effettiva tutela. Tutto questo, per un non inedito paradosso, accade proprio in una fase in cui il diffondersi dell’ordoliberismo e la finanziarizzazione della società vogliono imporre una nuova sottomissione delle persone alla pura logica proprietaria, ad una legge del mercato nella quale si sarebbe incarnato un nuovo diritto naturale, con un conseguente trasferimento al mercato del potere normativo. L’obiettivo, perseguito con una strategia globale, è quello della creazione di una società interamente di diritto privato66.
Questo prepotente ritorno della categoria della proprietà è accompagnato da un mutamento dell’altra categoria, quella della sovranità. Essa ha perduto il «territorio giacobino», governato da un unico centro, chiuso in sicuri confini, e si dilata ormai sull’intero pianeta, affidata a soggetti privi di ogni legittimazione democratica, in cui si incarna il nuovo «sovrano» che governa un «impero» tendenzialmente sconfinato, per la volontà di potenza degli attori economici, per le relazioni di mercato, per la costruzione di questo mondo nuovo e interconnesso operata dalla Rete. Rispetto a questo assetto del mondo i beni comuni si manifestano come una contraddizione che non può essere riassorbita, come l’espressione di una logica conflittuale, come la continua manifestazione di anticorpi diffusi contro la finanziarizzazione del mondo.
Questa sommaria ricostruzione ci porta a un interrogativo e a una constatazione. Quale soggettività accompagna l’emersione dei beni comuni? Siamo di fronte a una discontinuità storica e a una rottura politica e sociale?
È necessario riflettere su questi interrogativi, sull’ultimo in particolare, perché si parla spesso di una rinascita dei commons, riferendosi a molteplici esperienze del passato, anche assai diverse tra loro. Ma sarebbe un errore storico e un segno di debolezza culturale ricostruire la fase più recente come se si fosse di fronte alla ripresa di una continuità interrotta. Le ragioni sono due. Non si può sostenere che saremmo di fronte alla conclusione della fase della proprietà assoluta e solitaria, che finirebbe così con l’essere considerata quasi come un accidente della modernità, una parentesi che si sta chiudendo. Né la rinnovata attenzione per i beni comuni può trovare solida legittimazione in vicende di tempi più o meno lontani. Proprio il carico del passato dovrebbe indurre ad una conclusione opposta. Non si tratta di ricucire una continuità, ma di riconoscere l’avvio significativo di una rottura, di una vera e propria discontinuità. In una fase così impegnativa bisogna liberarsi di ogni ambiguità.
Il costante riferimento delle analisi «continuiste» è abitualmente costituito dall’esperienza inglese dei commons e delle successive loro enclosures. Un’esperienza non generalizzabile già per il tempo nel quale si manifestarono e che può indurre a trascurare differenze che proprio la riflessione storica mette in rilievo. Diviene evidente, prima di tutto, che intorno ai beni variamente definiti «comuni» si è sempre giocata una partita politica per la distribuzione del potere. Oggi, ad esempio, si manifesta un’attenzione particolare per l’acqua, per i conflitti che essa provoca, tanto che si giunge a parlare di vere e proprie «guerre dell’acqua». E allora è bene richiamare almeno le analisi di un grande studioso, Karl August Wittfogel, secondo il quale il dispotismo orientale si manifesta anche attraverso la costruzione di una «società idraulica»67, esercitando così un «potere totale» che consente un controllo autoritario dell’economia e delle persone.
Il nodo è sempre quello del legame tra sovranità e proprietà, descritto nelle analisi più recenti con riferimento a Stato e mercato, una diarchia di cui proprio la categoria dei beni comuni consentirebbe il superamento. Come sciogliere quel legame da tempo costituisce un problema che, a partire dagli anni Sessanta, si è cercato di risolvere attraverso la costruzione di una categoria di beni dichiarati patrimonio comune dell’umanità. Ad alcuni di questi beni fanno riferimento, con valore giuridico e significati differenziati, trattati e convenzioni internazionali: si tratta, in particolare, del fondo del mare, dell’Antartide, dello spazio extratmosferico, del patrimonio culturale dei singoli Stati, del genoma umano. Beni, come si vede, diversissimi, che tuttavia è stato possibile prendere in considerazione per dare evidenza a una dinamica istituzionale verso il riconoscimento di beni pubblici globali68.
Il tratto unificante di questi vari testi è rappresentato proprio dalla finalità di escludere che quei beni possano essere oggetto di appropriazione, con il duplice effetto di escludere per essi regole di tipo proprietario ed esercizio di poteri sovrani69. Vengono inoltre previste una loro gestione collettiva, o comunque partecipata, una gestione solo per fini pacifici, un’attenzione per i diritti delle generazioni future.
Si individuano così molteplici soggettività, sia per quanto riguarda le modalità di gestione, sia in relazione ai destinatari della protezione. La categoria generale dell’«umanità» trova una sua concreta articolazione attraverso i poteri/doveri degli Stati firmatari delle convenzioni e la definizione di altre categorie di soggetti legittimati ad esercitare azioni a tutela di quei beni, anche nella forma della gestione diretta, partecipata.
Ma questi soggetti devono essere individuati con maggiore precisione, per evitare i rischi di un ritorno all’astrazione e per non lasciare spazio a logiche autoritarie, a soggetti che si appropriano del potere di rappresentare l’umanità o la natura. Il riferimento alle generazioni future non è un’invenzione dei tempi nostri. Nella Costituzione francese del 1793 si dice esplicitamente che «una generazione non ha il potere di assoggettare alle proprie leggi le generazioni future». Una limitazione che si traduce in una più diretta assunzione di responsabilità verso il futuro nel suggestivo detto degli indiani d’America: «non abbiamo ricevuto la terra in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri nipoti». Proprio seguendo insieme la logica del potere limitato e della responsabilità collettiva è possibile cercare di uscire dagli equivoci che il riferimento alle generazioni future può determinare e giungere alla conclusione che i diritti delle generazioni future concretamente si traducono in doveri delle generazioni presenti. Doveri formalizzati per quanto riguarda gli Stati firmatari delle convenzioni e che, per quanto riguarda una tutela diffusa e partecipata, esigono un riconoscimento di poteri di intervento diretto da parte dei cittadini, legittimati ad esercitare forme di azione popolare.
Quando si prendono decisioni irreversibili o difficilmente reversibili, ad esempio modificando in modo radicale un ambiente, il semplice rispetto del principio di maggioranza non è sufficiente. Si incide, infatti, su uno dei principi della democrazia politica, che si fonda anche sulla possibilità che una diversa maggioranza, espressa dal voto dei cittadini, modifichi le scelte fatte da quella precedente. Per evitare che questo si risolva in un blocco del processo di decisione, si sono messe a punto diverse tecniche che possono evitare o ridurre il rischio di pregiudizi gravi per le generazioni future: procedure tecniche, come la consultazione di esperti e le valutazioni d’impatto ambientale o d’impatto privacy; procedure democratiche, come l’imposizione di maggioranze qualificate per le decisioni e le consultazioni dei cittadini, anche attribuendo loro il potere finale di scelta attraverso referendum; rispetto dei principi di prevenzione e di precauzione, autorizzando l’utilizzazione di particolari innovazioni tecnologiche o di specifici prodotti solo quando siano chiari i loro effetti a lungo termine.
L’umanità compare quando si parla del genoma o di particolari ambienti naturali, storici o artistici, dell’Antartide o dello spazio atmosferico, tutti definiti appunto «patrimonio comune dell’umanità». Si vuole così porre un limite al potere di occupazione da parte degli Stati, che non possono impadronirsi di una porzione della Luna o dell’Antartide; e un ostacolo alla rapacità degli interessi economici che vogliono distruggere un ambiente o brevettare qualsiasi sequenza del genoma umano.
Ma vi sono altre ambiguità da sciogliere quando ci si riferisce all’umanità e ai suoi diritti. Si è molto parlato negli anni passati della foresta amazzonica, assunta come simbolo di un ambiente da salvaguardare in virtù dell’essenziale funzione svolta per l’equilibrio ecologico del pianeta. Ma chi deve sostenere i costi di questa operazione? Se i vantaggi sono di tutti, i costi non possono essere addossati soltanto ai brasiliani, o agli indonesiani che distruggono le loro foreste per ottenere risorse commerciando legno pregiato. Se si vogliono vincere gli egoismi nazionali, e non dare la sensazione che si voglia espropriare un popolo del diritto di disporre liberamente delle proprie risorse, sono necessarie politiche compensative su scala mondiale. In questo senso, l’umanità diventa la comunità degli Stati che deve contribuire, soprattutto con l’intervento dei paesi più ricchi, alla conservazione delle risorse esistenti, con trasferimenti a favore di altri paesi e adottando politi...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’Editore
  2. Identità
  3. Quattro paradigmi per l’identità
  4. La rivoluzione della dignità
  5. Il diritto al cibo
  6. Verso i beni comuni
  7. Dall’umano al postumano
  8. Appendice. «Homo dignus»